Il libro L’assedio della fortezza di Civitella del Tronto e il brigantaggio legittimista nella più critica fase storica dell’Unità d’Italia, Ianieri Edizioni, 2025, affronta il tema del brigantaggio pre e post unitario e un passaggio cruciale della nostra storia, il processo di costruzione dell’Unità d’Italia, che è stato per troppo tempo ostaggio di una doppia lettura, contrapposta e speculare: quella nostalgica di stampo neoborbonico e quella, a dir poco molto semplificata e retorica, della marcia trionfale dei liberatori. Questo libro, che ci consegna un importante contributo di conoscenza, si inserisce nel quadro di ricerche storiche che hanno sollevato il pesante velo dell’oblio che ha colpito, con una sorta di “damnatio memorie” vicende di fondamentale importanza la cui rimozione ha reso parziale, quando non deformata, la piena conoscenza della nostra storia patria e i caratteri profondi di quei moti di pensiero, armi, interessi, oggi diremmo geopolitici, e passioni che chiamiamo Risorgimento.
Angelo Massimo Pompei, nel lungo saggio che copre la gran parte del volume che, fin dal titolo, pone nel binomio “brigantaggio legittimista” il nucleo tematico del lavoro, parte -molto opportunamente – dall’analisi della situazione economica del regno delle Due Sicilie, dei rapporti giuridici, economici e sociali che definivano la proprietà della terra e il lavoro dei contadini. Questa analisi permette di comprendere appieno quella che, poi nel corso dei decenni successivi, è stata definita “questione contadina”, “questione meridionale” e che spesso, fino ai primi del Novecento, è stata vista e affrontata come “questione criminale”. Sicuramente questa definizione è quella usata dalle autorità piemontesi, dal movimento politico e culturale che ha sostenuto il processo unitario, da parte rilevante della stampa, italiana – nel senso generale che ne diamo oggi – e straniera. L’equiparazione contadino-brigante trova in queste pagine un convincente fondamento, ancorato ad analisi ampie e rigorose.
D’altra parte, come Pompei sottolinea, la speranza che le masse dei contadini meridionali riponevano nell’impresa dei Mille come possibile rottura di un atavico sistema di sfruttamento senza limiti, vedeva nel decreto di Garibaldi, del 2 giugno 1860, emanato a Marsala, per la ripartizione delle terre demaniali, con la priorità riconosciuta ai contadini che avevano partecipato alla lotta antiborbonica, una prova più che evidente. In questo contesto si inquadrano le rivolte contadine represse brutalmente e che qui vengono puntualmente ricostruite. Fra queste, la più famosa è quella del 23 luglio del 1860, nella Ducea di Bronte, che fu spenta con estrema e violenta durezza da Nino Bixio. Queste rivolte hanno accompagnato, come un contrappunto tutta l’impresa garibaldina.
Come rileva, ancora, Pompei, i ceti possidenti e la borghesia meridionale aderirono, in larghissima parte alla causa unitaria, mentre le masse contadine trovarono nei moti legittimisti il loro spazio storico. Altro ulteriore elemento costitutivo del binomio contadino-brigante è quello che potremmo definire il suggello istituzionale, posto dalla relazione conclusiva, del segretario Giuseppe Massari della Commissione parlamentare d’Inchiesta, che operò dal 17 dicembre 1862 al 21 maggio 1863. Giuseppe Massari, deputato pugliese della Destra Storica, instaura un rapporto diretto tra “la condizione sociale del campagnolo” e il brigantaggio; più gravi sono le condizioni economiche, più forte è la spinta alla rivolta e più persuasivo il richiamo del brigantaggio.
Ovviamente, vale anche il contrario: condizioni di vita e di lavoro migliori rendono il richiamo del brigantaggio meno efficace. A tal proposito occorre ricordare che l’annata agraria del 1860 fu disastrosa e che le scelte economiche, operate dalle autorità sardo-piemontesi penalizzarono fortemente tutto il sistema economico dell’ex Regno delle Due Sicilie, peraltro segnato da pesanti arretratezze, ma non in tutti campi e non nella stessa misura.
