Claudia Manselli tiene dagli anni ’90, per conto del Comune di Torino, corsi di scrittura gratuiti al Centrodonna della VI circoscrizione di quella città .
Quando mi ha dato la notizia della pubblicazione di un libro scritto dalle donne di parola (quelle che insieme a lei frequentano il corso), chiedendomi di presentarlo in marzo al Circolo dei lettori, sono stata contentissima di essere al suo fianco.
Il libro nasce da un’idea che Claudia ebbe durante la pandemia: quella di mandare una mail programmatica alle sue corsiste, nella quale fissava una gabbia entro cui la scrittura dovesse rimanere.
Nella mail si chiedeva ad ognuna di adottare un anno preciso a loro scelta, di scrivere un racconto/memoria di quell’anno e di restare all’interno di un numero chiuso di battute. Così cinquantanove storie disposte in ordine cronologico dal 1908 al 2021 permettono a noi lettori di veder passare l’Italia ai nostri piedi, che gioca a carte con il suo destino –mi riecheggia De Gregori in Renoir–, sia il destino generale del Paese, sia quello singolare delle autrici. Le risonanze e la musica di un cantautore ispirato mi hanno guidato nella lettura dei ricordi liberati, usciti dalla gabbia.
Così ho visto scorrere davanti al mio finestrino tanta campagna, soprattutto all’inizio del Novecento e per tutti gli anni ’20: cascine in cui si allevano bachi da seta, e le uova dei bigatti si chiudono in una bustina di seta, poi si tengono in seno per farle schiudere; una cavalla requisita dai soldati torna a casa dopo Caporetto; migranti nell’anda e rianda fra le sponde dell’Atlantico cantano in portoghese canzoni di filanda; signorine ritornate da lontano dedicano un’esistenza solitaria, dimessa, impenetrabile all’insegnamento, come una vocazione. E c’è pure chi cattura anguille di frodo a Comacchio, con i fiocinini, parola che mi ha subito colpito e mi ha fatto simpatia per lo strumento in sé e sinceramente anche per l’attività di frodo, che sconfiggeva la troppa fame. Poi monta il fascismo, con le sue purghe di olio di ricino ad esempio a L’Aquila, e fa desiderare ai dissidenti di fuggire a Rodi, per sperare ancora in qualcosa.
Tutto scorre come in una carrellata dinamica e posata al tempo stesso. Non c’è frenesia nel libro: gioie, dolori, eventi si distendono, fanno rete e reti senza voler vincere. Piuttosto unire, per condividere. Ogni donna di parola ha messo la propria serietà nell’individuare un anno della propria vita per raccontarlo in primo luogo alle altre. Ad alta voce, anche durante la pandemia, che non le ha fermate.
La campagna si rarefà davanti al finestrino del viaggio. Il sud si trasferisce in massa al Nord e la città s’affaccia con il suo spaesamento.
Ci sono molti temi, in questi racconti che alla nascita non pensavano di essere pubblicati. Tanti temi: dai profughi istriani -e vado a ruota libera, senza cronologia- alle contestazioni sessantottine, dalle lauree tenute nascoste dalle figlie ai padri perché ci si vergogna di loro, alle tragedie di Superga e del cinema Statuto di Torino, oppure quella delle morti a Casale, di chi ha respirato per anni l’amianto.
C’è Torino con le sue residenze studentesche o le case di ringhiera che si trasformano, mentre i rapporti sociali si fanno vicini, ma lontani con i parenti; ci sono i migranti divisi fra due Paesi, Italia e Romania, e la polenta vista come oro sulla loro tavola.
La sensibilitĂ di ogni lettrice, di ogni lettore, troverĂ il suo sapore preferito.
