
L’arte non è solo espressione di un’interiorità individuale, ma anche una dimensione dove si prendono le distanze dalla realtà per poterla documentare con occhio critico, per resistere alla cancellazione e al silenziamento, per mantenere viva la memoria collettiva di un Popolo. Così, proprio l’arte è diventata un potente strumento di resistenza per gli artisti della Striscia di Gaza, che trasformano in creazione la distruzione e la sofferenza della guerra di occupazione portata avanti da Israele in risposta agli attacchi del 7 ottobre 2023. Senza carta da disegno, né tele, né colori, molti dipingono con materiali di recupero su sacchi usati per la farina e cartoni provenienti dagli aiuti umanitari. Ciò che dipingono, e raccontano dipingendo, sono storie di terrore, di fughe e sfollamenti, e di lotta per la sopravvivenza. Nonostante la distruzione dei centri culturali, dei musei e delle università, la comunità artistica di Gaza continua a esistere e a produrre opere che perpetuano l’identità palestinese.
Tra le macerie degli edifici distrutti e i boati dei bombardamenti, gli artisti di Gaza dipingono ancora: nelle loro immagini la disperazione si trasforma in resistenza, e ogni pennellata diventa testimonianza di una realtà terribile, ma ancora piena di germi vitali. Così i sacchi di farina si trasformano in tele, e le scatole di aiuti umanitari in ritratti di persone.
Minacciata dall’occupazione israeliana con sfollamenti forzati e distruzione, la cultura palestinese non scompare, e la sua identità artistica non si spegne. Con risorse sempre più limitate, e in condizioni sempre più precarie, le mani degli artisti non ammutoliscono, non interrompono la loro gestualità creatrice, nella convinzione che l’arte in se stessa possa aiutare un popolo a resistere e sopravvivere. Un colore epico e corale, è quello che assume quest’arte, sia pure nell’estrema varietà di stili attraverso i quali si esprime.
A volte si manifesta una strana alchimia, dove il dolore si muta in speranza. È il caso della giovane artista palestinese autodidatta Malak Mattar, nata a Gaza nel 1999. Già nei primi mesi del 2022 mi colpì una sua mostra, tenutasi a Bologna nell’ambito di Art City, in occasione di Arte Fiera. Mi sembrò un affascinante caso di resilienza femminile: di come una donna possa usare l’arte per superare traumi, oppressioni e difficoltà, trasformando il dolore in forza creativa. Figure storiche come Frida Kahlo e Artemisia Gentileschi ne sono esempi noti, ma il tema è presente anche in molte artiste contemporanee come, appunto, la giovane Malak, che attraverso i suoi dipinti documenta la resilienza delle donne palestinesi nei confronti di una doppia oppressione: quella della cultura patriarcale e quella dell’esercito israeliano.
Dice di essere nata “in gabbia”, perché Gaza è una grande prigione a cielo aperto: “Io vivo sul mare, ma il mare è angosciante, ricorda gli attacchi navali e il fatto che siamo chiusi qua”, spiega in un’intervista.
Ha cominciato a dipingere quando aveva 14 anni, proprio durante un attacco militare durato 51 giorni, utilizzando acquerelli e carta di bassa qualità forniti dalla Scuola pubblica. Dipingere è stato primariamente un modo per uscire dal trauma: giovanissima, ha visto morire davanti a sé la sua vicina, uccisa da un raid aereo: “Quando la mia vicina è morta, lei che (…) non aveva mai fatto male a nessuno, ho pensato che dovevo morire anch’io, visto che neanch’io avevo fatto qualcosa di sbagliato”, racconta ancora l’artista.
La sua arte è diventata ben presto, grazie ai social media che ne hanno fatto un caso internazionale, una potente testimonianza della cultura della Striscia di Gaza nel mondo, e Malak una sorta di ambasciatrice del suo popolo in Occidente. Le sue opere hanno iniziato a suscitare interesse in gallerie e musei di tutto il mondo, e sono state esposte in Inghilterra, Francia, India, Scozia, Spagna, Olanda, Italia, Germania, Svizzera, Turchia, Costa Rica e undici degli Stati Uniti. Ha vinto anche una borsa di studio per un Master in Belle Arti presso il Central Saint Martins College of Art di Londra.
Nella mostra del 2022 mi avevano colpito i grandi occhi sgranati o chiusi dei suoi personaggi, quasi esclusivamente femminili, che connettono idealmente il suo sguardo a quello di Frida Kahlo, ma evocano anche il dolore della figura femminile centrale nella tragedia collettiva della picassiana Guernica, rivissuta però in un dolore muto, non gridato. Paradossalmente, nelle sue immagini, il silenzio sembra a volte trasformare il dolore in una zona di calma, in apparente contraddizione con il tormentato contesto da cui le immagini stesse traggono origine. Perché “La mia principale ispirazione artistica è la mia provenienza”, afferma Malak, e “La mia città, Gaza, è un luogo complesso, assediato da terra, cielo, mare e cultura”.