Pompei sottolinea le principali caratteristiche che fanno del brigantaggio pre e post unitario un fenomeno specifico, e diverso, da quello del Settecento. Gli elementi distintivi sono da rinvenire nel rifiuto di decine di migliaia di sodati e ufficiali borbonici di entrare nei ranghi del nuovo esercito italiano, e l’adesione, all’indomani dello scioglimento dell’esercito meridionale operato da Garibaldi il 16 novembre 1860, di moltissimi volontari delusi dalla chiusura operata nei loro confronti dal nuovo esercito che aveva assorbito solo gli ufficiali garibaldini, inquadrandoli però, con un grado inferiore. Una situazione in cui due rifiuti, speculari, trovano nella battaglia legittimista un comune terreno e una nuova appartenenza. La scelta, anzi le scelte, spesso miopi e superficiali delle nuove autorità – come spesso succede – hanno causato effetti opposti a quelli sperati.  
Va sottolineato, a dimostrazione della continuità giuridica e istituzionale fra il Regno di Sardegna e il neonato Regno d’Italia che la Commissione d’Inchiesta sul brigantaggio fu istituita nel 1862, l’anno successivo alla proclamazione del nuovo Regno, nella VIII Legislatura. Appare evidente che questa numerazione si riferisce al Regno di Sardegna e non certo al quello d’Italia. Ancor di più: Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia in forza della legge n.4671 del 17 marzo 1861. Anche in questo caso la numerazione – un dato burocratico- rivela una  perfetta continuità giuridica.
Negli anni 1860-61, gli Abruzzi rappresentano uno snodo centrale nelle vicende storiche, sia per la vicinanza con lo Stato Pontificio (dopo la caduta di Gaeta, Francesco II con la sua corte si era rifugiato a Roma), sia perché le fortezze di Civitella del Tronto, Gaeta e Capua, rappresentavano, anche plasticamente la linea di difesa del regno borbonico. In più, Civitella del Tonto con il castello di L’Aquila e la fortezza di Pescara, rappresentava il più importante presidio borbonico degli Abruzzi.
La Fortezza di Civitella del Tronto, in questo quadro svolgerà un ruolo di primissimo piano, non solo nella difesa, come è noto ai più, ma anche, e questo è l’elemento più importante in questo contesto, come centro propulsore e di coordinamento delle bande che operavano nelle montagne del teramano e dell’ascolano, facendone un unico teatro di azione. Qui giova subito sottolineare un dato di assoluta importanza: le bande dei briganti che attuavano tecniche di guerriglia e che agivano seguendo le direttive del comando della Fortezza, erano inquadrate come compagnie ausiliare dell’esercito borbonico e i capi avevano lo status e i gradi che ne facevano, a tutti gli effetti, dei militari e non dei volgari ladroni da strada. Questo status giuridico, nulla toglie al giudizio severo su violenze, ruberie e sopraffazioni compiute; è un dato storico che va tenuto presente e che ha un evidente rilievo.
L’assedio a cui fu sottoposta la Fortezza di Civitella del Tronto, durò sette mesi, dal settembre del 1860 al marzo del 1861.  Pompei racconta le fasi del lungo assedio, gli episodi più rilevanti, le scelte e le attese dei comandi militari e dei protagonisti politici. Merita di essere citato Pasquale De Virgilii, governatore di Teramo, una figura di assoluto rilievo che svolse un ruolo centrale nelle vicende dell’unità d’Italia e fu il primo ad accogliere, sul ponte del fiume Tronto, Vittorio Emanuele II, quando, il 12 ottobre 1860, entrò alla testa dell’esercito sardo-piemontese nel Regno Borbonico. Una notazione particolare occorre riservare al ruolo della Chiesa che offrì un poderoso collante ideologico ai legittimisti, dalle prediche invitanti alla reazione contro i piemontesi, al rifiuto dei sacramenti a quanti si rifiutavano di entrare nelle bande dei briganti, dall’azione di coordinamento e assistenza all’elaborazione delle tattiche da usare in battaglia.
