
Per una serie di fortunate coincidenze e grazie a preziose relazioni femminili, sabato 15 novembre il gruppo “Cittadine e cittadini per la Palestina, di cui faccio parte, sorto in alcuni piccoli paesi dell’Alto Polesine, ha potuto presentato il libro di Nasser Abu Srour Il racconto di un muro con la presenza della traduttrice, Elisabetta Bartuli.
È stato davvero un privilegio ascoltare Elisabetta Bartuli, che è fra le più prestigiose studiose di letteratura araba contemporanea e si occupa di traduzioni dall’arabo all’italiano e di dialogo transculturale, materie che ha insegnato e che insegna dagli inizi degli anni 2000. Fra le sue numerosissime traduzioni ricordo le ultime: Una trilogia palestinese di Mamhoud Darwisch (Feltrinelli 2017), il romanzo Ad Alessandria gli alberi camminano (Feltrinelli 2025) dell’egiziano ‘Ala Al Aswani e il romanzo dell’egiziana Iman Mersal Sulle tracce di Eynat (Crocetti 2025). “Letteratura araba questa sconosciuta in Italia” potremmo dire, forse per un deprecabile pregiudizio verso l’Islam che affligge il nostro paese e non solo. La tragedia che sta attraversando la Palestina pare avere aperto una porta e sugli scaffali delle librerie appaiono timidamente testi di narrativa di autori palestinesi, da Ghassan Kanafani con Ritorno a Gaza, a Susan Abulhawa col bellissimo romanzo Ogni mattina a Jenin o ancora Un dettaglio minore di Adania Shibli, testo che ha fatto scalpore per la mancata consegna del premio assegnato alla autrice alla fiera del libro di Francoforte nell’ottobre 2023, come ritorsione dopo i fatti del 7 ottobre.
Il libro Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour, è l’autobiografia di un prigioniero palestinese condannato all’ergastolo nel 1993, accusato della uccisione di un ufficiale dell’esercito israeliano: per me una lettura intensa, in cui l’autore, con una prosa di rara bellezza, ripercorre tre decenni di prigione puntellandoli con la vita fuori, con i grandi sconvolgimenti attraversati dalla Palestina che è centro e margine.
Quando il gruppo ha deciso di presentare il libro, grazie alla preziosa disponibilità di Elisabetta Bartuli, non c’era ancora all’orizzonte la cosle lorotregua a Gaza, né lo scambio fra ostaggi e prigionieri: oggi sappiamo che Nasser, dopo 32 anni, è libero, anche se esiliato, e la vicenda dei prigionieri palestinesi nelle carceri di Israele è balzata in primo piano, con tutti i suoi orrori, attraverso le loro testimonianze , attraverso i loro stessi corpi violati dalle torture e dalle condizioni disumane cui sono sottoposti: corpi legati per giorni, sospesi, colpiti, ferite lasciate marcire, umiliazioni come metodo, silenzio come arma. Una persecuzione sistemica, pianificata da Israele, calibrata per spezzare identità e memoria. Fra le righe ce lo racconta anche il nostro autore, costretto a confessare il suo crimine sotto tortura.
Elisabetta Bartuli ci guida a ripercorrere questo libro in cui gli eventi della vita di Nasser sono narrati in ordine cronologico: il racconto, ci dice l ‘autore, non è suo, è il muro che parla, quel muro che lo separa dal mondo esterno e che separa il mondo da lui, che lo accompagna di prigione in prigione negli innumerevoli trasferimenti. Il muro cui si aggrappa è la salvezza della sua interiorità:
la mia relazione amorosa con il muro è iniziata presto e durante gli anni di una detenzione che girava a vuoto quasi temesse di evaporare se solo si fermava un attimo, ha continuato ad essere la mia unica, solida costante; del mio muro ho fatto il punto di riferimento concreto e stabile che mi permette di definire la posizione, la velocità e la distanza di ogni presenza che mi sta intorno, eppure no, non sono diventato il centro di questo universo, anzi ho trovato il mio posto al suo interno; ed è quando ci si installa nella stabilità che si acquisisce la capacità di percepire quanto ci circonda, la posizione delle stelle, la quantità di granelli di zucchero nel primo caffè del mattino, il numero di raggi di sole che si insinuano da una finestra affacciata sul niente, la diafanità del vestito di una donna che viene a tenerci compagnia al calar di ogni notte
Nasser nasce in un campo profughi vicino a Betlemme, campo Aida, che lui chiama “la città della pace”, dove però la pace è sempre stata assente. Si iscrive all’università con progetti di stabilità per la sua vita, ma è travolto dalla prima intifada, l’intifada delle pietre, dove riversa tutto il desiderio di liberazione dalla occupazione con l’entusiasmo della giovinezza: “Eravamo dei che versavano sangue e morivano”, ma anche con la consapevolezza che la lotta non era confinata solo alla loro causa:
Per liberarci del nostro provincialismo è bastato che credessimo nell’universalità dell’ingiustizia e nella globalizzazione di tirannia, povertà e sopruso. Non avevamo neanche vent’anni, eppure ci premevano cause che sarebbero entrate nel terzo millennio e abbiamo lottato contro ogni velleità di asservire gli esseri umani.
