Sono tante le idee che mi hanno accompagnato nella lettura di questo libro, e vorrei partire subito dall’immagine di copertina, Eurigami, realizzata da Filippo Altissimi, il quale con la sua sfida grafica ha racchiuso la tridimensionalità del progetto nella leggerezza della carta piegata. Potrebbe essere questa la carta dei documenti istituzionali su cui scriviamo il nostro modo di stare insieme, ognuno col suo Paese d’origine riconoscibile, nell’interconnessione con gli altri.
Venendo al testo, specialistico ma non ostico, posso dire che sono riuscita ad avvicinarlo e a comprenderlo perché è ispirato alla chiarezza, con una corposa introduzione, incisiva nel tematizzare tre epoche attraverso la scrittura di donne che commentavano tre anni cruciali: Miriam Camps il 1966, Rosi Braidotti il 1992 e Zadie Smith il 2016.
Nel 1966 una delle questioni su cui riflettere era il veto posto dal generale De Gaulle all’ingresso della Gran Bretagna nelle istituzioni comunitarie; nel 1992 si era appena deciso il trattato di Maastricht; nel 2016 il referendum aveva premiato la Brexit.
Una prima suggestione mi è venuta dal nome di chi pubblica il testo: Edizioni di Storia e Letteratura. Nome che rende evidente che la Letteratura sta sullo stesso piano della Storia e non si lascia piegare a ricoprire un ruolo ancillare nella decifrazione dello scorrere del tempo.
Un’altra idea mi è venuta da una parola calda nello scritto di Curli, la parola utopia, che figura in senso positivo, ad esempio a pagina16: “Si tratta di pensieri non retorici, privi di indulgenza verso i luoghi comuni, che però non rinunciano alla dimensione utopica del progetto europeo.”
Emerge che il pensiero di Miriam Camps, di Rosi Braidotti, di Zadie Smith ci pone di fronte a un’utopia che non si mette in contrasto col realismo, come da frase fatta, ma piuttosto contrasta con la retorica, provando a lasciare indietro l’eroismo mitico della fondazione europea, intesa quale fondazione delle sue istituzioni.
Miriam Camps, la statunitense esperta economica dell’amministrazione americana fin dal tempo di guerra, seguì le istituzioni europee nel loro iniziale farsi e nel loro prosieguo. Curli vuole metterla in luce perché considera che i suoi libri siano dei classici, ancorché del tutto sconosciuti al pubblico italiano. Di lei, che cercò di vivere simultaneamente sulle due sponde dell’Atlantico, mi ha interessato la strada che si aprì come donna, anche se al di fuori di carriere formali, grazie a capacità di lavoro, autorevolezza e lucidità di analisi.
Del contributo di Camps, pieno di argomenti capaci di far orientare i lettori nel dibattito delle idee in gioco negli anni sessanta, mi ha colpito soprattutto una frase: “Forse l’unica critica che può essere mossa alla politica americana degli ultimi quindici anni è che è stato dato un po’ troppo per scontato che l’interesse americano coincidesse sempre con l’interesse europeo. Nonostante i molti punti in comune, non c’è mai stata un’assoluta identità di interessi, e anche quando gli obiettivi erano gli stessi, le nostre priorità potevano essere diverse.”
Un’intuizione che formulata da una statunitense mi sembra un segnale di grande affetto per il progetto in costruzione, e una lucida testimonianza di chi dall’interno conosce i fatti. Chissà quanti nell’amministrazione americana hanno poi preso sul serio la sua affermazione. A suo parere comunque una posizione più indipendente dell’Europa su varie questioni, e un approccio più critico nei confronti degli Stati Uniti, potevano rivelarsi utili per l’amministrazione americana.
Rosi Braidotti è una filosofa che pensa il femminile, il femminismo e il nomadismo alla luce dei fatti innescati dalla caduta del muro di Berlino e dalla firma del trattato di Maastricht del 1992 che ha dato origine al progetto politico, economico e sociale per la creazione della moneta europea; una prospettiva internazionalista che risveglia le ceneri sopite di xenofobia e razzismo: Scrive: “Che il subcontinente europeo continui a dimostrarsi tanto intollerante è per me motivo di grande angoscia.”
Per rilanciare un fenomeno così complesso come l’internazionalismo, Braidotti scrive che la sfida è coniugare gli aspetti positivi di tale prospettiva “con quella che chiamerei la responsabilità nei confronti del nostro sesso, con le tante differenze che esistono tra le donne e le distinguono. Le donne sono meglio pensate se percepite in una determinata dimensione locale, dunque in virtù di appartenenze diverse e multiple.”
Appena ho letto queste righe mi è tornato in mente uno scritto di Clara Sereni che accettò a Perugia la carica di vicesindaca nel 1995. Nel 1998 pubblicò un libro, Taccuino di un’ultimista, diario pubblico e privato che ha come tema quell’esperienza politica. Il taccuino parla di come si è confrontata col potere e nell’introduzione Sereni dichiara di sentirsi composta da quattro spicchi, con continui sconfinamenti l’uno nell’altro: “ebrea per scelta più che per destino, donna non solo per l’anagrafe, esperta di handicap e debolezze come chiunque ne faccia l’esperienza, utopista come chi, radicandosi in quanto esiste qui e oggi, senza esimersi dall’intervenire sulla realtà quotidiana, coltiva il bisogno di darsi un respiro e una passione agganciati al domani.” Un’utopia concreta, dunque, di crescita civile, integrazione e solidarietà, coerente con le linee di tendenza che Braidotti auspicava in quegli stessi anni per le istituzioni europee.
