I viaggi elementali, dentro “la polpa” del deserto del volan, dei templi di Kyoto, dell’i sola di Gjan, attraversati dai sensi, dal corpo, dalle percezioni anche in forma di immaginario, di pensiero, di miraggio, si sono mossi all’approdo del “picchio luminoso” incisi in quattro quaderni. Ma sono stati tre tappe del medesimo viaggio, che non si sommano tra loro in un percorso lineare, ma si sovrappongono in un unico itinerario iniziatico, stratificato in profondità e radicato in differenziate adiacenze. E i quaderni sono l’esperienza assimilata, sparsi sul “cotto” del pavimento della cella, materico, solido. La cella è dell’eremo di maria del silenzio, e l’eremo è a montelovesco. Qui “ancora una volta” è tornata la poeta. Perché in quasi tutti i suoi libri-percorsi, qui torna, qui alla sua “terra madre” che “ha il nome di Montelovesco.” “Entrando torno preistorica”: fino all’origine, ecco fin dove scava la radice. E di “quattro elementi.”, perché gli anelli della catena vertebrale non si snodano solo nel tempo, ma si aprono e si allacciano a tutto l’esistente sincronico. “Mi apre, mi riduce bassissima, orizzontale, seme. Cioè viva e crescente.” (Notizia, in La tela di Penelope, a seguire da Il canto dell’altalena, pièdimosca e Kaba edizioni, 2021, p.165). Non è lì per scrivere, i quaderni li ha già scritti addosso. “Sono una poeta che crea i quaderni entrando.”, dice. E non dice. “Entrando”. Dove? Mi si accampa in mente lo sciamano che canta, batte il tamburo per entrare. Dove?

La poeta ha bisogno di “ruminare” l’esperienza fatta, di “assentarmi dagli umani”, dice, in un silenzio animale, e in questa “distanza” disporre il “corpo nell’ascolto”. La poeta vuole regredire all’indietro nel tempo della lingua, all’origine della parola –“accovacciarmi nella lingua”–, oltre la “balbuzie”, “fino alla lallazione” dell’ancestrale. Lì, dove ebbe inizio la poesia. È una nascita. La cella è un “ventre”, destinato a “servire la viandanza”, e insegna “la concretezza”, che è ben più di un accostarsi alle cose: è un andarci dentro, è il “trasformare la propria carne in creta umida rimodellabile”, lavorandola con “le proprie mani” tra “cuore” e “pensiero”. La cella è una “pancia madre”, dove ‘riattraversare’ “interiormente l’attraversato, l’ovunque” dei viaggi appena trascorsi. La tavola di legno è il ciliegio stesso, il camino parla una “magnifica lingua plurale”. La poesia è “elementale”, ci dice la poeta con la parola che ha coniato nella sua polpa, e cioè – traduciamo/riduciamo noi nella lingua dell’approssimazione –:  materica, dei medesimi elementi che fanno il mondo, ma non solo: per la memoria assonante non eliminabile con ‘elementare’, la parola dice anche la semplicità di un corpo unico non disgregato e non disgregabile nelle singolarità degli elementi che lo fanno. Qualcosa di non così dissimile dal vuoto dello zen. La poesia è “biologica”, “organica”, quindi corporea, nel senso di partecipe della “polpa” degli organismi viventi – tutti, animali, vegetali, minerali e non solo umani –; ma anche nel senso gramsciano di capace di ‘funzionalità’/ ‘sostegno’ verso un gruppo, qui dei viventi tutti. La poesia può darsi separata dalla scrittura, che può non venire, e che, se viene, comunque è “dopo”. E comunque, anche se ‘si stende’ “da un margine all’altro della riga”, “rimane intimamente verticale”, come il corpo del poeta, “matrice di poesia”. Nella unica luce crepitante del camino, “le ombre significano il chiarore”, perché il loro buio può esistere solo nella luce. Non è un ossimoro. È ancora nei pressi del vuoto zen. È una luce che si è trasformata da fiammella sullo stoppino a faro lampeggiante sull’immensità del mare. “Fuori, il latrato dei lupi.”.

