(la lettera di D’Azeglio a Carlo Matteucci del 2 agosto 1861 è pubblicata in “Il Risorgimento italiano”, Denis Mack Smith, Universale Laterza, 1973, vol.II, p.663)

Il 2 agosto del 1861, mentre nel teramano infuriava la guerra contro il brigantaggio, Massimo D’Azeglio, il più anziano statista italiano, scrisse al senatore Carlo Matteucci per esprimere le sue preoccupazioni riguardo alla gestione della situazione nel Mezzogiorno e agli errori commessi nel perseguire una annessione del Sud senza il necessario consenso della popolazione. Il D’Azeglio sembra mostrare nella lettera una sostanziale presa di distanza dal cosiddetto “suffragio universale” o, almeno, rispetto alle caratteristiche da questo assunte con la prima legge elettorale del nuovo Regno d’Italia: una legge rigorosamente classista, che prevedeva il voto solo per gli alfabetizzati con capacità censuarie e con più di 25 anni, voto riservato esclusivamente agli uomini, perché, come è noto, il voto alle donne in Italia è stato introdotto solo nel 1946.

“Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari… Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi”.

Il suffragio universale in sostanza non giustifica affatto la fondatezza della scelta unitaria; ciò che conta realmente per D’Azeglio è il fatto che “per contenere il Regno” sono necessari sessanta battaglioni, e sembra che non bastino; “ed è notorio che, briganti e non briganti, niuno vuol saperne”. Perciò invocare l’esito del suffragio e il sentire unitario da esso manifestato non vale a legittimare l’annessione: alla prima chiamata alle urne l’Italia contava 22 milioni di abitanti e avevano votato solo 239.583 elettori su un corpo elettorale di 418.696 aventi diritto, probabilmente a causa dell’ordine impartito dalla Santa Sede all’elettorato cattolico di “né eletti né elettori”. Dal voto erano esclusi gli analfabeti, che erano, soprattutto al Sud, la grande maggioranza della popolazione. Il risultato fu quello di un diritto di voto attribuito a meno del 2% della popolazione. Ma questa percentuale, che esprimeva il dato medio nazionale, nella provincia di Teramo era pari a meno dell’1%, perché in essa risultava analfabeta il 97% della popolazione (secondo le risultanze del primo censimento del 1861). Quindi vi era da un lato una esigua oligarchia di possidenti e cittadini con capacità censuarie e dall’altro una grandissima maggioranza della popolazione estranea alla procedura elettorale perché ne era esclusa in quanto analfabeta.

Nella lettera di D’Azeglio al senatore Matteucci si fa riferimento al fiume Tronto come linea di demarcazione tra un’area pacificata settentrionale e un’area meridionale in cui dilagava la guerriglia (da Teramo in giù): “…   so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari”. La descrizione di D’Azeglio rifletteva con esattezza la situazione reale, dal momento che già dal febbraio 1861 la banda Piccioni aveva cessato ogni operatività nell’ascolano, mentre nel teramano la guerriglia continuò sostanzialmente fino al maggio 1863, quando fu sconfitta la banda Stramenga e, poco dopo, catturato a Roma il suo capo. Il Tronto rappresentava il confine di stato settentrionale dell’ex Regno delle Due Sicilie e affermare che al di là del fiume sono necessari 60 battaglioni significava dire che la popolazione dell’ex regno borbonico non accettava il nuovo stato di cose sancito dal plebiscito del 21 ottobre 1860 (il cui risultato risultò scarsamente attendibile per le manipolazioni e la mancanza di trasparenza denunciate anche ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa).

D’Azeglio conclude la lettera con queste affermazioni: “Bisogna sapere dai napoletani un’altra volta per tutto, se ci vogliono, sì o no. Capisco che gl’italiani hanno diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che restando italiani non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate, …”.

