
Una fede assoluta tiene inchiodato David a quella sedia. A guardarli si direbbe che sono invecchiati assieme, la sagoma di legno nodosa e secca come il corpo dell’anziano che ci sta seduto sopra, e del cui sedere ha preso ormai la forma. È sempre lucida, la polvere non ha il tempo di posarvisi. E pensare che si trovano in mezzo a una landa desertica, dove sabbia e polvere coprono tutto, anche le anime di chi ci vive.
Solo i pochi clienti che vanno a fare rifornimento riescono a staccarlo da lì. Ma questo accade così di rado ormai. Si sono accorti che il vecchio è suonato, a volte devono aspettare anche dieci minuti per essere serviti. Se non fosse per il negozietto che Mary riesce ancora a tenere rifornito e che in quella valle dalle distanze proibitive riluccica come un bazar, non si fermerebbe più nessuno. Non si rassegna, si arrabbia ogni giorno Mary, non capisce quanto è importante che lui rimanga fermo lì. Può blaterare finché vuole, può urlare, piangere, pregare, lui nemmeno la ascolta. Le parole hanno un peso, un preciso significato, danno vita a patti di sangue. Le risponde sempre così.
Le parole, quelle esatte, che ha pronunciato quel giorno al telefono, gli girano come un disco rotto nella testa: “Elizabeth, ti ho mandato tutto quello che avevo. Ora devi trovare qualcuno che prepari i documenti. Poi prendi la piccola e scappa. Sei forte, sei intelligente, conosci le lingue, non come quest’imbecille di tuo padre. Non lasciarti abbattere, non farti dominare da quel verme. Ce la puoi fare, ma stai attenta. Io ti aspetterò ogni giorno nel nostro angolo, sulla tua sedia preferita, quella su cui amavi arrampicarti quando eri piccola”. Sentiva che dall’altra parte Elizabeth deglutiva singhiozzi: “Sì papà, il mio posto sicuro lo diventerà anche per la piccola Emily. Ma lei saprà fare di meglio: ti salirà sulle ginocchia e capirà che non si deve avere per forza paura di un uomo. Sarai tu la sua salvezza”.
“…… ce la puoi fare…… io ti aspetterò ……. ”
Sono passati due anni, due mesi, quattordici giorni. Ancora niente. Mille spiegazioni si fanno strada da allora nella sua testa; c’è spazio per tutte, tranne per quella più paurosa. Perché lui lo saprebbe. È pur sempre suo padre, no? Per la madre è diverso, anche se non l’ha mai capita questa cosa. Come fa una madre a rimanere così irreprensibile, a dedicarsi ai lavori di casa come se non ci fosse sangue del suo sangue in cerca di salvezza lì fuori? È sempre stata così Mary, silenziosa, distaccata, sbrigativa anche negli affetti. Per la verità, era uno dei motivi che lo avevano intrigato ai tempi. È buona cosa arrangiarsi con le proprie emozioni, a cosa serve spartirle con gli altri se non a creare imbarazzi? Probabilmente è diventato così, perché costretto fin da piccolo a una eccessiva condivisione di tutto, essendo stato cresciuto da un gruppetto di donne in cui non era compresa la madre, morta mentre lo dava alla luce. Non gli era certo mancato l’affetto lì in mezzo; non c’erano segreti e se c’erano duravano assai poco, perché le anziane erano molto abili nel tirar fuori ogni singolo turbamento dalle più giovani, approfittando della loro inesperienza. Erano così abituate ad averlo tra i piedi, che spesso si dimenticavano della sua presenza e ridevano come matte quando qualcuna lo notava imbambolato e rosso fino alle orecchie, fra tutte quelle gonne e quei racconti dagli umori proibiti. E allora finiva che se lo passavano come una palla, stringendoselo al petto, alcuni che sapevano ancora di latte perché avevano da poco nutrito l’ultimo poppante, e veniva sbaciucchiato da tutte finché non riusciva a fuggire e a nascondersi da qualche parte, per ricomparire dopo ore, quando la fame lo stanava.
Per questo Mary gli era piaciuta subito. Ne aveva avuto abbastanza di melodrammi ed eccessi sentimentali. Poi però, quel suo lato così poco materno, lo aveva deluso. Ad esempio non le aveva mai perdonato di non aver voluto allattare la piccola; quello scricciolo che si arrampicava su di lei alla ricerca del calore fluido di cui aveva bisogno, gli spezzava il cuore.