In ogni tappa del percorso la poeta ha incontrato un* e più maestr* in un ambiente loro affine dove, insieme, le hanno indicato qualcosa di essenziale. Il viaggio è stata, infatti, la sua risposta a una chiamata iniziatica. Sciamanica. Alla presa in responsabilità, in attenzione, in testimonianza, in cura di chi è stato devastato nella sua essenza creaturale. Non solo tramite la poesia fatta di parole e scrittura, ma tramite una poesia attuata, agita – organicamente –, in pratiche di incontri, di percorsi, di interventi verso l’altro-in-sofferenza, comunque e dovunque sia la richiesta, il bisogno; senza pretese di soluzioni, se non l’adiacenza, la coincidenza di creatura a creatura, quando la reciprocità può a volte ristabilire la forza necessaria dove c’era carenza. Non a caso la poeta si nomina minuscola: “ionulla” fin dal primo rigo del primo quaderno del primo viaggio. Dove io sento il ‘nulla’ riguardante solo un’identità separata/separante, quando invece, come si vedrà in “i sola”, forse si tratta di una riduzione estrema della singolarità monadica, per aprire l’‘io’ alla contiguità/sororità con tutti i ‘tu’ dell’esistere, senza gradazioni, da “una brace di orfani” alla “testa dei ciliegi”, con tutte le “creature del creato che ci accadono senza tregua”.
1-Nel deserto del volan.
Il deserto riduce a sé corpi e pensieri e immaginari, in un “corpo a corpo” in cui ‘sciabolano’ “miraggi”, i “bastoni piantati nella sabbia” sono metamorfosi di fulmini divenuti “scarnificata vegetazione”, la “vastità stellare” notturna incombe immane sull’emozione della “stupefazione”, la sabbia che scivola tra le dita è viva, materica per il tatto che la fa esistere grano a grano. Come la permanenza, nell’adiacenza del cerchio umano, della “foresta” di “trentamila anni fa” in cui “sedevano” i primi dei primi della specie. Nel deserto la poeta impara “un piede dopo l’altro” “la carestia della canicola”, quando la “polpa è via da me”, quando il “quaderno” è diventato uno “straccio sporco e sudato”, non ancora però separato dalla – a lei – “istintiva appartenenza”, però già “filo demente”, “scarabocchio creaturale, elementale, pronto a evaporare”. Che se “non cuce e non conduce arianna”, però già si è allontanato dalla logicità, dal pensiero, dalla limpidezza diamantina concettuale, che tutto pretendono di arginare.
Per tutto il tragitto dei viaggi compaiono i quaderni, semidistrutti nella fatica del corpo, bruciati, da riscrivere/resuscitare a voce e non, numerativi dei capitoli dagli occhielli dei titoli. Anche se spesso la poeta ci dice che la poesia non è nelle parole scritte, ma piuttosto voce, oralità, quando non ancora prima, nel sentire sensoriamente il mondo, gli altri, la vita. Io credo che questa centralità dei quaderni venga da un’esperienza che non si è più sciolta dalle mani della poeta: il rapporto col quaderno di Bruno, bruciante in sottotesto per tutto il poema de La casa degli scemi, ma in particolare raccontato nella vicenda a premessa. Lo ha sfogliato, letto per pochissimo tempo, ma le è rimasto inciso sulle dita, anche dopo che è stato bruciato nel rogo rituale, tanto da ripercorrerlo tutto, da lettrice al seguito delle parole di Bruno, da scrittrice che testimonia nella sua poesia la storia di Bruno, non importa se protagonista – lui – documentato dalla realtà, o se dall’invenzione letteraria.  “io sto al deserto per imparare la poesia tra le polveri / (…) / così    è davvero così    null’altro”. E io, che continuo a chiamarla ‘poeta’, potrei indurre il lettore a un distacco dalla vicenda in quanto finzione letteraria. Che non è mai nei testi di Anna Maria Farabbi. Da quanto tempo non le chiedo più: ma è vero?, hai davvero…?, sei stata sul serio…? Non perché mi abbia risposto. No, mai. È perché ho capito, infine, che non c’è separazione tra la anagrafica Anna e la “anna” o la “ionulla” delle vicende nei testi. Come non c’è separazione tra i versi scritti nei libri e i versi fatti di gesti, incontri, scambi con le ‘creature’ in sofferenza che, come dice lei, le accadono. Dovrei nominarla come hanno fatto i/le nomadi del volan: “quella che scrive”. Un’istantanea tra le sue concrete posture più frequenti, niente di letterario.
Quella che scrive, “passo dopo passo” (con questa insistenza, non solo è sottolineata la necessaria lentezza, ma il concatenarsi di passi individuali in un unico transito), ‘si spoglia’ del pensiero, immergendosi nel “mantice del respiro”, quasi una “ruminazione” che l’assorella alla dromedaria, la ‘bagna’ “interiormente” di una memoria di pioggia “orchestrale”, dello stesso genere di memoria con cui i nomadi seguono la pista invisibile che porta all’acqua. E “una dopo l’altra”, aprendo la sua singolarità, riconosce in se stessa “le creature” necessarie del suo “intimo oriente”, della sua nascita/origine: alla specie, al mondo, all’amore.
