
Per la prima volta, da cinquant’anni, l’aria della Siria profuma di speranza. E questo, dopo il colpo di stato dell’otto dicembre 2024 che ha costretto il suo presidente Bashar Al-Assad alla fuga, ponendo fine a mezzo secolo di feroce regime.
Si chiama, anzi si chiamava Abu Mohammad al-Jolani, attualmente Ahmad Al-Sharaa, l’uomo che ha diretto l’offensiva finale al regime Assad, a guida della HTS (Organizzazione per la liberazione del Levante), la più importante forma di opposizione al governo caduto. Si è autoproclamato Presidente del governo provvisorio siriano. Un gesto poco democratico, eseguito da un uomo dal passato ambiguo, ex-Jihadista seguace di Al Qaeda dal quale ha preso ufficialmente le distanze nel 2017. Probabilmente l’unico gesto possibile, nel contesto di una efferata dittatura militare che pareva inarrestabile. Ama definirsi un radicale pragmatico, e i suoi metodi, sommati a un’abile retorica, inducono a crederci, pur con la dovuta prudenza. Professa tolleranza religiosa, esprime sforzi visibili nel far uscire il paese dall’annientamento strutturale e sociale in cui si trova, offre segnali di apertura riconosciuti anche all’estero, tanto da convincere USA e UE a rimuovere le sanzioni in atto da numerosi anni.
Per mezzo secolo, la situazione del paese è stata dolorosamente solida: la dinastia Al-Assad, di appartenenza alawita (minoranza islamica in Siria, rispetto alla maggioranza sunnita del mondo orientale – alawiti e sunniti condividono lo stesso credo, ma interpretano diversamente le scritture del Corano, generando conflitti in varie parti del mondo) ha portato nel tempo alla distruzione di un glorioso popolo e di un territorio dal patrimonio storico e culturale incalcolabili. Morte, torture, deportazioni, sottrazione della terra e della libertà, sono stati i pilastri del disegno criminale del regime. Hafez Al-Assad, un militare egocentrico con il culto della personalità, ha regnato dal 1971 al 2000. Alla sua morte è subentrato l’odiatissimo figlio Bashar, il quale ha superato in efferatezza il padre, rimanendo al regime fino al dicembre 2024. Il fratello Maher, con la famigerata quarta divisione, ha contribuito al saccheggio di tutto ciò che rimaneva in piedi nel paese, rubando beni e lasciando ovunque cumuli di macerie.
Come sempre accade in un paese che vuole uscire da una lunga e violenta repressione, l’instabilità politica e sociale è pregnante. Le tensioni altissime e una volatile situazione interna indeboliscono la Siria, dando spazio alle ingerenze di alcune nazioni straniere intenzionate a spartirsi il territorio.
Al suo interno convivono divisioni, fazioni, gruppi adesi al vecchio e al nuovo regime, e i militari ora si trovano a difendere il governo contro cui hanno lottato fino a pochi mesi fa. Molte famiglie sono state profondamente segnate dalle immagini relative all’apertura delle carceri del regime e al ritrovamento di fosse comuni, e di documentazione attestante la morte dei loro cari, che risultavano ufficialmente scomparsi, continuando a lasciare in loro un flebile barlume di speranza. La brutalità emersa da quei luoghi di detenzione e di tortura ha avuto un effetto devastante su di loro, che sapevano di avere a che fare con un regime brutale, ma in fondo, forse per spirito di sopravvivenza, non pensavano potesse arrivare a tanta crudeltà.
Per questo, ci sarebbe bisogno urgente di nuove e giuste leggi che ripristinino l’ordine e affidino alla giustizia aguzzini e criminali, ancora di più per spegnere la sete di vendetta che ribolle negli animi. Molti siriani, tra cui avvocati indipendenti, invocano la costituzione di una commissione di professionisti dedicati allo scopo, affermando: “In assenza di una giustizia di transizione nulla potrà cambiare. Il popolo siriano non ha sete di sangue, è un popolo pacifico, ma le ferite da sanare sono enormi e se non c’è giustizia non potrà esserci pace”.