Nei suoi dipinti mi avevano colpito, ancora, il tripudio di colori, che richiama il mondo di Gauguin e Matisse, e la visionarietà onirica di quegli intensissimi ritratti fortemente stilizzati, arcaizzanti ed espressionisti, carichi di sentimenti profondi e di simbologie. Figure di donne alte, protettrici e avvolgenti, spesso chine in un abbraccio, che ci dicono come una situazione tanto drammatica possa anche rafforzare i legami affettivi tra coloro che vi si trovano intrappolati. In mezzo a questa tragedia, l’amore è più profondo e autentico. Con la sua pittura Malak Mattar cerca di dare un senso all’assurda dimensione della Striscia di Gaza: con queste calme e rassicuranti figure femminili che diventano case, rifugi dove potersi nascondere, dove trovare pace.


Frequenti anche gli autoritratti, dove Malak rielabora la propria figura e la traduce in riferimento simbolico, in riflesso di un’interiorità: emblematico un suo autoritratto di spalle, icona senza volto che fissa il mare. Il riflesso introspettivo diventa modalità per rappresentare il reale. L’artista dà così vita a un’operazione che, in quanto a forza e originalità, ricorda, nuovamente, l’autoespressione bruciante di Frida Kahlo: un personalissimo uso dei simboli trasfigura la sua storia privata rendendola specchio, oltre che della condizione storica di un popolo, anche di verità universali.


Tra il 2024 e il 2025, il precipitare della situazione nella Striscia di Gaza e l’aggravarsi delle condizioni del Popolo Palestinese hanno inibito in Malak l’uso del colore: i suoi splendidi colori matissiani sono scomparsi, sostituiti da drammatici bianchi e neri: “L’invasione e la devastazione della mia terra natale mi hanno privato del colore nel mio lavoro per più di un anno”. Questa la genesi del monumentale monocromo No Words, (Senza parole) (2024), esposto a Venezia e a New York: un enorme olio su tela che ritrae la carneficina di Gaza. Qui l’auratico silenzio della pittura di Malak viene cancellato, insieme al colore, e la tragedia entra nell’opera gridando, con la bocca spalancata del cavallo al centro, chiaro riferimento alla Guernica di Picasso. Tutto attorno, un coacervo informe di rottami e macerie, oggetti di ogni tipo, cose e frammenti di cose scaraventati ovunque, giocattoli, lamiere contorte, corpi convulsi o senza vita, e teschi.

Ma sembra non esistere dolore senza speranza, per Malak Mattar. Ecco allora, in un altro grande lavoro a pittura e collage del 2025 (quattro metri di larghezza per due di altezza) ricomparire il colore: “Ho sentito che potevo usare di nuovo il colore perché ho iniziato questo lavoro quando abbiamo avuto quel breve cessate il fuoco all’inizio di quest’anno”. Ci colpiscono soprattutto il rosso e il verde, che ci ricordano quanto Vincent Van Gogh scriveva al fratello Theo: “Dipingerò col rosso e col verde le terribili passioni umane”. Qui, il verde serve a dar vita a un rigoglioso albero di ulivo, simbolo, certo, di pace, ma anche di una natura violentata che timidamente eppure maestosamente germoglia nella devastazione; il rosso s’incarna in una enorme fenice, simbolo del Popolo Palestinese, che si sostituisce al cavallo urlante di No Words e domina tutta la scena, risorgendo dalle ceneri della distruzione di Gaza e levandosi in volo sopra un carro armato. “Ciò che spero davvero è che le persone vengano salvate – dice ancora la giovane artista – Questa è la mia prima reazione al piano di pace. La mia priorità è vedere le persone riposare, trovare pace dopo questo incubo”.

In uno dei luoghi più difficili del mondo, traendo ispirazione da ciò che la circonda, Malak Mattar fa della sua arte uno strumento di lotta e denuncia, ma anche di esaltazione della bellezza, della forza e dell’intensità dei sentimenti. Dà voce alla vitalità di una nuova generazione che sperimenta un proprio percorso di ricerca e linguaggio, nel panorama artistico di Gaza e della Palestina. Una generazione segnata dalla guerra e dalla migrazione, ma decisa a proseguire il suo cammino, malgrado la disperazione.
Lascia un commento