I tuareg, i tebu non sono più solenni figure del deserto, immagini patinate di azzurro e di viola nei dépliant turistici, ma residuati della vera “desertificazione” attuata dal colonialismo e dai poteri forti statuali: alcuni, consenzienti, degradati  a “trichechi del deserto che di notte ingoiano le donne / di giorno vendono comprano sputano bestemmiano / cambiano corpi con armi droga e petrolio”; altri, “ribelli” “ai dettati dei re e delle chiese”, che, se sfuggiti ai campi profughi, sono ridotti a fare i camionisti, i contrabbandieri, le guide turistiche, i pastori erranti; ma che ancora  “incontrano ogni giorno il deserto / anche il proprio deserto (…) / al passo di pace tra le tribù e i pozzi”. È tra questi l’incontro col primo dei maestri, Musthapha, guida all’oasi, guaritore, suonatore di flauto e cantore, guardiano/testimone delle bellezze del deserto. L’oasi non è il fascinoso campo alla Sceicco Bianco, ma per scelta “di sottrazione”, un piccolo villaggio minacciato dalla carenza d’acqua, dove le donne hanno sorrisi sdentati, servono cibo povero. Ma accolgono le quattro viandanti con “antichi canti” terragni e tutte ballano sotto lo “spartito stellare”, “anche la nonna zoppa, con le mani e oscillando la testa”, attraversate dagli elementi primari dell’universo: “la terra, il fuoco, l’aria, l’acqua. L’acqua.”. Il tipico cantogrido modulato dalle donne dell’oasi, che colma lo spazio e la mattina dopo ‘innerverà’ “la prima luce calda”, all’orecchio di quella che scrive suona come una sventagliata di “energia arcaica” e insieme come un “singhiozzo in gola”, di chi sa la propria decadenza “senza scampo”. I piedi battono e incidono la terra con una scrittura “mistica tra sorelle scalze”.
Una delle viandanti, velle, sta male. Una vecchia che sa curare con le erbe e Mustapha che uscirà nel deserto a cercarle, si prendono cura di velle e lei, quella che scrive, la designano a “vestale”, a discepola, dico io. Lui, con un’autorevolezza che mi illumina di colpo l’indizio di quando, una delle notti nel deserto, quella che scrive aveva distolto gli occhi da lui “per rispetto” e aveva colto il misterioso gesto con cui, andandosene, si era coperto il volto con il tagelmust, il lungo telo che i tuareg arrotolano a copricapo. L’assistenza è lunga, insonne e faticosa. Accettata perché lei sa che deve “lavorare” per far guarire velle. Anche qui, la chiamata. Sola, se non per qualche cura della vecchia e per qualche ora di mustapha, col nome minuscolo adesso.  Adesso che si è rivelato a lei, sciamano avvolto del bianco e blu ancestrale, adesso che le insegna il deserto: dai “fiumi fossili” ai “resti archeologici”, alle “ninnananne” primitive; e le dona un “taccuino di pelle di gazzella”. E suona il flauto. Quando esce, è “in una figura da dio”. Allora la poesia “entra da sola nel foglio”, più che scritta da inchiostro, impressa sensorialmente. Infatti le poesie che seguono stanno “nell’oralità”, in una scrittura elementale, dentro l’acqua, il vento, il tempo. Quella che scrive ha imparato a ‘credere’ nel “miraggio”, a sentire l’“ombelico d’acqua” di ogni deserto e di ogni creatura, a cogliere l’imminenza del “librarsi” in volo dei “tappeti volanti”, nonostante l’apparente staticità, e a vedere il “remoto   passato e futuro / nella viandanza di eremiti nomadi”: “quando il vento improvvisamente li rovesciò addosso alle dune / in un delirio di polvere” lei li ha visti “raccogliersi in un’unica forza”. Questo deve testimoniare, la loro “resistenza mi chiede”. Anche qui mi arriva di colpo questa medesima certezza della chiamata a testimoniare in leièmaria, nell’incontro con l’orrore del manicomio di Scarlitz: “Quella donna abiterà me per tutto il resto dei miei giorni. Mi scoperchia la mia responsabilità. Anche a lei devo rendere conto.”. E poco più avanti: “Rispondi a loro, Dì a loro che cosa farai per loro. Per quelli come loro. Hanno fretta, la morte in bocca, non la parola. Vogliono essere salvati. Mi dico.”. (Anna Maria Farabbi, leièmaria, LietoColle, 2013, pp. 100, 102). “porterò il testimone della guerra, attraverso il terremoto, che è altra guerra, fino alla terra di nessuno, che è di tutti.”, diceva in La casa degli scemi, assumendosi l’eredità di Bruno. E qui, nel deserto, se con tutto il male del mondo “hanno ammazzato i miei quaderni / io li riscriverò a voce / nel vento”.
Il percorso nel deserto del volan è stato esperienziale. Attraversando il deserto quella che scrive ha conosciuto come le sabbie di minuscole singolarità però stanno insieme nei grandi corpi delle dune, senza peraltro essere statiche nell’impermanenza a cui le dirige il vento, e senza perdere mai la connessione a una qualche forma. Il deserto poi le ha aperto la visibilità del non-finito, dell’oltre-orizzonte, perché niente ferma in una linea di confine; che non è ancora l’infinito, ma respira di un cielo solare o stellare che sfonda infinitamente ad un ‘oltre’. L’ampiezza senza confini riduce la singolarità a minuscola particella del tutto, a chicco di sabbia. L’assenza apparente dell’acqua, il suo raro comparire qua o là e il sintomo del suo progressivo diminuire sono segni elementali dei possibili mali del futuro e della vita in genere, nonché della necessità a divenirne testimoni e possibili guaritori.  