Le fasi che scandiscono il lungo assedio, le tensioni fra ufficiali presenti nella Fortezza, le attività delle bande dei briganti legittimisti volte ad alleggerire il peso dell’accerchiamento, il ruolo e il carisma dei capi, fra cui Giovanni Piccioni – il personaggio di maggior rilievo del brigantaggio tra il teramano e l’ascolano, punto di incontro tra legittimismo papalino e borbonico, capo del Battaglione  della Montagna – vengono riportati con grande efficacia e rigore, così come gli episodi di repressione attuata, spesso, con ferocia immotivata, processi sommari e violenza indiscriminata contro chiunque fosse sospettato di dare man forte ai briganti.
Dopo la caduta della fortezza di Gaeta, il 13 febbraio 1861, con la resistenza della fortezza di Messina e di Civitella del Tronto e le attività delle bande dei briganti, restava aperto uno spazio, geografico, politico e giuridico per il Regno delle Due Sicilie. Spazio che si restringe fin quasi alla chiusura con la caduta di Messina, il 12 marzo 1861.  Pompei ricostruisce le ultime fasi del Regno che coincidono con le ultime fasi dell’assedio. Giunge a Civitella del Tronto l’emissario di Francesco II, il generale Giovan Battista Della Rocca incaricato di portare alla guarnigione l’ordine di resa. Della Rocca viene fatto entrare in fortezza attraverso una scala a pioli perché gli assediati non vogliono aprire le porte e sembra che, nonostante una minoranza animata dal sergente Messinelli e da padre Zilli rifiuti la resa, la maggioranza della guarnigione sia disposta a cedere le armi. Tuttavia, sia per il rifiuto del generale Mezzacapo di accettare l’invio di due messi della guarnigione a Roma per sincerarsi dell’autenticità dell’identità del generale e verificare se davvero la volontà del re fosse quella di ordinare la resa della fortezza, sia per il timore di molti briganti rifugiatisi in fortezza di non vedersi riconosciuto alcuno status militare e quindi di essere fucilati, la resa non fu conclusa. Ciò comportò un nuovo pesante bombardamento – i cannoni hanno avuto in questo assedio un ruolo decisivo – e l’impossibilità, per la guarnigione assediata, di trovare rifugio tra cumuli di macerie.
Si arriva così alla decisione di arrendersi. Il maggiore Tiscar, la mattina del 20 marzo si incontra con tenente colonnello Emilio Pallavicini per concordare la capitolazione che fu accordata a partire dalle ore 11, ora in cui, in fortezza entrava l’esercito italiano – denominazione questa assunta con nota n.76 del 4 maggio 1861- e ne prendeva possesso in nome di Vittorio Emanuele II. Sul campo il rapporto di forza tra “italiani “e borbonici era di 6 a 1. La resa della Fortezza di Civitella del Tronto non sancisce la fine del brigantaggio. Anzi, come rileva Pompei, con la caduta della fortezza come centro di coordinamento militare e come luogo simbolo della resistenza borbonica, il collante della causa e dell’appartenenza viene meno e le bande di briganti scivolano sempre più verso azioni di rapina e violenza fine a se stessa. L’arrivo del generale Raffaele Cadorna, il 20 luglio 1861, al comando militare dei tre Abruzzi, fino a quel momento parte del dipartimento militare di Napoli, imprime, con importanti innovazioni tattiche e un diverso approccio, una svolta significativa alla guerra contro il brigantaggio. L’impiego di imponenti forze militari fu sicuramente la chiave di volta che portò, nel corso di vari scontri, soprattutto nei comuni della montagna teramana e ascolana alla cattura dei capi e al disfacimento delle bande.  Con l’arresto, nel 1863, dei capi briganti Bernardo Stramenga e Giovanni Piccioni, si chiude la storia del brigantaggio nella provincia di Teramo. Pompei conclude il suo lungo, denso e ricco saggio con una nota in cui riporta alcuni dati davvero impressionanti: nella guerra contro il brigantaggio furono impegnati fino a 120.000 uomini, pari a oltre due quinti degli effettivi militari del nuovo Stato. Questa guerra durò fino al 1866 e provocò più morti che in tutte le guerre del Risorgimento.
