Già l’espressione «gite scolastiche» è svilente: rimanda ad un momento di pausa, una parentesi ludica dell’attività didattica e formativa, sminuendo il valore formativo del viaggio d’istruzione. Se poi la unisci al nome proprio del simbolo degli orrori del Novecento, Auschwitz, ne viene fuori qualcosa di umiliante e disturbante. Qualcosa che rimanda a quella maglietta nera con la parola Auschwitzland scritta con i caratteri Disney e indossata da un’estremista di destra nel 2018 a Predappio. Qualcosa che dovrebbe essere lontano, lontanissimo, dal linguaggio istituzionale e da un consesso scientifico di rilievo nazionale, promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e organizzato insieme al Cnel.
E invece, com’è noto perché l’espressione è diventata immediatamente virale proprio per l’enorme contraddizione che reca in sé, è proprio in questo contesto che è stata usata: e da una ministra della Repubblica per di più, Eugenia Maria Roccella, il cui dicastero si occupa delle Pari Opportunità e della Famiglia. Il convegno, dedicato ad una riflessione sul 7 ottobre a due anni dagli avvenimenti, si è svolto domenica 12 ottobre ed era intitolato La storia stravolta e il futuro da costruire. Per chi fosse interessato a seguire l’intero convegno, o ad ascoltare ciò di cui stiamo parlando, la registrazione integrale è su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=Nes5DwFRDgE&t=18371s e l’intervento della ministra inizia al minuto 4:47:25.
Per comodità trascrivo il testo del passaggio diventato virale:

«Noi non abbiamo fatto i conti fino in fondo con l’antisemitismo, con l’antisemitismo del nostro Paese in particolare. E tutte le gite scolastiche ad Auschwitz cosa sono state? Sono state gite? Sono state davvero gite? A che cosa sono servite? Secondo me, sono state incoraggiate e valorizzate perché servivano esattamente all’inverso: a dirci che l’antisemitismo era qualcosa che riguardava un tempo ormai collocato nella storia, un tempo lontano o non tanto lontano, ma insomma collocato ormai in un passato storico e collocato in una precisa area: il fascismo. Le gite ad Auschwitz, secondo me, sono state un modo per ribadire che l’antisemitismo era una questione fascista e basta. E quindi che il problema era essere antifascisti, non essere antisemiti. Non controllare fino in fondo quello che è avvenuto nel nostro passato, non fare i conti fino in fondo con quello che è avvenuto»

Di fronte a questo passaggio, la prima reazione è scontata: in un convegno che vuole riflettere sulla “storia stravolta”, la ministra ha davvero stravolto la Storia. E la seconda è quella che poche ore dopo ha messo nero su bianco sulle sue pagine social la storica Anna Foa: «che Eugenia Roccella dica cose simili non mi stupisce. Invece mi stupisce che le dica ad un convegno dell’Ucei e senza essere confutata».

In realtà, però, al di là di queste prime reazioni emotive, è bene riflettere su questo passaggio che non è, come potrebbe anche sembrare a prima vista, un semplice episodio di comunicazione sbagliata.
Per capirne meglio la portata, dobbiamo iniziare con l’inserire il discorso nel contesto del convegno, il cui intento appare molto chiaro: affermare che la terribile guerra di Gaza è conseguenza legittima dell’attacco a Israele del 7 ottobre, mettendo così in discussione l’opportunità delle manifestazioni di piazza degli ultimi mesi che, anzi, nascerebbero da una campagna di disinformazione e sono espressione di un crescente antisemitismo.

