Chi si immergerà nelle pagine del nuovo libro di Lucetta Scaraffia si troverà di fronte a una fonte di energia intellettuale di altissima tensione, un voltaggio che irradia questo piccolo capolavoro storiografico.

Un saggio a spartito aperto, composto da otto racconti biografici, lucidissimi, mai devozionali, talvolta impietosi nella loro sincerità, ma sempre appassionati e appassionanti. Una galleria di immagini e progetti di vita al femminile, che si compongono e scompongono come delicatissimi origami.

Otto nomi, otto destini che illuminano un’epoca di transizione: Catherine Pozzi, Charlotte von Kirschbaum, Adrienne von Speyr, Banine, Élisabeth Behr Sigel, Simone Weil, Chiara Lubich, Romana Guarnieri. Queste donne si ergono nel libro come testimoni “scomode”, ciascuna a suo modo interprete di un mondo che mutava rapidamente.

Le loro esistenze avventurose raccontano il Novecento, secolo che ha preparato il terreno all’eclissi del sacro nella nostra cultura contemporanea. Artefici di un passaggio consapevole, con “cuore coraggioso” hanno esplorato sentieri ignoti, tracciando originali percorsi di ricerca interiore in un contesto culturale spesso arido di autentica spiritualità, erosa dalla crescente desacralizzazione e dalla meccanica trasformazione di mentalità e costumi.

Un’eco lontano risuona nelle parole dell’autrice: per rintracciare una simile affermazione della spiritualità femminile in Europa, dobbiamo tornare indietro al XIII secolo, l’epoca delle beghine, le “mistiche laiche” del Duecento. Proprio a queste Lucetta Scaraffia accosta le protagoniste del suo libro, disegnando fin dalle prime righe un suggestivo ponte tra epoche. Eppure, queste figure del Novecento si discostano profondamente dalle mistiche tradizionali: sono “donne normali, vivaci intellettuali”, immerse appieno nel mondo, appassionate delle loro professioni e spesso con una ricca vita affettiva e sessuale. Amanti dell’eleganza e della moda, capaci di apprezzare le gioie dell’esistenza, vivono con responsabilità un secolo segnato da un male di proporzioni inaudite.

J’ai choisi l’opium. “Ho scelto l’oppio”

L’essenza, il nucleo forte di questo libro è fondamentalmente concentrato in un unico ragionamento: come riuscire a non arrendersi, mai, all’idea diffusa e storicamente strutturata, che la conquista della libertà, della dignità, dell’indipendenza e dell’autonomia femminile debba per forza cominciare sempre dalla censura e dalla rimozione della dimensione spirituale, in breve – dalla negazione di Dio.

Queste donne non rinunciano alla propria libertà di spirito e rispondono al celebre anatema marxista – la religione è l’oppio dei popoli – con una scelta audace e controcorrente: scelgono l’oppio. Lo straordinario ritratto di Banine, la rinnegata, la musulmana che trovò la sua epifania spirituale nella Parigi atea e dissacrante, ne è una vivida testimonianza. La conversione si rivela un filo conduttore potente nelle loro esistenze: un sommovimento interiore radicale, che trova la sua espressione nel gesto fisico dell’inginocchiarsi.

La svolta decisiva per Banine avviene in una chiesa. Qui, rapita dal canto delle monache, scrive: “che potevo fare se non inginocchiarmi e pregare Dio con tutto lo slancio della mia anima? Dio nascosto. Dio problema. Dio enorme e segreto”. E ancora, Simone Weil ad Assisi, in Santa Maria degli Angeli: “in quella piccola cappella romanica del secolo XII, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato così spesso, qualcosa di più forte di me mi ha obbligato, per la prima volta, a inginocchiarmi”. 

È proprio nella conversione che la loro libertà intellettuale fiorisce pienamente, così come la loro libertà di donne. L’autrice lo sottolinea con forza: non si tratta di una semplice esperienza religiosa, ma di un vero e proprio “cammino di liberazione, che si inscrive a pieno titolo nella grande narrazione dell’emancipazione femminile”. Questa prospettiva acquista un significato ancora più profondo se pensiamo al femminismo contemporaneo, che spesso rinnega, esclude e rifiuta ogni apertura spirituale, specialmente se di radice cristiana, ma talvolta anche all’interno della stessa comunità dei credenti.

Proprio sul tema di questa “alterità” che la conversione comporta, tornano alla mente le parole incisive di Romana Guarnieri che, nel 1995, all’età di ottant’anni, scriveva su Liberal: “Credetemi, la condizione di convertita è di quelle che ti segnano per tutta la vita: per quanto tu faccia, non sarai mai come coloro in mezzo a cui vivi. Tu convertita, sarai sempre una straniera in mezzo al popolo dei credenti”.

Follemente innamorate

Otto donne, quelle raccontate da Scaraffia, che amano profondamente. Per quasi tutte loro, Simone Weil esclusa, la relazione con l’uomo amato si presenta come un preludio, una sorta di apprendistato sentimentale in vista dell’incontro amoroso con Dio. Particolarmente intense sono le sensazioni evocate nel primo ritratto, dedicato a Catherine Pozzi, che narra dell’amore segreto tra la figlia di un medico stimato, una donna in perenne ricerca di purezza e assoluto, e il vate della poesia francese Paul Valéry.