Credo vada sottolineata, in modo particolare, per la sua valenza generale che si presta a molte riflessioni, la considerazione finale di Pompei: alla fine la vera sconfitta del brigantaggio fu determinata dalla grande emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, lasciando irrisolta una trama fitta di questioni che, per certi versi, sono presenti ancora oggi.
All’interno di questo ampio e dettagliato affresco storico si situano i tre saggi di discendenti di alcuni dei protagonisti di quelle vicende.
Pietro-GiorgioTiscar, discendente diretto di Raffaele Tiscar de los Rios, Maggiore e Vice Comandante della guarnigione di Civitella del Tronto durante l’assedio del 1860-61, e sottoscrittore dell’atto ufficiale di resa della fortezza, nel suo saggio intitolato “Il dubbio” ci offre una lunga e originale riflessione sul dubbio come metodo e sulle scelte della vita che, gli accadimenti e le svolte che vengono percepite come epocali, mettono davanti alle persone. Sul filo di un dialogo interiore, guardando lo svolgersi degli eventi con gli occhi del trisavolo, l’Autore intreccia una descrizione acuta del contesto con le considerazioni sul lento maturare, dentro contraddizioni e spinte provenienti dalle notizie che arrivano sull’avanzata di Garibaldi e la dissoluzione, inattesa e repentina, della resistenza dell’esercito borbonico, di una nuova consapevolezza. Visti dalla fortezza di Civitella, remota destinazione, lontana dagli agi della corte, quel che sta accadendo pone problemi davvero complessi: come conciliare la parola data, il giuramento prestato, l’onore di militare con i dubbi sulla resistenza ai moti unitari, i travagli della nascita di una nazione e i valori di un regime impreparato a sopravvivere? Pietro-Giorgio Tiscar, con questa felice sintesi, descrive non solo i turbamenti e i dubbi del trisavolo, ma quelli di molti, militari e civili, dentro e fuori le mura della fortezza e delle fortezze.
Una pagina, davvero molto interessante è dedicata alle comunicazioni, al telegrafo ottico, alla rete di segnalazione e alla sua organizzazione operativa ed amministrativa. Il filo delle riflessioni sul crinale dei dubbi porta ad esaminare i dati del censimento del 1861 e quelli relativi all’istruzione. Dati, questi, di indubbio interesse che contribuiscono a corredare il quadro storico di altri importanti elementi. Segnalo un passaggio di grande suggestione: il parallelo tra la solitudine del re, impossibilitato a vivere nei propri appartamenti, prigioniero del proprio ruolo e quella del Maggiore Tiscar immerso nei dubbi derivanti dagli obblighi e dalle opportunità del proprio ruolo. Due singolari solitudini e due particolari “prigionieri” del proprio ruolo che ci offrono una nuova ed efficace metafora di quel tempo segnato da sconvolgimenti e violenze.
Giovanni Stramenga traccia, nel suo saggio un vivido ritratto biografico del suo antenato, Bernardo. Francesco II gli conferì il grado di Primo Tenente Sopranumerario e poi quello di Capitano, a conferma che non di banditi di strada si trattava, ma di truppe militari a tutti gli effetti. L’Autore ricorda gli episodi più importanti che lo hanno visto protagonista, come l’assedio di Campli, ricordato dallo scrittore Fedele Romani nel suo Da Colledara a Firenze, così come l’episodio, di segno contrario, quando soldati del 41° Reggimento di Fanteria, al comando del capitano Ballia, entrarono nella sua abitazione trassero in arresto il padre, anziano, la moglie e i cinque figli. Di notevole interesse è il sistema di comunicazione e di amministrazione della sua formazione che Stramenga, analfabeta, aveva escogitato.
Dopo la sfortunata missione del 17 marzo 1863, che aveva l’obiettivo di sabotare l’inaugurazione della stazione di Pescara alla quale doveva presenziare il Re d’Italia, Stramenga sconfitto a Fano Adriano da ingenti forze piemontesi, riuscì comunque a rientrare nello Stato Pontificio e a trovare rifugio nei pressi della Basilica di San Lorenzo fuori Le Mura. Starmenga, come sottolinea l’Autore, godeva di importanti protezioni da parte delle alte sfere del Vaticano. A causa di una delazione, di un informatore piemontese, fu arrestato dagli uomini della gendarmeria francese, di stanza a Roma, portato a Castel Sant’Angelo, processato e condannato a 5 anni di reclusione per “banda armata”.