2- A kyoto e dintorni. 
Nella sacralità dei templi, il più sacro dei luoghi sacri giapponesi: il tempio okunoin e il cimitero dove è sepolto kukai (kobo daishi), monaco dell’ottavo secolo, fondatore del buddismo shingon. Non è luogo di una occidentale discesa agli inferi, si è piuttosto alla soglia di un ‘oltre’ che sta dentro ancora e fuori già del qui-adesso; che è confinitamente parte di un finito da imparare a leggere senza l’apparenza di confini e limiti. L’individualità già fortemente versata in pluralità nel primo viaggio, è bene che venga indotta a una sensorietà sinestetica oltre la “contabilità del tempo”, a una visualità ulteriore nell’opacità. Il nome, come è dipinto nell’ideogramma di Lan, deve levarsi in volo “senza grevità e intenzione di pensiero” e imparare dagli uccelli a solcare e costruire lo spazio dell’ovunque.
Qui il quaderno di quella che scrive si è incistato nella sua schiena, con la “gobba” dello zaino, adeguando la forma all’eleganza sacrale del luogo: adesso è un “rotolo” del “maestro calligrafo kjan”, che le ha attraversato il passo, “trovato”, nuovo segno d’investitura che lei ha avvertito ad “incantesimo” con un dolore che ha fulminato “gli anelli della spina”. Il rotolo le viene affidato con l’avvertimento severamente magistrale del primo antico “vecchio” – un antiquario – incontrato e ‘svisto’ nella luce che “scintillava i gialli e i rosa”, immerso “tra le cose”: nel rotolo “corre una concentrazione viaggiante”, lei dovrà riuscire “a mantenere la quota della tua [propria n.d.r.] forza nella sua corrente”. Mi si associa in mente il vecchio Tommaso, quando le affida per una sola notte il quaderno di Bruno, perché ne faccia testimonianza di pace. Là lei decideva di recuperarlo col suo canto, qui, quando il vecchio antiquario le dice: “Governati nella sua voce”, lei sente i segni dipinti del “diario spirituale” che trapassano la carta e si incidono sulle sue mani, “così come il suo enso”. Segno-parola, disegnato e significato a cerchio, ’tutto’ e ‘niente’ nello zen, e anche e quindi: ‘illuminazione’, universo assoluto, infinito. Qui io avverto come ha cominciato ad incarnarsi l’affermazione espressa poi nell’eremo: “Sono una poeta che crea quaderni entrando.”.
Con questo viatico, nel camminamento attraverso i riti e i ponti di okunoin, che “attraversano la morte e la sfondano”, quella che scrive risponde a un mandato che è divenuto il suo: “il cimitero ha bisogno dei miei piedi”. La scrittura si materializza: non si tratta di metafore o tecniche linguistiche, la realtà è figura aperta di molti sensi e significati: “gli alberi scrivono le verticali dalla terra al cielo. Il buio si radica nel volto delle rocce, nel profondo incavo delle incisioni”. Pensieri, percezioni, intenzioni, intuizioni si fanno del tutto corporei, così che più facilmente possono condividere, plurali, l’intorno: “I piedi a volte escono dal sentiero, attratti dal profilo di una statua, (…) dal fruscio di serpe, lucertole, anime in compresenza a samurai, poeti, (…) cedri, uccelle del buio come vestali a guardia”. Come lei è stata ‘vestale a guardia’ di velle nell’oasi.  Nell’ultimo tratto, attraversare i ponti rimasti è di più che un “compiere le altre soglie iniziatiche” ed entrare nella sala torodo delle 10.000 lanterne è di più che “ricevere la folgorazione lucente” e sollevare facilmente la pietra miroku è di più che avere un giudizio di purezza; se, di colpo, accade di “sconfinare” nella fulminazione di “karuna”. Quella che scrive ce lo butta indefinito tra le mani, questo suono-parola, limitandosi a sottolinearne l’assenza di punti di riferimento: “impensato”, “imprevedibile”, e lasciando a noi di aprirne il cuore. La immagino, deittica, con l’indice puntato al lettore, mentre pronuncia queste parole e le lascia galleggiare nell’indefinizione, misteriose vuote, e insieme colme di un possibile da cercare. Ci è già maestra. E allora cerchiamo. Per trovare, davvero plurale, fuori tempo e luogo e modo, il fulmine che ha colpito Margherita Porete e Dante, e Francesco e Rumi e tutti tutti gli altri che hanno fatto esperienza dell’amore, cioè della benevolenza, cioè della sororità, cioè della compassione, della pietà, dell’empatia, della misericordia e di tutti tutti i gradi e le adiacenze e gli attraversamenti l’uno nell’altro di questo essere-sentire.
