In margine alla mostra Germano Sartelli. L’incanto della materia, a cura di Claudio Spadoni,
Imola (Bologna), Imola Musei -Museo di San Domenico, dall’11 aprile al 13 luglio 2025
Io aprirò le mie vene come un libro non letto.
Voi imparerete a leggerlo quando non ci sarò più.
Heiner Müller
Ciò che la follia dice di se stessa è (…) ciò che dice ugualmente sogno
nel disordine delle proprie immagini: una verità dell’uomo (…).
Così, nel discorso comune al delirio e al sogno,
si trovano congiunte la possibilità di un lirismo del desiderio
e quella di una poesia del mondo.
Michel Foucault
Dino Gavina, straordinaria figura di imprenditore e designer del secondo Novecento, agitatore di idee, scopritore e catalizzatore di talenti, che sul suo biglietto da visita si qualificava come “sovversivo” (senza altre indicazioni), amava dire che “un artista autentico è sempre in disparte: non traffica mai per mettersi in vista. Studia, medita, lavora solo: per questo deve essere cercato e stanato”. È il caso di Germano Sartelli, che per decenni visse nella sua casa-studio tra i calanchi delle colline imolesi, dove, proprio grazie a Dino Gavina, ebbi la fortuna di conoscerlo più di trent’anni fa. La scoperta di un grande artista fino a quel momento a noi sconosciuto è un evento così raro ed emozionante che si ricorda sin nei particolari. E può aprirci, davvero, nuove prospettive sull’arte e sulla storia: mette in discussione la nostra conoscenza e ci invita a guardare al passato e al presente con occhi nuovi.
Silenzioso, meditativo, discreto, appartato, certo, l’artista Germano Sartelli, ma non per questo meno informato delle vicende storiche e artistiche del suo tempo e meno appassionato al dibattito che animava la scena dell’arte. Non per questo ignorato da alcuni fra i maggiori critici, in primis Maurizio Calvesi, e soprattutto dai grandi artisti, così grandi da essere in grado di comprendere e apprezzare anche la sua, di grandezza, come Afro e Fontana, che nel 1964 lo invitarono alla Biennale di Venezia: la celebre Biennale in cui esplose la Pop Art americana, la Biennale di Bob Rauschenberg e Jasper Johns. Sartelli portò due grandi sculture in ferro, dove la gravità inerte si trasforma in tensione elastica, in fiamma che avvampa, in armonia musicale di ritmi e pause. Il metallo sembra farsi materia organica fibrillante, che si dilata e si contrae come se respirasse, come attraversata da flussi di energia autoprodotta…Un lavoro completamente estraneo a quel Pop che Pasolini definiva “una specie di discorso libero indiretto figurativo, cioè un pezzo di discorso altrui rivissuto entro un ambito proprio”, ma che si distaccava anche dall’Informale europeo, pur affondando saldamente le proprie radici nel suo terreno migliore. Il discorso di Sartelli era già diverso, perché rispondeva a una logica diversa, una logica altra: un diverso paradigma di pensiero, che lo rendeva, ben prima di Anselm Kiefer, una sorta di allievo di Empedocle (l’antico filosofo-poeta della Magna Grecia a cui Friedrich Hölderlin dedicò un’opera indimenticabile) con la sua dialettica di opposti che convivono in tensione senza elidersi, nella quale egli identificava il fondamento dell’Universo. In queste sculture della Biennale ’64, in cui culminano le ricerche di Sartelli degli anni ’50, si può scorgere – in anticipo su Kiefer di almeno un ventennio – l’emblema di questa tensione, di questa polarità, e di una ciclicità cosmica in grado di trasformare la materia, consumata e corrosa, in germinazione vitale, il resto, il frammento, in forma nascente, il caos in ritmo e armonia, l’apocalisse in cosmogonia.

