A volte Clara sceglie in modo preponderante pochi velocissimi tratti neri, a disegno, su una base più spesso colorata ad acquarello – colorata mossa, sfumata o composta o contrapposta – con cui già definisce in modo irrevocabile un’espressione intima, un’individualità precisissima, una personalità, ma spesso di colpo, come una macchia di colore che si stacca dal resto, un particolare è messo in rilievo, a volte a completare, a volte a contraddire quanto già mostrato. Una vera e propria epifania. Oppure qualcosa è svisto, come cancellato, o meglio: non veduto e/o non mostrato, facendo così perforare all’occhio lettore la superficie bidimensionale per andare più in là, più dentro. A volte, invece, sono soprattutto i colori a fare l’emozione, la storia interiore, dove i segni sono solo il bastone che tasta al cieco il mondo. Comunque, quale che sia la tecnica, quei ritratti a me danno la percezione subitanea di una persona viva; non solo, ma di captarne alcuni segni singolarissimi della vita, come tratti della sua vicenda emergenti a fiato e sangue, anche se per tessere musive isolate che non vogliono porgere un quadro logicamente definito. Il particolare che de-forma – o meglio: in-forma – il completo.  Ci si rende conto di un’immediatezza, in effetti, che deve essere stata una forma vera e propria di necessità per Clara, come davanti a una visione del sogno o dell’oltre, che può svanire da un momento all’altro, che ci si deve affrettare a fermare perché potrebbe dissolversi senza traccia. Giuliano Della Casa, artista di Modena di rilevanza internazionale, dopo essersi immerso nell’epifania di segni e colori della mostra postuma del 2019, dice che i ritratti attuano un insieme che avvolge e cattura, in un rimando degli sguardi, tale che qualcosa c’è in ogni singolo ritratto che ritorna negli altri e li accomuna tutti. Dicono di lei i figli e coloro che l’hanno conosciuta al lavoro: ritraeva tutti, all’impronta, amici, parenti, passanti, negozianti, viaggiatori incrociati in treno, ragazzi, vecchi, bambini. Soprattutto donne. Ma anche insetti. E Cristo in sofferenza. Ovunque andasse si portava sempre dietro una borsa con alcuni ritratti, non si sa mai chi potesse incontrare da farglieli vedere; ma soprattutto si portava le basi dei ritratti, nonché pennelli, matite, gessetti, perché se incontrava qualcosa – chiunque, qualunque cosa fosse, dovunque si trovasse – che la ispirava, lei non esitava a mettersi a ritrarlo, sull’istante. Le basi, lei le preparava tutte diverse, con tenui stesure ad acquarello, le faceva asciugare, le metteva in una cartellina e se le portava dietro ovunque andasse in giro, così che quando incontrava il soggetto che la interessava, cercava la base secondo lei più idonea e si metteva a lavorare con quello che aveva sottomano, anche solo penne o matite. Mai ha usato l’olio. A volte faceva le basi su carta non proprio la più buona, sia per la necessità di averne sempre comunque a disposizione, sia perché veniva da un tempo che detestava lo spreco e non amava ‘spendere’ troppo per la sua passione. A lei bastavano i segni e i colori.  La necessità era un’altra. “Sto viaggiando in treno e all’improvviso – dice Clara – la persona che è seduta davanti a me mi comunica un’idea. Lo ha fatto inavvertitamente, magari con una smorfia della bocca o con uno sguardo particolare. E allora non resisto e le chiedo di posare per me, anche se non la conosco, anche se non l’ho mai vista.”  Dietro a questa sua parola, ‘idea’, io credo non ci fosse un ragionamento vero e proprio, una qualche forma di astrazione, quanto, piuttosto, un entrare di colpo in sin-tonia con l’altro, una capacità di sum-pàtheia che si esprimeva nell’abbraccio della mano alla forma che plasmava.

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