Quella che scrive, la maestra, la “vecchia” magica, multiforme, la incontra nella poesia in forma di poesia. “L’ho incontrata nella figura di una minuscola trottola”, “sapendo” – non come i bambini nel gioco – che la punta roteante ‘scrive’ “uno scarabocchio divino per terra”. Come le divinazioni degli auruspici, delle sibille, difficili segni dall’oltre. Come la poesia, e così anche gli aiku di basho (Matsuo Basho, massimo poeta del periodo Edo), che dalla “luce della sua carta” si scagliano come ‘fiocine’ “in volo”.  Una visione, lui, come la figura evanescente della vecchia che “corre tra le canne / con una veste leggera” e incarna uno di quei pensieri tao o zen che ci sembrano paradossi a noi raziocinanti occidentali, e invece sono conoscenza – anzi no, penetrazione: “la vecchia non entrò nella foresta di bambù / la vecchia è la foresta di bambù”. Dove “il bambù scuote il vento    e non il contrario”, dove quella che scrive dorme nella “concavità” del fuoco, dopo avere bevuto il proprio volto singolare nella “coppa” di tè, e averlo dimenticato e lasciato morire “in tutto il corpo”.  Quella che scrive è ora davvero “ionulla”, sconfinata all’intorno; se ancora i suoi “piedi scrivono il fango”, “l’impronta / si scioglie” nella pioggia e – divenuta noi-plurale – “raggiungiamo sempre il tempio scalzi”. Così che “i piedi in battere e levare” come tamburi “ritmano il peso dei pensieri e lo lasciano a terra”. Non c’è più alterità tra le cose, non sono mai statiche, ma mobili e reciproche. Si incontrano, si ‘sentono’, come i “due battiti cardiaci” sul ponte, che nelle loro mancanze – il “monaco cieco” e la vecchia con la testa “a uovo”, spogliata dei capelli dal vento – hanno imparato a riconoscersi, a salutarsi nel loro profondo, “non sprecando parola”.
Qui, dove quella che scrive ha fatto esperienza dello sconfinamento nel ‘karuna’, ce lo porge sensibile – noi testimoni – in una magnifica forma a cui possiamo accedere e che ci butta di colpo in media sres, senza nemmeno il viatico di un titolo o di un exergo: “ma la neve che    la neve che”.  Un’anafora che inscena un venir meno del fiato, tanto il fioccare è fitto e sospeso e riducente a nulla ogni intorno. La parola che si voleva pronunciare è caduta nel verso dopo, isolata e incapace con la sua minima gravità di ridare dimensionalità al reale, e guarda caso è proprio “cade”. Nel “buio” il vorticare sospeso, “volatile”, senza forma e posa, “impermanenza”, senza peso, “leggerezza”, di una bianchezza che non si oppone al buio, ma lo complementa di luce, “luminosa”. Solo astrazioni per dirla, perché siamo oltre la soglia. Ma non siamo in una qualche meta-realtà: non c’è lesione, fenditura. Se questa neve si posa per contornare il “capo”, le “spalle”, le “braccia”, la “veste leggera”, i “piedi scalzi”. Di chi “va via senza suono”. Non è un eufemismo per ‘morire’. O per qualsiasi ‘perdersi’, ‘lasciare’, ‘cambiare’…  Ma per dire una esperienza comune, “di una come me”, ci rassicura quella che scrive: è un ‘diventare’ e basta, solo diventare diventare, nemmeno un qualcos’altro, solo diventare e quindi ‘scomparire’ “dentro la nevicata”. Magnifica. È magnifica la chiusura nella poesia dopo dove, accedendo a un paradiso di ciliegi in fiore e fili di riso, “la vecchia esce dai lampioni di kyoto” e cantando ci lascia la scia della “sua risata”.
3-Nel mediterraneo dentro l’i   sola di.
Si ricompone, riappare, sempre lei, la vecchia che si firma “signora Lan”. Insieme ad un ideogramma, che quella che scrive legge con la propria sensibilità di poeta. Tre linee di base, “in pendenza crescente” verso l’alto dal basso, quasi una terra che si tende al cielo, da cui si alzano due linee oblique, “due ali, una delle quali completamente autonoma”, staccata, l’altra nello spiegarsi del distacco. In una lettera di carta di bambù, che odora di “fuliggine di legno resinoso”, “olio di pino, colla animale”, “muschio e canfora”. Il terzo viaggio è da subito una chiamata. Per custodire – ancora – il faro dell’i   sola e quanto lì è preziosamente conservato. Lei scelta perché poeta: che, quindi, “può vegliare e cantare il profondo”.
Per arrivare all’i sola quella che scrive si è staccata dalla “polis” e dalla “domus”, cioè dal contesto ‘civile’, comunitario e affettivo, per venire nell’i sola, dove lei, “ionulla”, è nell’assenza assoluta di altri umani, è sola. L’i sola è non solo in mezzo al mare, ma ne è parte essenziale, elementale, punto d’approdo – vedremo – anche del percorso di iniziazione. “Chi è? Cos’è l’isola?” Quella che scrive sente la sua possibile animalità, un’organicità che la avvicina a una spugna, con “pori e canali che permettono all’acqua di circolare nutrendola”, che le “assomiglia”.