Dal giorno di quella telefonata, non beve un goccio. Sobrio, disgraziatamente, sempre, sobrio. Lo aiuterebbe così tanto farsi un goccetto per staccarsi da quei pensieri fissi, per sentire meno il cuore che sanguina. Ma nulla è peggiore dell’idea che loro arrivino, e non lo trovino lucido. Elizabeth odia l’alcool, ha avvelenato la sua giovane vita e quella della sua bambina, ha abbrutito l’uomo che amava tanto da abbandonare i genitori e migrare lontano. Dove il padre non l’ha mai potuta raggiungere, mai potuta salvare.
Nell’attesa troppo lunga, quando si stava abbandonando ormai alla disperazione più nera, era arrivata una seconda telefonata, strana e inquietante: sollevata la cornetta, non aveva sentito niente. Proprio niente. Eppure era certo che ci fosse qualcuno dall’altra parte, c’era qualcosa di terribilmente triste dentro quel silenzio, un respiro di dolore così denso che gli sembrava di toccarlo. Aveva invocato il suo nome più e più volte, ma niente, nessuna risposta. Lo aveva voluto avvisare che era viva. Ma poi? Cos’altro significava? Che si era dovuta rassegnare al suo aguzzino? Che era stata scoperta nella fuga? Che stava per arrivare? In ogni caso, da lì aveva ricominciato a sperare e ad aspettare, più convinto che mai.
Aveva solo sedici anni, quando gliela portò via. Il tipo non gli era mai piaciuto. C’era qualcosa di artificioso in lui. Guadagnava troppo denaro per lavorare in una carrozzeria, come diceva. Quali scheletri nascondeva tra i telai delle auto? Diceva che le avrebbe fatto fare una vita migliore e chiunque, vedendo la sua disinvoltura in abiti di buon taglio e un’auto costosa, gli avrebbe creduto. Ma il modo in cui lo diceva, gli dava sempre la sgradevole sensazione che lo volesse umiliare. La parte peggiore era vedere l’espressione incantata sul volto della figlia durante i suoi sproloqui. Gli faceva una tale rabbia che spesso, con una scusa, si alzava e usciva.
La sedia su cui aspettava, risoluto, era la stessa di quando, da piccina, lei si metteva in ascolto dei suoi due quarantacinque giri. Ci appoggiava il mangiadischi che il padre le aveva regalato, si accoccolava accanto e con lo sguardo sognante inseguiva i personaggi delle fiabe. Poteva stare così per ore, tanto che oramai lui e la madre le detestavano quelle voci, sempre quelle, stonate e uguali, mentre lei cambiava.
Venne il giorno in cui Elisabeth ripose con rabbia il mangiadischi nella scatola impolverata, per non guardarlo mai più. Vivere in quelle lande deserte per lei, dopo il diploma, divenne difficile. L’unico piccolo divertimento della giornata arrivava a sera, quando contava i soldi dell’incasso con la madre. Oh, era stata proprio brava Mary nel trasmetterle il fascino dell’unica cosa che le aveva sempre fatto brillare gli occhi: il denaro. Così, al primo cialtrone di passaggio, Elisabeth aveva dato tutto, ma proprio tutto. Si era fatta mettere incinta. La madre non le parlò più e la situazione in casa divenne insostenibile. Lui non sapeva che fare, non era tipo da prendere decisioni David. Una sera, con lei sparì l’incasso del mese. Aveva studiato bene il colpo, anche in quello era stata una brillante allieva.
Il colpo, già. Un vero colpo al cuore.
(P.M.)
Elizabeth si svegliò con gli occhi pieni di lacrime. Aveva di nuovo sognato il padre, immobile su quella sedia, lo sguardo perso sull’orizzonte. Non ce la faceva più a pensarlo così, solo nel suo dolore; temeva lo avrebbe portato alla follia prima di riuscire a rivederlo.
Mentre rifletteva sulla sua situazione, la manina della piccola Emily asciugò una lacrima che le scorreva sul viso; non si era accorta che la piccola si era già svegliata. La guardò, tutto quello che aveva subìto e tutto quello che stava ancora subendo, aveva un senso solo grazie a quegli occhioni nocciola spalancati sulla vita. Emily la fissava seria e non sapeva se abbracciare la mamma o aspettare in silenzio che tornasse da quel sogno, dalla tristezza con cui si risvegliava ogni mattina. Sorrise alla bimba, la attirò a sé e riempì di baci il piccolo musetto, così adorabile e allo stesso tempo così somigliante al viso dell’uomo che le aveva rovinato la vita. La risata della bimba sembrava lo scorrere di un ruscello di montagna tra le sue braccia; si fecero il solletico per un po’ e alla fine Elizabeth si alzò, la prese per mano e la portò in bagno. La porta era chiusa: anche quel mattino avrebbe dovuto aspettare il proprio turno per poter lavare la bambina e sé stessa. Il bagno era occupato da Maria, lo capì ascoltando i gridolini di gioia del suo neonato, adorava fare il bagnetto nella vaschetta!