Io che di solito amo il cambiamento dei costumi e la conquista dei diritti politici, ricordo il racconto di una interruzione volontaria di gravidanza che non si sarebbe potuta fare in una piccola struttura perchĂ© vigeva un grande controllo sociale da parte di medici cattolici. E che poi invece si riesce a fare, senza andare nel grande ospedale del capoluogo, perchĂ© le leggi repubblicane arrivano anche nelle sedi senza riflettori, nel 1978. E mi verrebbe da commentare: chissĂ cosa avverrebbe oggi, con tutti questi ginecologi obiettori alla legge 194 in giro per l’Italia…
Questa fine legittima mi fa ricordare pure un lieto fine di tutt’altro segno, proprio opposto, in un racconto che cito con piacere: l’atmosfera è quella di una famiglia in attesa di un abito della prima comunione: tutti lì ad aspettare il vestito fatto apposta per la grande festa, ma quando arriva è della taglia sbagliata per il bambino… e allora giĂą con preghiere e padrenostro, e raccomandazioni al sarto, e qualche minaccia. E poi la suspence si stempera nel consacrato lieto fine.
Ecco, dagli esempi fatti, non credo che le donne di parola siano delle rivoluzionarie. Sono certamente sveglie, acute, ma non sono sovvertitrici consapevoli di un mondo.
C’è chi va in collegio a Santa Maria degli Angeli, sotto Assisi; chi per guadagnare un po’ fa la sorvegliante di bambini in colonia; chi va in pellegrinaggio in agosto verso un santuario dedicato alla Madonna; e poi sì, ci sono anche racconti che parlano di terrorismo, e fanno intravedere la lotta armata, i delitti e le stragi impunite, o di mafia.
Ma raccontano soprattutto di destini che si incrociano imprevedibilmente, perché l’epoca era quella: gli incontri avvengono magari all’università o al corso di stenografia, o con matrimoni fra nord e sud. E chi voleva chiudere col mondo dei padri e con l’autoritarismo che aveva prodotto due guerre mondiali in poco più di vent’anni, esce insieme a ragazze o a coppie incontrate dovunque. Erano tempi così, pure scanzonati, dove incrociavi persone differenti da te. Anche con i loro drammi.
Crescere era questo, dietro la forza dei tempi, e delle cittĂ che vivono. Mi tornano in mente dei versi molto calzanti, che vanno a pennello per Le storie siamo noi: sono di Elio Pagliarani, che parlando di Milano, in La ragazza Carla, una stenodattilografa appunto, scrive nel 1962:
“Sono momenti belli: c’è silenzio
e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli
quella gente che marcia al suo lavoro
diritta interessata necessaria
che ha tanto fiato caldo nella bocca
quando dice buongiorno
è questa che decide
e son dei loro
non c’è altro da dire.”
La cittĂ era questo ritmo che ti spingeva, decideva lei e tu eri dei loro, anche se la tradizione ti tratteneva ancora.
Ecco, potrei accennare a molti altri racconti, ma il rischio di liquidarli in quattro parole: Fossoli, elettroshock, barriere architettoniche, coronavirus, mi imbarazza. Sarebbe un elenco disanimato. Invece qualcosa vorrei dire della forma dei racconti, del loro stile.
Diciotto autrici, ognuna delle quali ha scritto dai due ai quattro racconti brevi, sono impossibili da ridurre ad una: per quanto abbiano tutte seguito i corsi di scrittura con la stessa insegnante, restano voci a sé stanti. Come ogni buona miscellanea che si rispetti.
Qualche autrice preferisce un andamento lineare, senza scosse, con le emozioni e i sentimenti tenuti al guinzaglio.
Altre arrivano a sintesi e conclusioni, si capisce da che parte stanno, hanno una prosa a segmenti staccati.
Altre hanno una prosa a segmenti staccati, ma in mezzo c’è un pieno di silenzi.
Ci sono le intrepide, che ci tengono a provare se stesse, sulla resa della parola scritta.
E chi ha una lingua increspata, così chi legge si muove insieme alla pagina.
Insomma, la cura c’è, e si sente. La lettura ad alta voce che ha passato al setaccio tutti i racconti ha misurato lo spessore dei contenuti che emergono; l’avvenimento, il fatto, le storie ne sono il grande motore. Mi sembra quindi che ci sia poca vanità , ben poca ricerca dell’effetto. Bell’esempio di una scrittura che si sedimenta senza frenesia.
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