E con Braidotti condivido un altro concetto ben precisato, che lei pone sotto forma di domande, sul fatto che l’internazionalismo sostenuto dalla Comunità europea possa ignorare gli stranieri per così dire locali nelle metropoli postindustriali europee. Cito un passaggio di Braidotti: “Qui le donne spesso svolgono il ruolo di fedeli custodi della cultura d’origine. Esse rappresentano valori culturali così diversi da quelli dominanti che tendono a essere sommariamente relegate nell’area problematica del multiculturalismo o delle minoranze etniche. Fino a che punto le femministe europee sono consapevoli della realtà dell’immigrazione nei nostri paesi? Non è che magari alcune femministe condividono con la cultura dominante una certa resistenza all’idea che l’internazionalismo comincia in casa? Fino a che punto le femministe dei paesi di destinazione capiscono queste donne, i cui diritti di cittadinanza sono tanto inferiori ai nostri e il cui potenziale intellettuale è così spesso ignorato?” Interrogativi che hanno ancora oggi bisogno di risposte e di politiche volte alla creazione di possibili incontri, di reti.
Nel leggere invece il testo del 2016 di Zadie Smith, sono stata molto colpita dallo sgomento da lei provato al momento del suo ritorno a Londra. Londinese di origini giamaicane, un giorno attraversa il suo vecchio quartiere, passa davanti alla scuola elementare e nota un recinto. Alla consueta cancellata in ferro battuto avevano aggiunto fra una sbarra e l’altra qualcosa come del bambù con due metri di piante rampicanti che impedivano la vista del cortile e dei bambini che ci giocavano dentro.
Smith scrive: “In particolare davo a questa scuola un valore simbolico, quello di un istituto variegato in cui i figli dei benestanti e dei poveri, i figli dei musulmani, degli ebrei, degli indù, dei sikh, dei protestanti, dei cattolici, degli atei, dei marxisti e di chi fa del pilates una religione ricevono un’istruzione tutti insieme nelle stesse aule, giocano insieme nello stesso cortile […]. Oggi la scuola ebraica sembra Fort Knox. La scuola musulmana è ben avviata nella stessa direzione. Anche la nostra piccola scuola di quartiere era destinata a diventare un luogo recintato, isolato, privato, paranoico, preso dalle ansie securitarie, che voltava le spalle al resto della comunità? Due giorni dopo in Gran Bretagna si è votato per la Brexit.”
Questo sentimento Pasolini, parlando di altro, lo ha individuato con grande precisione in uno scritto raccolto nelle Lettere luterane. Siamo nel 1975 e Pasolini scrive: “I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Il mio sentimento è di condanna. Ma poiché forse condanna è una parola sbagliata, dovrò precisarla: più che una condanna infatti il mio sentimento è una cessazione d’amore: cessazione di amore che appunto non dà luogo a odio, ma a condanna.”
Ora, la cessazione dell’amore per la nostra comunità e le nostre istituzioni è la questione che mi pare Curli ponga con questo suo scritto. Lo fa sulla scia di altre donne che hanno aperto la strada, come quelle che figurano nel libro, ma anche sulla scorta della storica Luisa Passerini, alla quale l’autrice dedica una bella pagina; evidenzia come Passerini indicasse la via di una rigenerazione emozionale e simbolica, riconnettendosi al Sessantotto. A quei movimenti Passerini faceva risalire l’avvio di nuove forme di appartenenza europea, di natura postimperiale e antiautoritaria. Quelle storie d’amore e d’Europa aiutano a capire che oggi ci manca un’Europa dell’immaginazione.
A tale proposito vorrei esprimere un’intuizione nata dalle tante informazioni che ho ricavato da questo libro.
Nel 1984, durante la seconda legislatura del Parlamento europeo, fu creata la Commissione per i diritti della donna, che fu una cassa di risonanza delle istanze e delle organizzazioni femminili. Da lì in poi sorgeranno, grazie alla promozione della Commissione europea, reti di women’s studies nelle università, con un impatto nella sfera pubblica che crescerà e si svilupperà soprattutto grazie al finanziamento della Commissione.
Perciò forse potremmo dare uno spazio all’immaginazione favorendo studi e ricerche finanziati dalle istituzioni europee, che facciano da cassa di risonanza ai pensieri diversi di europei come Bertrand Russell, Aldo Capitini, Alexander Langer, Marianella Sclavi e di chissà quanti altri come loro. Può darsi che studiando e divulgando come è nata l’obiezione di coscienza, oppure approfondendo l’educazione nonviolenta e la gestione creativa dei conflitti, o ragionando su come immaginare e attivare corpi civili di pace nel nostro continente, si riescano a risvegliare caldi sentimenti di appartenenza alle istituzioni europee. Temi apparentemente fuori fuoco come fuori fuoco erano nel 1984 i pensieri delle donne nella sfera pubblica. Credo che sarebbe un bel terreno di sfida per l’Europa dell’immaginazione simbolica quello di studiare e far conoscere utopie diventate concrete, oppure forse bloccate a un passo dal diventarlo.
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