“Maria manca molto?” e da dietro la porta la voce rispose: “No Elisabeth, ho quasi finito!”.
Scese quindi al piano di sotto per prepararsi un caffè e scaldare il latte per la piccola. Ogni giorno era uguale al precedente in casa d’accoglienza, scandito soltanto da alcuni litigi con le compagne di disavventura e da un’attesa troppo lunga e colma di impotenza. Quel giorno però sapeva che le cose sarebbero cambiate, aveva preso la sua decisione: non avrebbe più aspettato inerte che arrivasse da qualcun altro la protezione, avrebbe reagito, rischiato e combattuto per dare alla figlia una vita migliore. Non poteva più aspettare, la visione del padre era solo l’ultimo dei molti suoi tormenti. Lo aveva comunicato a Sarah, la responsabile del centro, una persona per bene che ormai non sapeva più come aiutarla e confortarla. L’aveva ringraziata per tutto quello che aveva fatto per lei durante quei due interminabili anni, in cui aveva dovuto continuare a nascondersi per non mettere a rischio anche i genitori… ma era giunta l’ora di tornare a casa. La solitudine ormai le faceva più paura del pericolo. Ora le piccole mani di sua figlia dovevano poter toccare il viso rugoso del nonno mai conosciuto, prima che il tempo lo portasse via. Elisabeth nella notte precedente aveva preparato la valigia con le sue poche cose e le tante della bambina: Emily era fortunata, perché grazie a molte persone di buon cuore non le mancava davvero nulla, tranne la libertà. Una parola che la bimba ancora non poteva capire, ma sarebbe presto arrivato il momento in cui l’avrebbe compresa e resa preziosa come una gemma.
Sarah cercò per l’ultima volta di convincerla a rimanere, ma ben presto cedette e mise in moto la macchina senza aggiungere altre parole. In fondo, provava per la risolutezza della ragazza un sentimento misto di ammirazione e preoccupazione. Il giorno prima aveva avvisato anche le forze dell’ordine della decisione di Elisabeth: il rischio che qualcuno si facesse davvero male, poteva essere molto alto. Si mise alla guida per accompagnarla personalmente fino alla casa della sua famiglia, che distava da lì cinque ore.
Mentre l’auto percorreva i chilometri che la separavano dal padre, Elisabeth ricordò la prima volta in cui vide il viso dell’uomo di cui si era innamorata, per poi diventarne vittima. Era entrato nel negozio della madre, ben vestito, con un sorriso spavaldo e la testa piena di sogni. Aveva portato con sé un mondo che lei non conosceva e che le sembrò magico all’istante. Sembrava la persona più dolce del mondo ed Elizabeth, nella sua semplicità e nel suo bisogno di cambiamenti, si concesse quasi subito. Quando capì d’essere incinta, rimase per giorni in uno stato d’animo in bilico fra felicità e terrore. La sera in cui lo comunicò in casa, la madre parve impazzire di rabbia, tanto che ne ebbe per la prima volta paura. Da quel giorno non le rivolse più la parola. Il padre non reagì, rimase in uno stato catatonico per giorni, non lo aveva mai visto così. Un silenzio intollerabile, saturo di delusione, avvelenò i loro cuori e li rese di ghiaccio.
Quello che fece quella notte, superò ogni sua aspettativa e ogni barlume di amore nei confronti dei genitori. Era sconvolta sì, quando rubò il denaro. Ma arrivati a quel punto, non poteva fare altro. Sapeva che i genitori avrebbero ritenuto il ragazzo l’ideatore dell’azione, invece aveva fatto tutto di testa sua, il che la rendeva ancora più colpevole. La forza le veniva dalla convinzione di incamminarsi verso la libertà. Trovò invece una delle prigioni più terribili che si possano immaginare, di quelle invisibili, inudibili, facilmente celabili.