Nel 1993 resta implicato nella uccisione di un ufficiale israeliano; catturato, imprigionato, confessa sotto tortura:
Nel centro interrogatori ristrutturi la tua relazione con Dio e con tutto ciò in cui credi, anche se, forse, il dolore può spingerti ad invocarli per un’ultima volta prima che si dissolvano per sempre.
Condannato all’ergastolo scrive sul muro della sua prima cella “mondo addio”.
Comincia il suo calvario da una prigione all’altra, ogni volta con la speranza che lo svolgersi degli eventi, dagli accordi di Oslo alla seconda intifada, possano aprire spazi di scambio di prigionieri, ma il suo nome non sarà mai negli elenchi fino all’ottobre del 2025. Ogni volta una delusione che però non può manifestare per non offuscare la gioia di chi esce. Intanto legge non solo letteratura e saggi arabi, ma anche Kierkegard, Nietsche, Feuerbach, si iscrive all’università e si laurea.
Il libro scorre in questo periodo della sua vita fra scritti sul dolore, sulla perdita di Dio e un ritorno alle radici attraverso la poesia preislamica:
Mi hanno sempre stupito anche i sentimenti profondi e la raffinata sensibilità che si esprimono in quei versi a dispetto della asprezza della vita nomade e di una certa indole tribale secondo la quale per vendicare una bestia uccisa si dovrebbe far scorrere il sangue di mille uomini e, potendo, anche di più… Come avrà mai fatto il deserto a fornire a un rude beduino tanta squisitezza di sensazioni, il senso della trasparenza dell’acqua e della delicata arrendevolezza di un filo d’erba?
Nella prigione di Hadarim, dove viene trasferito, c’è una sezione femminile e sente le urla delle donne che reagiscono alle angherie dei soldati. L’occupazione distribuiva prevaricazione e oppressione senza distinzione di genere e Nasser riconosce alle donne il coraggio di una doppia resistenza:
…avevano rivendicato il diritto di resistere partecipando alla lotta e alla ribellione, anche se ciò significava scontrarsi con una società maschilista e conservatrice che le teneva sotto chiave come farebbe chi si chiude dentro casa per nascondere la propria nudità e le proprie debolezze.
Tutto il racconto di Abu Srour, fa notare Bartuli, smantella i pregiudizi diffusi verso i palestinesi, che, poiché islamici, vengono presentati come persone di scarsa preparazione intellettuale, violenti per natura, difensori della cultura patriarcale.
Nell’inverno del 2013 c’è un altro scambio di prigionieri, ma nell’elenco manca il suo nome.
Una condanna all’ergastolo può essere un masso pesante che ti toglie la possibilità di risorgere a nuova vita, può essere una montagna che rifiuta di inchinarsi davanti alla tua fatica, può essere qualsiasi cosa perché le cose sono quelle che vogliamo che siano.
Nella primavera del 2014 Nasser incontra Nanna, una avvocata per i diritti dei prigionieri che visita le carceri per verificare le condizioni di prigionia. Nasce un amore fra i due, un amore che però non può sporgersi oltre il vetro che separa i colloqui. La seconda parte del libro è il carteggio amoroso fra Nasser e Nanna, dove le lacrime di lei sono accompagnate dalla rassegnazione di lui per i limiti della prigionia. L’amore dura una stagione in cui Nasser abbandona il suo muro per ritornarvi, per tornare alla sua tomba:
Sono nato due volte e sono stato ucciso altrettante… Sono nato prima dal grembo di Mazyuna e poi dal grembo di Nanna. L’ingiustizia ha ucciso il primo bambino, la paura il secondo… In questa mia prigione, io sono il signore di questo muro, dei muri che lo hanno preceduto, di quelli che lo seguiranno. Io sono il signore di questi balconi e di ciò su cui affacciano, nessuno entra nel mio giardino, nessuno coglie un seno delle mie donne. Io sono tutte le mie sere e l’inizio della notte, sono la sete del mattino quando il sole è in ritardo, sono il giorno che mi si incolla addosso. È mia l’ora d’aria, mio il sole di un’ora, mie tutte le ore. Io sono il padrone di quest’angolo, il padrone di questa cella, il padrone del mio ergastolo, il padrone di questo soffitto, il padrone dell’attesa, questa conca è mia.
Sono le ultime parole del suo scritto: il muro è il punto di partenza e il punto di arrivo, l’unico appiglio per sopravvivere per chi“non ha niente prima né dopo”.
Parole che liberano il corpo dalle proprie catene per testimoniare la resistenza di un figlio della Palestina e della Palestina tutta, terra rubata ad un intero popolo.
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