
10.12.917. Milano
Mia carissima Rosa,
Ieri, prima giornata veramente invernale, inaugurai la magnifica vestaglia. È una vera calda carezza, ideata dall’affetto più che di amica, di vera sorella, e ve ne sono gratissima. Dacché̀ ho indossata la magica, lussuosa veste, non avverto più il freddo, e benedico la mia buona Rosa della sua tenerezza, che supera certo i miei meriti, che, senza falsa modestia, sono pochini davvero. Persino Turati, che s’intende poco di estetica e eleganza, ieri sera ammirava la vestaglia e trovava persino, che mi adornava di un colorito più vivo e di finta giovinezza. Ce la siamo goduti tutti e due: io per il caldo, lui per la vista. Grazie ancora, mia buona Rosa, e vi bacio con tenerezza insieme a Fanny. Saluti a Podreider.
Vostra aff. Anna
P.S. Cara Rosa, potreste, per mezzo della vostra amica in Isvizzera, fare le ricerche di un altro prigioniero, che mi sta molto a cuore. Si tratta di uno dei soldati che fu fra Talamona e Plezzo durante i terribili giorni, dal 24 Ottobre in poi, dell’invasione austriaca. Ecco le generalità:
Vidali Francesco fu Carlo, soldato del 221° regg, Fanteria
5° compagnia.
Per la spedizione del pane ai prigionieri non si è potuto ancora ottenere niente. Domani Turati, arrivato a Roma, ne farà altre pratiche presso tutti i ministri responsabili. Speriamo che ottenga qualche cosa.
Ancora un bacio e arrivederci presto, una di queste sere.
Vostra aff. Anna
La lettera è di Anna Kuliscioff a Rosa Genoni e può essere utile per introdurre la figura di una femminista consapevole della situazione politica del suo tempo, libera nelle scelte, creatrice di moda, anzi del ‘Made in Italy’. Anna ringrazia l’amica per la preziosa vestaglia e poi elenca il da fare per i soldati prigionieri. Entrambe contro la guerra e pacifiste.
Nata a Tirano, in Valtellina, il 16 giugno 1867, padre calzolaio e madre sarta, primogenita di diciannove fratelli (dodici in vita), Rosa Genoni riuscì a frequentare la scuola solo fino alla terza elementare, imparando a leggere e a scrivere.
A dieci anni fu mandata a Milano, presso una zia a lavorare come piscinina[1] in un laboratorio di sartoria. Molte le ore di lavoro, a pulire, a consegnare abiti e ritirare stoffe.
Seta, cotone e lana erano i materiali che costituivano i pregiati tessuti prodotti in Italia ed esportati da un’industria che occupava soprattutto manodopera femminile.
Alla fine dell’‘800 si contavano in Italia un milione e mezzo di donne occupate in questo settore a fronte di 125.000 uomini. Nel commercio della moda a Milano tra il 1881 e il 1910 circa l’85% era costituito da forza lavoro femminile, che riguardava anche la produzione della biancheria, lo stiro e il ricamo.
Rosa Genoni, da piscinina, grazie anche a quello che aveva imparato in casa dalla madre, riuscì, crescendo, ad assumere il ruolo di maestra sarta e infine di première, cioè di direttrice del laboratorio di sartoria.
La Milano in cui visse era una città operosa, in pieno fermento in ogni campo, compreso quello tessile. Fu la sede del primo grande magazzino, Aux Villes d’Italie, che aprì nel 1879 e che divenne poi ‘La Rinascente’.
In quegli anni Rosa cominciò a frequentare la scuola serale per ottenere la licenza elementare e, parallelamente, giovanissima, i circoli operai, quelli in cui incontrò Anna Kuliscioff, nota a Milano, come ‘la dottora dei poveri’, con la quale strinse un’amicizia che durò tutta la vita.
Divenne maestra nell’atélier Dall’Oro e si iscrisse a un corso di lingua francese organizzato nelle scuole comunali. Il francese era allora la lingua internazionale della cultura e anche della moda.
Lo scambio con Kuliscioff la porta a guardare con un’attenzione speciale il mondo delle lavoratrici e a comprendere come sia importante ascoltare le donne e vederne desideri, bisogni, aspettative, valutarne i diritti e il diverso modo di stare nel mondo. Frequenta attivamente il Partito Operario[2] che le offre l’occasione di andare a Parigi per partecipare a un congresso internazionale sulla condizione operaia.
L’esperienza, per Rosa adolescente, è importantissima, tanto che decide poi di restare a Parigi fino al 1888. Parigi era allora la capitale della moda e della modernità.
Tutto ciò che veniva prodotto in Italia era frutto del rimaneggiamento dei progetti francesi. Disegni, decorazioni, modelli, figurini venivano ripresi nelle sartorie da abilissime artigiane italiane e riprodotti per le clienti facoltose. Mancava in Italia una cultura della moda legata ai processi identitari della nazione ancora troppo giovane, rispetto alla Francia che invece aveva potuto elaborare idee a partire dal XVII secolo.