Cosa gli consente questo cambio di rotta, questo salto di paradigma rispetto alle poetiche del suo tempo? Probabilmente, in ciò è determinante una sua particolare esperienza, importante sia per intensità che per durata: dal 1952 fino agli anni Ottanta, Sartelli insegna pittura all’atelier dell’Ospedale psichiatrico “Luigi Lolli” di Imola, istituto fondato a fine Settecento e chiuso definitivamente solo nel 1996. Già nel 1954, presso la Fondazione Besso di Roma, organizza la prima mostra italiana di opere realizzate dai pazienti dell’Ospedale psichiatrico di Imola, accolta con grande interesse dal pubblico e dalla stampa. Si confronta ben presto, dunque, e per lungo tempo, con il pensiero altro della “follia” che, se durante il Medioevo e il Rinascimento era stata ancora libera di circolare ed esprimersi col proprio linguaggio, considerata anzi indice di una verità profonda, nascosta sotto la superficie delle cose, nel XVII secolo era stata costituita dalla ragione come il proprio dis-valore assoluto e confinata nei limbi dell’insensato, dell’errore, della parola interdetta. Lo stesso anno di quella mostra romana, Michel Foucault pubblica il suo primo scritto, una lunga introduzione all’edizione francese di un testo di psicologia del 1930, Traum und Existenz (Sogno ed esistenza) di Ludwig Binswanger, psichiatra svizzero considerato il massimo esponente della corrente nota come Daseinsanalyse, o analisi esistenziale. Vi delinea un orizzonte psico-antropologico che si propone di riscoprire una dimensione originaria dell’uomo, oltre l’intelletto razionale (il cogito) e l’homo-natura descritto dalle scienze positive. In queste prospettive, infatti, il sogno – e con esso la follia – vengono osservati solo attraverso il linguaggio monovalente dell’istanza raziocinante. Ma sogno e delirio sono inaccessibili alle regole ermeneutiche normalmente impiegate per interpretare i segni. La loro dimensione è quella del simbolico e non quella del segnico. E simboli non sono affatto “immagini” che “stanno per” qualcos’altro, densità incontrollate di senso, polivalenza ed eccesso di significati. Entro questo orizzonte, Foucault stabilisce un parallelo interessante tra sogno, follia, e arte, dove la corporeità riveste un ruolo di prim’ordine. Secondo Merleau-Ponty – che per molti aspetti influenza Foucault, almeno nei primi anni della sua ricerca -, il corpo è l’apertura originaria dell’uomo al mondo: il corpo anatomico e il corpo vissuto si polarizzano in un’appassionante tensione poetica, che rinvia alle radici originarie della corporeità. Le stesse, forse, dell’arte di Sartelli. Un’arte che, forse, ci sorprende e ci emoziona anche per questo: noi, che viviamo in un mondo di ricercate contaminazioni tecnologiche, un mondo post-human dove uno scintillante corpo cyborg diviene segno della libertà assoluta, ci troviamo improvvisamente al cospetto di questa bellezza fragile e indistruttibile della sua materia-corpo, sacrale e sacrificale, del mistero stesso del corpo originario.
L’arte di Sartelli sfugge all’ordine paralizzante della ragione analitica e si abbandona a un’affabulazione visivo-tattile, pronta a sondare le innumerevoli possibilità dello spazio. La follia sopravvive nelle immagini strappate dall’arte a un reale che ci sfugge perché, paradossalmente, troppo visibile, assimilato, “normalizzato”. L’alterità dell’arte custodisce, ancora, l’alterità della follia. E
l’artista Sartelli mette allora in campo energie contrapposte, materiali diversificati, antenne in grado di captare energie fisiche e mentali, reperti di un’archeologia naturale e umana, ma capace di restituirci il senso del tempo assoluto, mitico, liberato dalle contingenze storiche, insieme all’emozione lacerante di chi rinomina il mondo attraverso l’arte. Compie prodigi, fino al secondo decennio del Duemila, con i suoi collage di foglie, frammenti di carta, stracci, ragnatele, mozziconi e cartine di sigaretta, paglie e rami secchi, ciocchi di legno, pezzi di vimini e fil di ferro, terre, lamiere e reti metalliche, e oggetti quotidiani, come sedie e tavoli, velati dalla consistenza diafana del cellophane, del plexiglass o della vetroresina… I reperti della vita e della quotidianità umana non sfuggono al vortice vitale del cosmo e della natura, che li riassembla, li rigenera, li trasfigura.