Anzi, di più: il violento e orribile attacco di Hamas a cittadini israeliani del 7 ottobre è stata una “rivelazione” (l’espressione viene usata da più di un relatore) del montante antisemitismo, che nasce dalla rottura del rapporto tra le democrazie occidentali e l’ebraismo. Come ha detto in quello stesso convegno Ernesto Galli della Loggia (intervento poi ripubblicato sul “Corriere della Sera” del 15 ottobre), «l’identità della democrazia europea è mutata e con essa è mutato anche il rapporto che al suo interno il mondo dei non ebrei aveva instaurato con gli ebrei e l’ebraismo». Ed è per questo che l’Europa, e in particolare quella della «gioventù più spregiudicatamente moderna», «è tornata ad una delle tradizioni più antiche del continente: all’accusa del sangue nei confronti degli ebrei».
Da questo punto di vista, il discorso di Roccella è perfettamente coerente con quanto sostenuto da molti degli altri relatori. Ed è per questo che anche una enormità come l’espressione «gite ad Auschwitz» viene accettata (o sopportata?) dagli esponenti delle Comunità Ebraiche presenti in sala.

L’obiettivo dell’intervento di Roccella, quindi, è politico, non storico: il cuore della sua affermazione è che l’antisemitismo non era «una questione fascista e basta». E, come sempre accade con i discorsi che usano la storia a fini politici, ciò che interessa a chi li fa non è la correttezza della ricostruzione storica ma solo il modo in cui quella ricostruzione può essere declinata nel presente. Da qui, peraltro, l’attacco alle università che non farebbero il loro lavoro educativo perché criticano la guerra in Israele.
In senso stretto, in questo discorso la Storia non c’entra davvero nulla: perché è chiaro che se si stesse parlando di Auschwitz, che per metonimia assurge a simbolo dello sterminio degli ebrei in Europa nella Seconda guerra mondiale, quell’evento è stato effettivamente una «questione fascista». È nato cioè all’interno dei sistemi totalitari nazista e fascista, in stretta connessione con le teorie della razza e con le precedenti leggi e politiche razziali, che avevano già permesso di identificare e di privare dei diritti gli ebrei.
Invece, nel discorso della ministra non c’è nulla che rimandi alla vicenda storica, e quindi alla specificità di Auschwitz, ma solo la volontà di allontanare l’antisemitismo dalla destra e di addebitarlo alla sinistra, a cui vengono implicitamente attribuite le manifestazioni contro la guerra delle ultime settimane.

Questo slittamento da destra a sinistra – o meglio, forse, da un antisemitismo storico ad un antisemitismo attuale – riposa su una definizione di antisemitismo che è stata formulata nel 2016 dall’International Holocaust Research Alliance (IHRA) e che identifica le critiche allo «Stato di Israele perché concepito come una collettività ebraica» con una delle possibili forme di antisemitismo https://holocaustremembrance.com/resources/la-definizione-di-antisemitismo-dellalleanza-internazionale-per-la-memoria-dellolocausto. Attualmente si sta cercando di istituzionalizzare questa definizione anche in Italia, visto che ci sono due ddl in discussione in Parlamento – uno firmato dalla Lega e uno da Italia Viva – nei quali la critica allo stato di Israele diventa una manifestazione di antisemitismo. E tuttavia – lo ha sottolineato Simon Levis Sullam, storico e studioso proprio dell’antisemitismo e della persecuzione antiebraica nell’Italia fascista – questa definizione è stata messa in discussione da un altro gruppo di eminenti studiosi che nel 2021 ha sottoscritto una Jerusalem Declaration on Antisemitism (Jda) [per saperne di più: https://jerusalemdeclaration.org/]. In essa si rileva che «la dichiarazione Ihra contiene elementi deformanti nell’analisi del pregiudizio antiebraico, divenendo uno strumento nella difesa di Israele» (Simon Levis Sullam, La via stretta tra antisemitismo e libertà di parola, “il Domani”, 4 ottobre 2025).