Rosa lavorò a Parigi, dai 17 ai 21 anni, presso note e affermate case di moda dove imparò i metodi della complessa catena produttiva e del processo creativo nella realizzazione degli abiti; imparò il disegno tecnico, la confezione e il ricamo; imparò soprattutto che il prodotto finale di una sartoria dipende da un puntuale lavoro di squadra che deve fondarsi sulla conoscenza della storia, della tradizione e dell’arte del paese in cui si attua.
Qui nasce la sua idea di una moda legata all’Italia, alla sua ricchezza d’arte, idea per la quale si rendeva necessaria una scuola con un preciso progetto didattico.
Il Made in Italy, che comincia a nominarsi come tale solo dopo la seconda guerra mondiale[3], ha radici, secondo Rosa Genoni, nelle botteghe medievali e rinascimentali della penisola.
Al rientro in Italia Rosa comincia a creare una moda italiana indipendente da Parigi e attenta alla vicenda umana delle donne, ma mentre crea, invitata dalla prestigiosa sartoria Bellotti, i sontuosi costumi per i balli al Teatro La Scala durante il Carnevale, non perde di vista le difficoltà e le fatiche delle sarte e delle addette che li confezionavano.
Accanto ad Anna Maria Mozzoni, promotrice in Italia del movimento emancipazionista e, dal 1881, della Lega Femminile, partecipa al Congresso Socialista a Zurigo nel 1993.
Nella Lega Femminile erano presenti sarte e modiste che occuparono un ruolo chiave nel collegare le lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento e del tessile con il movimento di emancipazione e la lotta per l’uguaglianza e il diritto all’istruzione. Non fu semplice perché persistevano una forte discriminazione di genere per il mestiere e ambiguità di giudizio sulla professione se eseguita da un uomo o da una donna: l’uomo era il ‘sarto’, le donne erano ‘sartine’. Inoltre il mondo della moda veniva ritenuto frivolo, legato solo alla bellezza e all’eleganza, un mondo di donne che potevano permettersi toilettes lussuose prodotte in netto contrasto con quelle delle operaie che lavoravano per loro.
È qui che Rosa afferma:
può apparire cosa frivola e leggera occuparsi di una rivendicazione nella moda. Errore madornale anche per le signore femministe. Tutto al contrario; per occupare i campi che le sono ancora contesi la donna non deve trascurare questo in cui essa, per consenso unanime, ha intera e incontestata la sovranità.
Tra il 1893 e il 1894 Rosa conobbe, nel circolo dell’anarchico Pietro Gori, l’avvocato Alfredo Podreider che divenne presto il suo compagno di vita e con il quale ebbe la figlia Fanny nel 1903. La loro era una libera unione, come quella di Anna Kuliscioff e Filippo Turati, per i contrasti con la madre di lui che non accettava che il figlio sposasse una donna di umili origini, ma anche per scelta.
Rosa lavorava come première per la prestigiosa casa Haardt et Fils, che si trovava in corso Vittorio Emanuele ma aveva filiali in altre prestigiose località come Sanremo, St. Moritz, Lucerna. La sartoria milanese contava nei vari ambiti del lavoro 200 persone e Rosa si recava periodicamente a Parigi per aggiornarsi su modelli e figurini. Cominciò a delineare il suo nuovo stile che eliminava progressivamente sottabiti, busti e crinoline e affermava quel tipo di abbigliamento che ancora oggi vediamo, e che prevede ad esempio il pratico tailleur: gonna, camicetta e giacca. Propone infatti una serie di modelli originali creati direttamente da lei e accompagna le sue creazioni con bigliettini alle clienti in cui specifica che i modelli sono proprio una sua creazione.
Dopo la nascita della figlia Fanny insegna presso la Scuola professionale femminile della Società Umanitaria, nata per motivi filantropici e rivolta alle ragazze meno abbienti. Qui elabora un vero e proprio programma di moda suddiviso in sessioni di storia, disegno e teoria, affiancato da un laboratorio di sartoria. Le creazioni della sua scuola furono accolte nell’Esposizione Universale di Milano del 1906 e meritarono il Grand Prix della giuria internazionale. Esprimevano i concetti portanti del suo approccio alla moda: il riferimento al Rinascimento e ai suoi artisti d’eccezione, Pisanello, Botticelli, Leonardo…, ma anche ad altri pittori che le ispirarono per esempio la creazione di una gonna-pantalone.