Li trasforma in figure sono al contempo precise e indistinte, pervasive e fuggevoli, tangibili e lontanissime. Esse presentano sempre un doppio registro: hanno una base accessibile a una percezione “referenziale” della realtà, e un punto di fuga, un “vortice” che risucchia l’immagine in un “altrove” in-immaginabile. Sartelli è uno dei maggiori paesaggisti contemporanei: i suoi paesaggi sono “costellazioni”, costellazioni di frammenti, ceneri, spoglie prosciugate di vegetali, residui di un processo di combustione, schegge, ferraglie, ma orchestrati in un’impaginazione di tale musicalità ed armonia estetica da farcene avvertire anche la potente forza di germinazione.

Fino al secondo dopoguerra, in occidente, l’importanza attribuita al medium, vale a dire al mezzo espressivo dell’opera d’arte, non era fondamentale, e l’uso di determinati materiali incideva ben poco nell’analisi critica di un’opera. A questa data, invece, la materia arriva ad essere il fulcro, l’elemento calamitante nella realizzazione e nella “lettura” di un lavoro artistico, la base della sua qualità espressiva. L’opera di Germano Sartelli si colloca nel solco di quest’apoteosi, euforica o malinconica, della materia. L’anima della materia si dispiega nel suo lavoro, sin dagli anni ’50, con un’energia tale da far emergere con bruciante evidenza la primarietà della pulsione plasmatrice, l’irrinunciabilità di un corpo a corpo dell’artista coi suoi materiali: una realtà che significa l’intramontabile necessità dell’agire della mano e di tutto il corpo e del loro lasciare tracce.
Nello stesso tempo, “scavando” lo spazio della natura, Sartelli afferra il tempo come metamorfosi, e il tempo come memoria, come scrittura delle tracce degli eventi: la dimensione spazio-temporale si dipana attraverso le metamorfosi della materia. Per Sartelli la natura è molto più che paesaggio: è un infinito corpo autogenerantesi, di cui la simbiosi corpo dell’artista/corpo dell’opera fa parte integrante. Sartelli non chiede forme e colori alla natura naturata, all’aspetto del mondo che cade ogni giorno sotto il nostro sguardo, e che ormai non vediamo più, ma alla natura naturans, principio generatore delle cose, delle loro sembianze e delle loro metamorfosi.

Queste piccole tempeste di frammenti e schegge racchiudono l’eleganza compositiva di raffinate sinfonie da camera: vi si avverte la presenza di un ordine, di una misura, poiché i tratti accennano a intriganti geometrie non euclidee. Si profila allora la dialettica tra misura, armonia come rithmòs, numero, e dis-misura del caos originario della materia.
Il segno inconfondibile di questa poetica, può allora forse identificarsi con il dissidio tra l’insondabile opacità della materia e una flessuosa, luminosa leggerezza: il fantasma ammaliante e inafferrabile della forma.