Ma se questo è lo sfondo nel quale si situa il discorso di Roccella, e che permette di comprenderlo meglio, mi sembra che le sue dichiarazioni chiamino in causa altre importanti questioni. Infatti, se siamo d’accordo che ci troviamo di fronte ad un uso (o meglio: un abuso) politico della storia, dobbiamo riflettere su cosa questo significhi.
L’uso politico della Storia finisce per negare alla radice la stessa ragione ontologica della ricerca storica, ovvero il suo essere la scienza degli uomini nel tempo. Pescando eventi dal passato per precipitarli nel presente, alla luce del quale vengono poi letti e interpretati, si elimina uno degli elementi centrali della Storia, la sua dimensione cronologica: ovvero il collocare gli eventi nel loro tempo.
Una tale presentificazione degli eventi storici ne rende impossibile la comprensione e, soprattutto, è una fenomenale strategia di livellamento delle responsabilità. Gli attori storici diventano in questo modo tutti uguali e le loro azioni, in fin dei conti, inspiegabili, perché manca (né interessa) la sequenza causale che le ha prodotte: anzi – ed è peggio – non serve nemmeno più spiegarle perché ciò che conta è il presente.
Ma questo processo porta, infine, a nascondere il passato: a occultarlo – diciamo così – nell’apparente evidenza delle ragioni del presente. E, quindi, a non farci i conti fino in fondo. Perché il punto fondamentale dell’uso politico della storia è che non si rivolge a chi la storia la conosce ma a coloro che non la conoscono o la conoscono poco: e, se riesce a penetrare nel discorso pubblico, può entrare a far parte di un senso comune storico, ovvero ciò che la gran parte della popolazione conosce di alcuni eventi o processi storici. Non serve negare il passato per modificare il senso comune storico: è sufficiente annacquarlo, renderlo indistinto e “presentificarlo”, ovvero raccontarlo in funzione del presente.

Occorre aggiungere un ultimo elemento a questa breve riflessione.
L’intera comunità degli storici e di coloro che lavorano quotidianamente con la storia – come gli insegnanti – sa perfettamente che gli eventi in Israele e in Palestina degli ultimi anni hanno creato una forte tensione sui temi della persecuzione razziale degli anni Trenta e Quaranta e sulla Shoah. Che, inevitabilmente, tende ad essere sovrapposta agli eventi attuali dagli studenti, quantomeno a livello di relazione istintiva. E sa anche che le azioni e le espressioni antisemite stanno aumentando in modo preoccupante.
E tuttavia, la soluzione non è – e non può essere – attualizzare e “presentificare” la vicenda della distruzione degli ebrei d’Europa negli anni ’30 e 40 del Novecento: perché questo non permette di capire né la Shoah né la guerra di Gaza. E aggiungerei che l’attualizzazione non deve avvenire né in un senso né nell’altro: le caricature di Netanyahu con i baffetti di Hitler e la divisa nazista non aiutano a capire nulla di ciò che sta succedendo ma sono solo un facile e fuorviante richiamo al passato che si scontra con la complessità e la profondità di una vicenda stratificatasi nei decenni.
Per concludere, accusare le visite d’istruzione ad Auschwitz di essere state solo delle “gite” perché non hanno insegnato a comprendere l’antisemitismo è ingeneroso – per non dire offensivo – nei confronti di tutte e tutti coloro che hanno lavorato e lavorano per affrontare con competenza e dedizione un percorso di formazione difficile e doloroso, in cui la dimensione emotiva e quella razionale non possono essere disgiunte. I viaggi d’istruzione nei campi di sterminio sono molto lunghi e a volte durano un intero anno perché non si esauriscono nella visita ai luoghi ma hanno un prima – un momento di formazione sulle antiche radici di una visione razziale della storia e sulla creazione di un antisemitismo diffuso – e un dopo – con una riflessione successiva, che non è mai facile ed è spesso dolorosa. In questa attività di formazione, l’antisemitismo è analizzato nelle sue molte componenti teoriche, storiche e politiche, proprio perché è stato – ed è – un fenomeno complesso: per rovesciare le parole della ministra – che, con un lapsus significativo, ha detto «il problema era essere antifascisti, non essere antisemiti» – il problema è essere antisemiti, non essere antifascisti.

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