Pare invece che l’attuale governo tenda alla concessione di un’amnistia incondizionata. È un pensiero condivisibile, la vendetta non fa che mantenere e rafforzare cicli di odio e dolore, ma potrebbe rappresentare il tallone d’Achille del nuovo sistema, con elevato rischio di rappresaglie, di cui la maggiore è già avvenuta in marzo sulla costa siriana: un gruppo di seguaci del decaduto governo alawita ha attaccato le nuove postazioni governative, e come un fiammifero caduto in un pagliaio gli animi provati si sono accesi, terminando nel massacro di un migliaio di persone. La sera dell’otto marzo Ahmad al-Sharaa ha ordinato pubblicamente ai suoi uomini, in nome della “nuova Siria”, di proteggere le famiglie alawite e di trattare con umanità i Fulual (combattenti dell’attuale regime) catturati, dichiarando: “So che possiamo convivere in pace. Abbiamo di fronte delle grandi sfide, ma possiamo superarle”. Parole di speranza.
Un altro grande capitolo annesso alla ripresa, è la quantità incredibile di profughi siriani ancora disperse nel mondo che vorrebbero solo rientrare nelle loro case, cosa inattuabile in assenza di stabilità interna. È da poco tornata dalla sua ultima missione nei campi profughi di Kilis, una cittadina sul confine turco, la ODV (Organizzazione di Volontariato) We Are di Bologna che assiste da oltre dieci anni, con ammirevole dedizione, numerose famiglie perlopiù costituite da vedove e bambini, riusciti a sopravvivere alle proibitive condizioni igienico-alimentari e all’ennesimo gelido inverno turco. Queste, le parole del suo Presidente Enrico Vandini: “Abbiamo percepito, per la prima volta, una forte dose di speranza per il futuro nei loro occhi e nelle loro parole… Purtroppo, dopo un primo check, è emerso che le loro abitazioni sono state rase al suolo, prima dalla guerra e poi dal terremoto recente, e molti quartieri non sono ancora stati ripuliti dalle macerie, per cui bisognerà trovare per loro altre soluzioni abitative. Sarà nostro impegno facilitare il più possibile il loro rientro in patria”. Affidandoci alla loro esperienza, il nostro aiuto giunge sempre a certa destinazione.
Mi ha colpita la testimonianza di un giornalista che conosce bene il territorio, sul ritorno della gentilezza tra gli uomini. Egli dichiara “a un posto di blocco un soldato con la barba ci saluta, e dopo aver dato un’occhiata attraverso i vetri dichiara: “Pregherò per la vostra sicurezza”. Cose di cui si era persa memoria, in luoghi dove il sospetto e la sopraffazione, erano diventate la norma per poter sopravvivere.
Ho conosciuto personalmente la pesante atmosfera degli anni di dittatura in Siria, ho sperimentato la paura che fa l’arrogante incolto con un mitragliatore in mano, come tutti ho dovuto adattarmi alla corruzione dilagante che sempre si accoppia con i regimi repressivi. Mi rammarico di non poter vedere la nuova luce negli occhi di un popolo che amo, di non poter condividere le loro tavole imbandite con la gioiosa generosità che li caratterizza, di non poter respirare i profumi del suk e dei gelsomini di Damasco, cullata dal richiamo dei muezzin. Ma non perdo la speranza di poterlo fare ancora, un giorno.
C’è sempre un punto da cui ricominciare, anche in un mondo caotico come il nostro, in cui dittature e autocrazie pare conquistino ogni giorno più terreno. Da questo paese del martoriato Medio Oriente, culla di civiltà antiche e tesori millenari, giunge un faticoso esempio.
Una strada tutta in salita, ma non impossibile, in cui c’è bisogno di credere.
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