Il mare, verso l’inverno, sospinto dal vento tempestoso, si avventa sul “corpo dell’i sola” brutalmente: “spoglia”, “falcia la macchia, percuote le piccole sporgenze rocciose”, “strappa a morsi la terra”, “rovescia le acque in lame di aria fredda, le innerva con frenesia isterica”. Il faro “abbaglia” col “ritmo della luce” e “fende le onde viola”. Sembra un mediterraneo furioso per quanto di doloroso deve patire: i “barconi degli immigranti”, le scorie di plastica, le “pance inquinate dei pesci”. Questo mare lei, “brutta anatroccola in cerca” che scrive, ha attraversato per la sua metamorfosi ulteriore.Ma quando c’è più calma, la “notte mediterranea” inscena una “teatralità spettacolare tra punteggiature luminescenti di alfabeto morse”; anche qui la scrittura si è trasposta nell’intorno ambientale, come pure il corpo di lei: “se alzo la mano entro in una costellazione”, tanto che “nel pulviscolo stellare” (come non essere richiamati al brulichio della neve appena trascorso?) può toccare “la cometa verde smeraldo” delle pleiadi. 
Il sentiero che porta alla grotta –solo il primo dei tanti ‘sprofondi’ dell’i sola– è uno dei due possibili; l’altro “si spegne” nel caos di una “selva di rovi” dove la prospettiva è di “graffi dolorosi”. Quella che scrive si mette per quello che porta alla grotta. Dice che non lo fa per scelta, ma per ‘disporsi’ “nel selvatico”. Il sentiero è a spirale. Maternale, ancestralmente maternale. E lei è morbidamente ricettiva nella sua istintualità sensoria, non irrigidita negli schemi raziocinanti. Nella grotta si conservano gli archetipi della catena diacronica della specie: “incisioni alle pareti”, “cumuli di cenere d’un fuoco ripetuto”, il tempo intrappolato nelle “ragnatele”, il mare dell’origine che rimbomba “da qualche parte”. Lei stessa, camminando per l’i sola, riproduce nella sua “postura verticale” l’homo erectus, che “gestendo l’animale altezza” le ha adattato “il mantice del respiro”. Lei si esercita a tenere in equilibrio il “labirinto” che sente di essere: di vie corporee – “vene” –, di vie atmosferiche – “arie” –, di vie terragne in metamorfosi col tempo – “geologie”. Lei, “sopra due piedi scalzi” per sentire, camminando in un “passo preistorico”, il suolo dell’i sola, sa ormai “abitare nella sosta un fuoco, meditare il crepitio, osservare le affinità tra le scintille, sentire la genesi della sua e della mia lingua, nella grande pancia del ku”. Il segno del vuoto, della forma che mai consiste in sostanza per la sua costante impermanenza.
Dentro al faro, dietro una tenda, c’è quel che resta di un’aula scolastica. Sul pavimento di sabbia centinaia di piccole impronte. Sulla cattedra occhiali con una “lente rotta, ferita. Viva. Leggente.”. Dell’ultima maestra, della vecchia che lì l’ha chiamata per tramandarle la veggenza e il compito della testimonianza. Ma occorre l’intervento di un altro Maestro per completare l’iniziazione, a modularsi sull’altro-da-sé, creaturale comunque, che sia sofferenza umana o forze cosmiche. Quel Maestro che sconvolge ogni fissità sistematica, dell’‘io’ che ancora ingorga a sé il mondo, dell’aula chiusa in un ordine muto. Qui, il vento. Che “ha inghiottito il mare, trascinandolo con sé”.
“Dormivo nel femminile mentre una tromba d’aria ha capovolto il mondo.”
Altrettanta energia dentro il sogno “delle ali del ku”, “nella culla della madre tra i significati del femminile profondo”. Un altro pozzo. Intimo. Dove sta la grande madre.  
Niente è rimasto com’era dopo la tempesta. Scaravoltato, capovolto, buttato a terra, sradicato. È l’ultimo stravolgimento necessario a completare l’iniziazione. Si rivela infatti un’altra porta, una “camera oscura”, che, affondandosi nella “polpa del buio” rivela il “pozzo” – un altro – con foto appese, materiali per lo sviluppo e acri odori in “un ordine sprofondato e intatto”: “un ventre inquieto e inquietante”, a cui infatti un avviso all’ingresso dice: “vietato entrare”. Luogo del fermato, del per sempre inciso, ma rimosso, chiuso, sigillato. Anche lei, dopo la discesa – necessaria per averne consapevolezza e distaccarsene – risale. A raccogliere, ricomporre, interpretare i pezzi dell’aula. Una “ri creazione” dei poeti, il compito di ri-portare testimonianza col loro canto. Tra le cose dell’aula la cassettiera-archivio con ideogrammi, nominativi: l’avvenuto non si cancella, e la memoria consapevole, la storia, se possono, conservano e tentano un ordine. Ma la poesia ha un dovere in più, che è verso la sofferenza. Nella sabbia del pavimento quella che scrive trova una scatola con incisa l’‘onda’ di hokusai, che si protende ad “afferrare” “una figurina” aggiunta, di spalle, “scalza”, dal “passo fiero, consapevole”, “che entra nella montagna innevata”. La poesia. Dentro, fogli di bambù, veri “corpi porosi” su cui “canti di bambini da vari inferni del mondo, trascritti a sangue”. Quella che scrive apre “la bocca della mia poesia” e si lascia ‘imboccare’ dalla sofferenza che incontra.
