
“…Possiamo osservare con calma il volto dei nostri simili ancora impauriti, e il paesaggio ancora un po’ beffardamente profumato, se ad ogni passo i nostri pensieri corrono ad uno schermo sul quale nel frattempo sta succedendo qualcosa senza di noi?”
(M. Marchesini, L’età muta, in L’età del ferro, anno 3, n. 2, settembre 2020, Castelvecchi)
Credo di non essere solo a farsi domande su come vivere (o sopravvivere) spiritualmente indenne a ciò che sta accadendo nel mondo in termini di distruzioni a causa della guerra.
Le parole di papa Francesco hanno fatto chiarezza definendo ciò che accade “una terza guerra mondiale a pezzi”. Non può però bastarmi esprimere sdegno nelle occasioni in cui si è convinti che possa servire a qualcosa. Mi appare chiaro di essere collocato in uno spazio ed in un tempo che mi rendono inutile, come singolo.
Per rimediare a questa sensazione di sconfortante impotenza, quando la guerra entra prepotente nella vita ordinaria attraverso i mass media, i talk show, le prese di posizione degli schieramenti politici…quando mi trovo a vivere momenti particolarmente tesi di attenzione su certi temi e certi fatti, ho un rimedio che, se non altro, riesce a confortarmi nella dimensione intellettuale.
Riprendo dagli scaffali casalinghi un libro stampato nel 1983.
Si tratta de “Sotto il segno della pace – Memorie di un pacifista” di Edmondo Marcucci, di origini umbre (era nato a Sigillo nel 1900) ma di fatto vissuto nelle Marche, a Jesi, fino alla sua morte nel 1963.
È il modo con cui provo a dirmi presente, provo a dirmi vicino all’ attualissimo e doloroso momento di molte popolazioni devastate dalla guerra
Il libro è una autobiografia personale (prodotta a stralci dagli anni ’50 fino al 1963) tracciata attraverso la sua adesione al movimento pacifista italiano ed internazionale. È scritto in una prosa chiara, ben documentato e con una ricchezza straordinaria di citazioni per fatti e persone. Marcucci era del resto un uomo colto e soprattutto un bibliofilo. Questa sua caratteristica si accompagnava bene ad un temperamento schivo e riservato che, d’altronde, non gli impediva di impegnarsi a collaborazioni operative, sul piano concreto della organizzazione.
Sfogliando con gesti frammentati e a singhiozzo “Sotto il segno della pace” ho ritrovato alcune considerazioni che mi sono parse degne di essere recuperate, segnalandole in queste righe.
Nella prime pagine, quando richiama la sua esperienza di studi e dichiara la sua estraneità assoluta al fascismo in Italia, Marcucci scrive, tra l’altro:
“La guerra è un atto di violenza che trova il suo strumento ed alimento nella passività delle masse che non riflettono, che abdicano al proprio io reclamante il vero, reale interesse: quello dello svolgimento pacifico della vita. La scuola pubblica di Stato diviene spesso un instrumentum belli oltre che di stato e di regime. La prima cosa che fece il fascismo fu di renderla una specie di caserma…”.
Ricordando la sua esperienza di insegnante nella scuola media, ecco un ricordo che diventa importante per definire un’epoca attraverso il meccanismo dell’indottrinamento.
“Ce n’erano di giovani fanatici, incoscienti o no. Era pericoloso tentare di aprire loro gli occhi: avrebbero denunciato. Uno di questi una volta disse a scuola, rivolto a me: ‘ Lei non ci dà mai temi dio guerra: questi sì che sono belli’. Tragico a ricordare, molti di questi giovani dovevano cadere pochi anni dopo nella guerra voluta dal loro Duce, anche come soldati volontari”.
Durante il suo processo di formazione di un pensiero pacifista, Marcucci incontrò anche la psicanalisi ed è interessante che la definisca
“profonda ed originale ricerca, ma non priva d’arbitrario nella sua complicata terminologia, nelle sue interpretazioni dei fati psichici e degli atti della nostra vita. Dottrina poco incoraggiante per un pacifista che deve postulare la perfezionabilità dell’uomo, il superamento del suo momento demoniaco. Sentirci dire che un ospite ingrato, l’inconscio, ci domina, che non sapremo mai le brutte sorprese che ci riserva, equivale a sentirci sempre sopra di noi la spada di Damocle della guerra…Noi ammettiamo che molte cause psicologiche di guerra abbiano radici nelle zone meno chiare del nostro intimo essere…ma vogliamo anche credere alla possibilità di esplorare queste terre incognite, riducendole via via per il fine del disarmo psicologico, il vero disarmo auspicato dal pacifista. Se lo psicanalista si proporrà questo compito…egli sarà il benvenuto cooperatore della pace e la sua dottrina non sarà più segnata dal triste marchio di un fatalismo preconcetto”
Sono conclusioni che hanno sapore di ingenuità, se rilette oggi dopo decenni di riflessioni sulla opera famosissima di Freud “Il disagio della civiltà”.
Eppure Marcucci, nel periodo fascista seppe scegliere di stare dalla parte di chi si pensava differente, non restando indifferente rispetto al tema della pace e della guerra, della umanità che soffre. Decise per l’impegno.
Entrò in contatto stretto con Aldo Capitini, da lui definito “amico egregio”. Collaborò fattivamente con lui per organizzare la prima marcia della pace Perugia-Assisi. Ma non solo: da insegnante colse fin da subito il nesso tra pace ed educazione e aderì con passione alla costituzione dei Centro di Orientamento Sociale, che tentò di organizzare anche nella sua città con scarsi esiti. Al termine di questa lettura (ispirata al momento emotivo inquietante che si vive oggi nei confronti degli accadimenti di guerra di cui sono spettatore impotente) ho avuto conferma di come questi temi abbiano bisogno di un pervicace lavoro di formazione permanente. Lavoro che non si interrompe di fronte alle sconfitte prevedibili ma riesca a tenere comunque acceso il lume di una speranza contro ogni fatalismo preconcetto (citando Marcucci). La sua esperienza, assieme a tanti altri e in primis Aldo Capitini, ci mostra che questo lavoro si può e si deve fare, usando ciascuno i propri talenti, le proprie energie, il proprio impegno, la propria responsabilità di soggetti della storia.
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