Ricordava bene il primo schiaffo. Aveva bevuto e la gelosia aveva preso il sopravvento: Elisabeth aveva sorriso al cameriere che le aveva portato il caffè e una volta saliti in macchina il marito (si erano sposati in fretta in municipio, non stava bene avere un figlio bastardo, le aveva detto) la colpì con forza. Lei pianse per ore e da quel momento cercò di essere una moglie migliore, senza però riuscirci nonostante gli sforzi: si ridusse a non parlare più con nessuno, a tenere la testa bassa e a coprirsi il più possibile per non attirare gli sguardi di altri uomini. Non bastò, non era comunque degna di lui: gli schiaffi diventarono pugni e una notte al ritorno dalla casa dei suoceri lui la buttò fuori dell’auto, abbandonandola sul ciglio della strada, nonostante si trovasse all’ottavo mese di gravidanza. La sua colpa, quella volta, era di aver parlato troppo con il cognato. Elisabeth riuscì a proteggere il pancione dall’urto durante la caduta. Poi camminò nel buio per più di quattro chilometri per tornare a casa.
Quando nacque la bambina, Elisabeth aveva voluto credere che i loro problemi si sarebbero risolti: l’aver costruito una famiglia insieme avrebbe compensato la sua inadeguatezza come moglie, e lui sarebbe finalmente stato felice e fiero di lei come madre. Ma non fu così. Non c’era più il pancione che in qualche modo lo tratteneva dal farle troppo male: divenne ancora più violento e gli schiaffi e i pugni divennero calci e abusi. Finì in ospedale diverse volte, dovevano pensare che fosse la persona più distratta del mondo per cadere così spesso dalle scale! L’ultima volta però aveva bevuto più del solito: la picchiò così forte da farle perdere i sensi. Si era svegliata in una pozza di sangue con al fianco Emily, all’epoca di quasi un anno, che strillava terrorizzata. Nello sguardo disperato e nelle manine impiastricciate di sangue della figlia, Elisabeth trovò la forza di raggiungere il telefono e chiamare l’ambulanza. Non mentì più, né agli altri né a sé stessa. Se qualcuno di sbagliato c’era, non poteva essere lei, finalmente le fu chiaro. L’ospedale attivò il protocollo di emergenza per violenza domestica. Fu così che lei finì con la piccola, in casa di accoglienza.
Sarah disse qualcosa che distolse Elisabeth dai terribili ricordi.
La piccola si era addormentata e ormai mancavano pochi chilometri alla casa dei genitori. Il paesaggio diventava sempre più familiare e il cuore della donna iniziò a battere all’impazzata. Scorse ancora lontana l’insegna, poi le pompe di benzina, poi lui: il padre, proprio come nei sogni, era lì seduto, immobile, lo sguardo perso sull’orizzonte. Quando la macchina di Sarah entrò nel parcheggio, lui girò piano lo sguardo, con l’indifferenza dell’abitudine alla delusione, poi scattò in piedi come se una scarica elettrica l’avesse colpito. Elizabeth scese lentamente dall’auto e rimase lì, lo sportello aperto, le gambe sorde ai comandi. I pochi secondi che passarono, parvero secoli. Si mossero poi all’unisono e si raggiunsero, fondendosi in un abbraccio che da troppo tempo sognavano. David era certo di essere sopravvissuto solo per questo. Si staccarono solo quando si sentì una vocina tra loro: “Sei tu il mio nonnino?”. David cercò di mettere a fuoco tra le lacrime quell’esserino: Emily lo guardava con occhioni sgranati e un po’ di paura. Lui si inginocchiò senza riuscire a dire una parola. La piccola lo guardò negli occhi così intensamente che pareva volesse scavarci dentro, poi si arrampicò su di lui. Prese tra le manine il volto rugoso e bagnato di lacrime del nonno e lo baciò con la naturalezza che solo i bambini possono avere.
Mary aveva seguito la scena rimanendo nascosta dietro la porta del negozio. Tutta la rabbia, il disgusto e la paura che l’avevano resa una vecchia scontrosa e arida, svanirono. Mentre sentiva che singhiozzi silenziosi le scuotevano l’anima, udì la sua voce urlare il nome della figlia. Quando la abbracciò, le fu chiaro che si era proibita di pensare a Elisabeth per tutto quel tempo, perché non poteva permettersi di impazzire come sembrava fosse accaduto al marito. Poi si chinò e prese tra le braccia Emily: in quel momento ritrovò il proprio cuore. Ora, lo sentiva battere nel petto.
(F.A.F.)
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