Quanto alla prima affermazione (la richiesta di una nuova espressione di consenso all’unione del Sud all’Italia) occorre dire che non era pensabile una nuova manifestazione della volontà popolare, evidentemente più larga, partecipata e consapevole, per i limiti connaturati e di fondo del Risorgimento italiano: il fatto cioè che esso consisteva in un moto e un processo sostanzialmente elitari, che mirava, più o meno lucidamente, ad un avvicendamento di gruppi dirigenti al potere, senza stravolgere in profondità i rapporti sociali in essere, realizzando una rivoluzione senza rivoluzione, cioè – come ebbe a dire Gramsci – una rivoluzione passiva.

La seconda affermazione invece evidenzia la differenza sostanziale tra la guerra per l’indipendenza dallo straniero e contro coloro “che volessero mantenere i tedeschi in Italia” e la guerra contro “gli italiani che restando italiani non volessero unirsi a noi”. Mentre la prima guerra risulta per D’Azeglio indiscutibilmente legittima, la seconda guerra non è accettabile e “non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate, salvo che si concedesse che, per tagliar corto, noi adottiamo il principio in cui nome Bomba bombardava Palermo, Messina, ecc.”.  L’unione del Sud all’Italia si è configurata come una annessione ottenuta con l’uso della forza militare, realizzando una costruzione statale centralistica e tendenzialmente autoritaria. Se, per D’Azeglio, non ha alcuna giustificazione una guerra di annessione nei confronti di italiani, non resta altra possibilità che l’ipotesi federalista, già caldeggiata da numerosi padri nobili del Risorgimento. Ma l’autore dell’Ettore Fieramosca si ferma sulla soglia di questa possibilità e probabilmente la considera già bruciata dal corso degli eventi.

LETTERA DI MASSIMO D’AZELIO

” 2 Agosto 1861. Carissimo amico. Ho ricevuto e letto con molto interesse la vostra lettera, e vi ringrazio delle belle cose che voi mi dite e delle quali, Demine, non sum dignus. La quistione di tenere o non tenere Napoli deve, a quanto mi sembra, dipendere soprattutto dai Napoletani; a meno che non vogliamo, secondo il nostro comodo, cambiare i principii che noi fin qui abbiamo proclamato. Noi siamo andati avanti dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi, e con queste massime, che io credo e crederò sempre vere, noi abbiamo mandato a farsi benedire parecchi principi italiani. I loro sudditi, non avendo protestato in alcuna maniera, si son mostrati contenti della nostra opera, e si poté vedere: che, se essi non davano il loro consenso ai governi procedenti, lo davano a quello che succedeva. Così i nostri atti furono d’accordo coi nostri principii, e nessuno può averci a ridire. A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per istabilire un Governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti e non briganti, niuno vuole saperne.
Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio; ma so che al di qua dei Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore; e bisogna cangiare atti o principii. Bisogna sapere dai Napoletani, un’altra volta per tutte, se ci vogliono si o no. Capisco che gl’Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia; ma agli Italiani, che restando Italiani non volessero unirsi a noi, credo che noi non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate; salvo che si concedesse che, per tagliar corto, noi adottiamo il principio in cui nome Bomba bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo; ma siccome io non intendo di rinunciare al diritto di ragionare, così dico ciò ch’io penso ed io resto a Cannero. A queste parole si potrebbero fare grandi commenti; ma intelligenti pauca, e poi a che scopo? Gradite ecc. Massimo d’Azeglio. ».

Gli italianissimi coprirono di fango e di maledizioni, l’Azeglio che in confidenza si era lasciata sfuggire qualche verità, benché la temperasse con contumelie ai Principi, assassinati dal Piemonte nell’opera di rifare l’Italia. Egli si dolse che si fosse abusato della sua confidenza, e si risentì degli sdegni liberaleschi e conchiuse una sua seconda lettera al Matteucci, sotto il di 16 Agosto (Armonia n.105 del 21 agosto), con queste parole. “Finché in Italia le quistioni pubbliche non si potranno trattare sotto tutte le forme, sarà la libertà pei giornali frementi (cioè per quelli che avevano inferocito contro l’Azeglio) ma per la nazione, no. Sarà come in America: o far la corte alla piazza o legge Lynch…” La rivoluzione, se ne ricordi l’Azeglio, divora i suoi figli. ‘

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