Esposizione di Milano 1906
Nel 1908 partecipa al Primo Congresso delle donne italiane a Roma dove tiene una conferenza incentrata sulla mancanza della moda italiana nel quadro di rinnovamento della vita nazionale; mette in luce la bellezza, la grande inventiva artigiana delle lavoratrici, la necessità di attingere alla storia artistica per valorizzare le arti applicate, l’urgenza della fondazione di scuole professionali femminili. Con lei c’è Carlotta Clerici, un’altra donna che viene da una condizione sociale povera, che riesce a diventare maestra e fonderà, con Linda Malnati, la prima sezione della Camera del Lavoro femminile. Malnati, Clerici, Genoni e Anna Kuliscioff sono le anime del movimento femminista socialista e, come prima loro iniziativa, creano le ‘case della maternità’ che aiutano le donne quando sono incinte e restano prive di lavoro o di protezione sociale.
Erano tantissime le madri single all’epoca (uno dei crimini sociali era infatti quello delle bambine che arrivavano a Milano per servire nelle ricche case aristocratiche e borghesi e venivano violate dai padroni che non riconoscevano i figli e le abbandonavano).
Indossa, in occasione del congresso di Roma, il suo abito Tanagra, ispirato alle statuette fittili ritrovate a Tanagra, in Beozia: accompagnato dal drappeggio il corpo poteva muoversi con maggiore libertà e l’abito adattarsi alle diverse circostanze. Rivoluzionando l’arte del vestire ai primi del Novecento, mette in crisi i dettami temporali della moda, condensa il ritmo del movimento del corpo della donna proprio nella sua essenza dinamica, incarnandone simbolicamente la liberazione.
Rosa Genoni con l’abito Tanagra
Nel 1915 Genoni partecipò come delegata italiana al Congresso internazionale delle donne per la pace organizzato all’Aia da Women’s international league for peace and freedom. Fu tra le pacifiste più convinte e come le donne che avevano animato il movimento internazionale del pacifismo, rimase fermamente convinta che la guerra non poteva essere considerata un veicolo per la rigenerazione di una società dormiente, o un mezzo per giustificare la violenza bestiale di potenti nazioni pronte a sopraffarne altre in nome del progresso e della civiltà.
Se il Primo Congresso delle donne italiane aveva contribuito a legittimare il ruolo di Genoni come creatrice di moda, ma anche i legami con le industrie femminili e la sua posizione di attivista politica e intellettuale, il Congresso dell’Aia la mise in contatto con una ben più ampia comunità: il movimento del pacifismo e del femminismo internazionale. Quel congresso, che vide la presenza di 1230 delegate da tutto il mondo, avrebbe portato alla creazione del ‘Partito della pace’ delle donne e segnò l’inizio del movimento internazionale della pace. Dal tavolo delle relatrici, comunicando in francese con i nomi grandi dell’attivismo femminile internazionale, dall’olandese Aletta Jacobs, all’ungherese Rosika Schwimmer, alle americane Jane Addams[4] ed Emily Greene Balch[5], Rosa viaggerà poi in tutta l’Europa per incontrare le più alte autorità e promuovere la cessazione della guerra.
Le donne che, nonostante la loro debole cittadinanza, si schieravano contro la guerra, non ebbero vita facile, furono accusate come sovversive antipatriottiche e vennero schedate e sorvegliate.
L’avvento del fascismo, a cui non volle giurare fedeltà, costrinse Rosa a dimettersi dall’insegnamento presso la scuola femminile dell’Umanitaria, ma non le impedì di creare un centro di sartoria, un asilo per i bambi i e un laboratorio di ginecologia per le detenute del carcere di San Vittore.
Dopo la morte di Alfredo Podraider, nel 1936, si trasferisce a vivere in Liguria e poi a Varese.
Nel 1948, a 81 anni, scrive al conte Bernadotte, mediatore inviato dalle Nazioni Unite per la questione palestinese (ucciso subito da un gruppo sionista di estrema destra), per invocare una soluzione pacifica del conflitto arabo israeliano.
Si spegne il 12 agosto 1954.
Diceva: “mi sento sorella di tutte le donne”.
[1] La ‘piscinina’ è una figura storica nel mondo del lavoro infantile femminile, a Milano, tra fine Ottocento e primo Novecento. Bambine tra i 6 e i 14 anni venivano impiegate nelle sartorie come aiutanti, per consegnare abiti alle clienti, per trasportare stoffe, tramettere messaggi. Furono esempio del lavoro minorile sfruttato e privo di diritti. Riuscirono, nel 1902, ad organizzare autonomamente uno sciopero di circa dieci giorni di cui la stampa non diede alcun conto. Se ne occupò invece l’Unione Femminile Nazionale e le ‘piscinine’ ottennero, grazie ad essa e alla loro leader, Giovannina Lombardi di tredici anni, una riduzione dell’orario di lavoro da 14 a 10 ore e l’alleggerimento dei pesi da trasportare.
[2] Il Partito Operaio fu fondato a Milano da Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi Viani.
[3] Giovan Battista Giorgini organizza a Firenze la prima sfilata di alta moda italiana nel 1951.
[4] Jane Addams, premio Nobel per la pace nel 1931
[5] Emily Greene Balch, premio Nobel per la pace nel 1946.
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