Il cammino del pensiero visivo di Sartelli si biforca ininterrottamente tra il dato della natura e la sua trasfigurazione mentale e immaginativa. Se il cammino si biforca il bordo è fluttuante, è la fluttuante fedeltà dei sensi al teatro mutevole e periclitante della mente. Dal visibile naturale si passa così alla raffigurazione di un invisibile che altro non è se non la febbrile energia che anima la natura stessa, il danzante brulichio dei suoi pulviscoli cellulari, che si sottrae alle leggi di schematizzazione e classificazione, e obbedisce alle stesse leggi, complesse e “caotiche”, che governano le nuvole. E in qualche modo sono affini alle nuvole le Ragnatele di Sartelli – forse la sua creazione più geniale – incredibilmente catturate nella natura e fatte arte. Nella nuvola, secondo Michel Serres (Passaggio a Nord-Ovest), si dispiega il senso del possibile, di un’infinita possibilità di ri-generazione. Sartelli è attratto dalla ragnatela-nube, dalla sua opalescente anti‑struttura: corpo in-terminato e in-terminabile, eterico ed etereo, grembo iletico e immateriale ad un tempo.
Con il suo lavoro sulla materia costringe il labirinto dell’universo a uscire dall’invisibile e a proporsi in minimali folgorazioni alla coscienza, a incontrare i sensi e il pensiero della veglia e della quotidianità. D’altra parte, nel momento stesso in cui l’universo si svela, narrandosi in queste musicali partiture visive, esso svanisce, si annulla come universo per farsi arte, puro significante. In questo senso, per Sartelli, l’invisibile, è rappresentabile: letteralmente, aperto alla possibilità di entrare nel nostro presente, negli istanti eterni e illimitati che costituiscono l’unica veraesperienza del tempo nella nostra esistenza.

NOTE BIOGRAFICHE
Germano Sartelli nasce nel 1925 a Imola (Bologna). Dal 1938 al 1944 frequenta nella città natale il laboratorio dell’intagliatore ligneo Gioacchino Meluzzi. Qui prendono avvio le sue prime sperimentazioni artistiche condotte attraverso un isolato e paziente tirocinio.
Negli anni ’40 si dedica al restauro di sculture marmoree.
Nel primo dopoguerra entra in contatto con l’ambiente artistico e culturale di Bologna. Nel 1958 espone per la prima volta nel capoluogo emiliano, al Circolo di Cultura, presentato da Maurizio Calvesi che, insieme ad Andrea Emiliani, rimarrà uno dei suoi più fedeli esegeti.
Dagli anni ’50 sino agli anni ’80 insegna pittura nell’atelier dell’Ospedale psichiatrico Luigi Lolli di Imola. Nel 1954 a Roma, presso la fondazione Besso, organizza e cura la prima mostra italiana di opere dei degenti dell’Ospedale psichiatrico imolese. L’esposizione, che suscita grande interesse in campo sia artistico sia medico clinico, viene recensita con una larga eco sulla stampa nazionale. Nel 1962 gli viene conferito il premio per la scultura dal Ministero della Pubblica Istruzione.
Nel 1964 è invitato da Maurizio Calvesi, Afro Basaldella, Lucio Fontana e Cesare Gnudi, a partecipare alla XXXII Biennale di Venezia.
In questi anni tiene il suo studio-officina nella Rocca di Imola. La sua ricerca artistica, in continua evoluzione, è caratterizzata da uno specifico e costante lavoro di sperimentazione su vari materiali. Le prime sculture sono in legno e ferro, seguono, dalla metà degli anni ’50 in avanti, stracci, fili metallici arrugginiti, mozziconi e cartine di sigarette, vimini, paglie, ragnatele, ciocchi. Ancora legno e ferro, lamiere e metalli dagli anni ’70. All’inizio degli anni ’70 risale il trasferimento nell’eremo di Codrignano, sulle colline imolesi: il cosiddetto “Casetto”, nella valle del fiume Santerno, luogo dove Sartelli approfondisce lo studio degli aspetti della natura come ispirazione per la sua opera. Dopo la morte dell’artista, avvenuta nel 2014, il “Casetto” è diventato una casa-museo, sotto la direzione della figlia, Marzia Sartelli Orzi, ed è stato inserito nel novero delle «Case e studi delle persone illustri dell’Emilia Romagna».
Lascia un commento