Starmenga scontò la sua pena in Francia, Paese che negò la sua estradizione in Italia dove era stato condannato, in contumacia, alla pena di morte Fu l’unico, fra i capi della guerra legittimista, a non essere ucciso o arrestato dalle autorità italiane.
Luigi Piccioni, traccia la biografia del suo avo Giovanni, il principale protagonista del brigantaggio legittimista, fra l’ascolano e il teramano, mettendo in rilevo l’importanza che lo zio sacerdote, don Marco, ebbe come precettore sulla sua formazione, dandogli un’educazione cattolica radicale. Nel 1831 aderì alla formazione dei “Volontari Occulti”, istituita dal cardinale Consalvi di Fermo e conosciuta con il nome di Centurioni, una milizia che interveniva a supporto delle truppe regolari pontificie. In questa struttura Luigi Piccioni conseguirà il grado di Maggiore, titolo che porterà per tutta la vita. L’Autore ripercorre le sue imprese, intrecciando le vicende locali con quelle generali. Per cercare di arginare le conseguenze dei moti del 1848 che avevano indebolito fortemente il potere temporale della Chiesa, il governo pontificio organizzò una rivolta antirepubblicana. Il luogo scelto per l’avvio di questa insurrezione fu la provincia di Ascoli, per la sua vicinanza al Regno Borbonico e, in particolare, per la presenza, a poca distanza, della fortezza di Civitella del Tronto. Piccioni organizzò sei compagnie e, nella sua casa di San Gregorio, nel Comune di Monte Calvo, suo luogo natale, istituì il suo quartiere generale. Dopo l’entrata in Ascoli delle truppe austriache, il 22 giugno 1849, che ripristinarono l’autorità pontificia, fu rivolto un pressante invito al disarmo dei volontari pontifici.
L’approssimarsi di Garibaldi alla testa dell’esercito meridionale ai confini dello Stato Pontificio spinse l’autorità pontificia ad approntare una serie di difese. Dopo la sconfitta dell’esercito pontificio a Castelfidardo, ad opera dei piemontesi, l’8 settembre 1860, solo Roma e il Lazio restavano sotto il governo della Chiesa che continuò incessantemente a tentare di riorganizzare un proprio esercito. Ma questo richiedeva tempi lunghi. Il ricorso, ancora una volta, ai volontari si rese quindi necessario. Piccioni, nominato Maggiore Comandante, pose di nuovo il suo quartier generale a San Gregorio e organizzò, sei compagnie. La sconfitta di Castelfidardo provocò, però un fuggi fuggi generale verso Roma e Piccioni, dopo aver sciolto il Battaglione Ausiliari, lasciò liberi i volontari di ritornare nelle proprie case o rifugiarsi a Roma. Pur non del tutto convinto Piccioni riorganizzò di nuovo i suoi volontari, questa volta in 4 compagnie, accogliendo i ripetuti inviti a organizzare un’insorgenza nella montagna ascolana e teramana. Il compito affidatogli era di tenere impegnato l’esercito piemontese lungo la via Salaria e a supporto della fortezza di Civitella del Tronto. Compito che fu assolto conseguendo molte vittorie. Naturalmente la reazione dei piemontesi del generale Pinelli fu violenta: rastrellamenti di massa, incendi, fucilazioni che costrinsero alla fuga i briganti. L’Autore ripercorre le fasi della fuga di Luigi, dei suoi figli fino alla sua cattura, a San Benedetto del Tronto, il 23 novembre del 1863, dopo tre anni di latitanza.
I saggi di questo volume compongono un quadro complessivo che arricchisce, in modo ragguardevole, la conoscenza del fenomeno del brigantaggio legittimista in Abruzzo e offrono un rilevante contributo alla storia del Risorgimento italiano.

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