Catherine, con un’irrisione quasi spietata e gelosa, giungerà a scrivere del suo amante parole impietose: “lui parla, e parla della sua potenza: un’ambizione implacabile si alza subito come un gran vento dietro questo spirito di cristallo, questo sentimento insensibile, questa impotenza della volontà. Io vedo il grado estremo della sua intelligenza. Il resto di lui: vuoto assoluto” (p. 28).

Un’antitesi rispetto all’amore inteso come pienezza del dono, un sentimento che non anela a soddisfazione o ricompensa, ma che può manifestarsi nella piena e assoluta gratuità della ricerca, nel comune contatto con il divino. Proprio come sussurra l’anima di Liselotte, nel quinto ritratto, la pastora luterana innamorata del pope Lev, quando, seduti a colazione in un anonimo Kentucky Bar, confessa a sé stessa con struggente lucidità: “noi siamo due vecchi folli. Preservare questo atteggiamento, questo rimedio contro la disperazione: l’amore folle. Amore che abbraccia l’essere tutto intero. Lui probabilmente mi ama attraverso Cristo. Io amo Cristo attraverso di lui. Sacrilegio, illusione? Questo senso di pace, di chiarezza interiore è in ogni caso del tutto reale, vero” (p. 107).

Donne, Chiesa, “femminismo mistico”

Otto donne che propongono una spiritualità molto attuale, antesignana di quel minimalismo che valorizza l’essenziale; un less is more chesi traduce in una povertà dello spirito capace di infrangere la barriera dell’ateismo, la pesante cappa del nichilismo positivista, proprio nell’epoca dell’avanzata inesorabile del secolarismo e di quelli che propugnano il “Vangelo della prosperità”.

Nelle loro vite vibra la tensione cruciale tra tradizione e libertà, in particolare nel loro rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, nell’impatto della libertà femminile col potere patriarcale e maschile della Chiesa.

Questo spirito di autonomia e lucidità anima ogni pagina, in particolare quando Banine affronta il suo rapporto con la Chiesa con discernimento acuto e personale. Contrariamente a Simone Weil, la scrittrice afferma: “La meschinità della Chiesa, i suoi errori, le sue banalità, e anche i suoi peccati, invece di preoccuparmi, mi rassicurano. Se essa fosse soltanto santa, come oserei entraci? Così com’è invece, umana, con tutta la debolezza che il termine comporta, e nello stesso tempo anche santa, essa può adottare me che sono soltanto umana” (p. 85).

La figura di Chiara Lubich illumina il rapporto con l’istituzione Chiesa: la sua visione di un movimento globale ambiva a trasformare le dinamiche della comunicazione ecclesiastica e della diffusione della fede, spezzando le catene della subalternità femminile, ponendo con forza il nodo del rapporto politico tra la Chiesa e i movimenti delle donne. È proprio nel capitolo su Lubich che Scaraffia introduce il concetto di “femminismo mistico”, che concerne la capacità delle donne di sviluppare i propri “movimenti” all’interno della Chiesa con piena libertà e autonomia.

Una studiosa geniale: Romana Guarnieri (1913-2004)

Nel sodalizio tra Romana Guarnieri e don Giuseppe de Luca brillò continuamente la tensione, sempre altissima, tra spiritualità e libertà. Ripensando a questo sodalizio, a me pare che molti, come lei osserva, abbiano preferito relegare la Guarnieri al ruolo di aiutante di De Luca. In realtà, nel suo ritratto, lei rimarca nettamente gli eccezionali meriti personali di questa studiosa, il suo atteggiamento appassionato e profondo che non veniva accettato in nessuno dei mondi intellettuali che la circondavano. Romana Guarnieri, che fu amica e maestra dell’autrice, nel libro è definita “una studiosa geniale, ma assolutamente indifferente al favore degli accademici, laici o cattolici che fossero, aperta ad ascoltare e aiutare tutti, senza preclusioni di sorta, capace sempre di pensare in grande, troppo in grande per il mondo in cui viveva”.

Fragilità e forza del mondo.

Donne che leggono il mondo, che sanno interpretare la propria epoca con uno spirito di libertà interiore, di lucidità e moralità concreta, materiale, che si sostanzia in un coraggio supremo e silenzioso, speso integralmente per oltrepassare la dimensione unica e obbligata del proprio tempo storico. Un tempo che non hanno paura di travalicare con regale naturalezza, ponendo agli altri domande implacabili che richiedono risposte oneste, conseguenti e coerente, senza lasciare margine al linguaggio metafisico. Tutte sono coscienti di impersonare un tema contraddittorio che esige una nuova dialettica, di essere su un punto di svolta socialmente reale, che ancora adesso è sempre quello di un più giusto e diretto rapporto fra il loro spazio femminile e il tempo che li inquadra.

Per cui dopo avere attraversato un mondo, il secolo breve del Novecento, dopo averlo spacchettato e spaccato in otto singoli emisferi femminili, alla fine di questo intenso lavoro della storica Lucetta Scaraffia, il succo che si estrarre da questi spicchi, ricchi di sostanza relazionale e intellettuale, di colori luminosi e vividi, è che non dovrebbe avere più alcuna patria, l’opinione di quanti ancora ritengono che un mondo diverso, quello del qui e non ancora, possa essere quello in cui le donne rinunciano a priori alla loro identità e al radicamento della propria vocazione spirituale.

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