Sono dieci urli terribili, ma già nel fiato flebile del loro spegnersi nello sfinimento della violenza. A cui quella che scrive dà voce col proprio respiro, ma sottraendosi del tutto – scrittura, calligrafia, schianto emozionale – per essere solo la “recuperante”, da tempo chiamata, ora compiutamente iniziata, plurale e singolare insieme: “con la lingua raccogliamo i residuati bellici / brillando il silenzio minerale tra il sangue dei morti // la mia poesia pratica gli ordigni / e la mia resistenza matta   li fa cantare” (A.M. Farabbi, dentro la O, kammeredizioni, 2016, p. 13). Qui la poesia si scarnifica, rinuncia quasi del tutto alla sua più grande potenza: l’apertura polisemica. Le poche parole, infatti, sono quasi univoche, per non far spostare neanche di un respiro da quanto è l’evidenza – esatta – del sacrilegio. Davvero il furto, la profanazione del sacro più sacro alla catena della specie. Ogni parola è deittica (“un filo spinato e ciotole arrugginite”, “i miei stracci (…) li passeranno subito a un altro”, “”, “nei budelli bui delle fogne”, “vendute (…) e portate allo sgabello”, “la chiazza di sangue sul lenzuolo”, “rastrellati dai gas nervini”, “le squame di mica”, “impugnando il fucile”,  “lasciati in terra”), incapace di distrarsi dall’esatta fisica indicazione nel mondo e nel tempo di quella precisa violenza e di quell’altra, e quell’altra, lì e lì e lì; ma, allo stesso tempo, punta l’indice in una accusa che è polisemica, sì, questa sì. Non solo indica i boia, gli assassini, i violentatori, ma si allarga alle corresponsabilità politiche, sociali, economiche, di tutti i paesi: ‘civili e sviluppati’, neutrali, neocolonizzati, espropriati, dittatoriati, disimpegnati, genocidiati, tutti nel mondo: una “umanità che falcia l’infanzia”. Questa poesia è nel ‘parlare niente’, che non è ‘tacere’, ma “accudire l’occhio della lanterna”, l’occhio che vede e testimonia.
Ognuno di questi squarci d’infamia è anonimo, e solo qualcuno ha una postilla geolocale, perché ognuno si moltiplica a tanti/tutti gli altri, nessuno escluso, ben veri dietro quell’ognuno a orrore. Immagini, analogie e adiacenze non spostano altrove, ma incorporano tutto: mondo, cose, colpe, innocenza e abbrutimento.
“volevo una palla e un giardino / (…) / (…) io sono la mucca dannata con un prezzo al collo / (…) // volevo dormire sull’erba lasciando il nome    sfarmi / (…) / non sostare sul tavolo marmoreo dell’obitorio / immobile nuda fredda sprecata / guardata dai maschi”;  “capita / che nel fuoco pioviamo lacrime / e il diluvio ci squaglia la testa”; “perdo i piedi correndo / perché l’odore dei miei organi scatena la caccia”;  “io sono due mani di sei anni / vendute”; “apro le gambe / (…) // offrendo la mia infanzia allo stupro”; “siamo una brace di orfani”; “quando mi alzo ubbidisco”; “andiamo verso gli uncini del mattatoio / già con la morte in mezzo alle gambe”
Solo dopo, dopo l’immersione profonda nell’ideogramma dell’enso, svuotata e colmata di tutto, quella che scrive può ritrovare la propria voce, in tre poesie, che hanno come prima parola un “eppure”. Che si volge alla resistenza, imparando dalle “margherite” rese “calve” dal vento, che non smettono di profumare e così di fare “luce alle formiche”: anche se “inciampo, cado mi rompo”, resterà “una manciata di polline per il miele dei poveri”. Infatti, “l’unica cellula rimasta dell’io / diventa aria    poi ku”. L’individualità ridotta all’essenza estrema, i  solata e ammaestrata dalle figure femminili incontrate – la vecchia dell’oasi che danza senza danzare e cura, la vecchia fantasima che si muove tra le canne di bambù ed è bambù, la vecchia signora che la chiama all’isola e le lascia la lente rotta e leggente –, così simili alla ‘nonna’ di montelovesco (in La tela di Penelope e in Adlujè) e alla grande madre, ora può sciogliersi in quel vuoto che è la forma metamorfica perenne, in quel niente dove, tutto coesistendo, nessuna singolarità ha senso di per sé.
Nel quarto ed ultimo quaderno l’approdo è in “soletudine”, parola irraggiante e potente come una magia. E, dopo la scoperta di misteriosi “orci” dal coperchio di vetro in un cimitero sotto il mare, e di incisioni nel tavolo del faro di nomi, “date, rotte, distanze”, e del suo personale vissuto, e dell’isola – senza più dieresi – e della sua configurazione; dopo il ritrovamento di “una lettera”, ecco l’approdo alla piena consapevolezza. “Chi è      ora lo so.”. La domanda era rivolta all’ “i sola”.
Se la “lettera” fosse un modo di dire ‘ideogramma’, allora l’isola è il ku. Infatti non è più “i sola”. Ma allora potrebbe essere quella che scrive che è arrivata alla sua completa iniziazione, a essere sé e tutto il resto esistente. Ma l’isola l’ha accompagnata ai vari pozzi e potrebbe essere la sciamana che, assommando tutte le vecchie magiche incontrate, ha completato la sua formazione, tra l’altro più volte suggerita: la grande madre. Potrei essere io che ho letto e tanto meditato su queste parole.
Se qualcosa ho imparato, però, tutte queste cose e altre ancora, e nessuna di esse, è l’isola che ancora non smette, può essere l’i sola.  

Si pronuncua sora-cielo e kara-vuoto e akero-svuotare

Difesa del nostro corpo senza le armi

Uomo= 5 elementi 1-unione di forme (occhi naso boccalingua corpo) orecchie2-unione di sensi, percezione dall’esterno 3-unione di distinzione catalogazione della sensazione 4 unione di memoria della sensazione per confrontarla con altra 5 unione di giuduzio e valutazione che dà una definizione finale, ma mai definitiva assoluta    il giudizio finale dipende sempre da sé stessi in quel preciso momento

Vuoto è zero, ma esiste. Ciò che si vede e si pensa che esista, ogni giorno si muove si trasforma, c’è ma si muove si evolve ma non ha consistenza

Anche il pensiero – negativo arrabbiato desideroso all’eccesso può percorrere la stessa trasformazione del ku   ma non bisogna pensare troppo a non avere pensieri, a niente dare eccessivo interesse

Non si considera  la sostanza, non c’è, ma non è il nulla.

Ogni cosa ha una forma, ma non smette mai di evolversi ecco perché non hanno sostanza

Non si può esistere da soli perché tutto ciò che sta intorno ci fa percepire il mondo e noi stessi

Nel buddismo zen, nel Sutra del Cuore, testo fondamentale, (Hannya Shingyo):

“… non ci sono  forma né suono, odore, gusto, tatto, oggetti: né c’è un regno del vedere, e così via fino ad arrivare a nessun regno della coscienza; non vi è conoscenza, né ignoranza, né fine della conoscenza, Né fine dell’ignoranza, e così via fino ad arrivare a né vecchiaia né morte; né estinzione di vecchiaia e morte; non c’è sofferenza, karma, estinzione via; non c’è saggezza né realizzazione. Dal momento che non si ha nulla da conseguire, si è un bodhisattva…”

‘realizzazione’, anche ‘profitto’ (toku o shotoku in giap); se ci si antepone la particella ‘mu’ (= non), ecco che ‘mushotoku’ (quel nulla da conseguire) è ‘non-profitto’.

Un detto zen: prima dell’illuminazione tagliavo legna e portavo l’acqua… dopo l’illuminazione taglio legna e porto l’acqua”. si continua con la vita di prima, ma in modo più consapevole. Non è l’azione in sé stessa che conta, ma l’attenzione e la consapevolezza che c’è dietro. Si porta l’azione a un livello più elevato.

Dice Musashi, nel Libro del Vuoto, (uno dei libri che fanno il libro dei cinque anelli): ku significa vuoto, ku è ciò che non si può conoscere. Naturalmente il vuoto è il nulla. Praticando la forma, si percepisce il vuoto. Questa è la natura del Ku” “giungi alla corretta considerazione prendendo per base la sincerità di spirito e l’onestà interiore; pratica Heido (il ‘metodo’ che espone in tutta l’opera) quotidianamente; sforzati di percepire correttamente e chiaramente la realtà. Fai di ku la tua Via e che la tua Via sia ku.”

Shiki fu i kū la Forma non è differente dal Vuoto

Kū fu i ahiki il vuoto non è differente dalla forma

Shiki soku ze Kū la forma è il vuoto Kū soku ze shiki il vuoto è la form

  1. Avatar Stefano
    Stefano

    Grazie Milena, questa lettura ha la forza di rallentare i ritmi spesso superficiali del nostro oggi, purtroppo sempre più “social” nell’apparire verso l’esterno, ma inevitabilmente carenti di riflessione interna, spirito critico e autoconsapevolezza. È un occasione di profondità emozionale, un piacevolissimo invito a viaggiare con e in noi stessi, dove i punti interrogativi che nascono naturalmente assomigliano ai ganci della lanterna che ci accompagna nel percorso. Grazie di cuore

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