“Se cerchi l’inferno chiedi la strada all’artista. Se non trovi l’artista sei all’inferno” La frase del rabbino Avigdor Pawsner è del 1793 e è oggi il motto di Ars Aevi, il Museo di Arte contemporanea di Sarajevo. Ma è anche un po’ lo sfondo, ripetutamente evocato, di La stagione che non c’era, l’ultimo libro di Elvira Mujčić, scrittrice bosniaca, naturalizzata italiana, nata nel 1980 in quella che ancora era la Repubblica Socialista Federale Jugoslava e che proprio in quegli anni iniziava a disgregarsi: era il “tempo della fine dei tempi”, come scrive Jakuta Alikavazovic nel libro del 2012 La fuga in blu

Nel maggio dello stesso anno di nascita di Elvira muore il maresciallo Tito, il presidente. È l’inizio della disgregazione economica e politica della Jugoslavia che si farà sempre più violenta e nazionalista. È qui, dove lei è cresciuta fino al 1992, che è ambientato lo spaesante e bellissimo libro di Elvira, in una piccola città che lei chiama solo con la lettera S. ma che sappiamo essere Srebrenica; la cittadina bosniaca con una forte componente musulmana è vicina al confine con la Serbia e diventerà il luogo più drammatico di questa violenta disgregazione. Tra il 9 e l’11 luglio 1995, sotto lo sguardo inerte, e talvolta complice, delle Forze di Protezione delle Nazioni Unite (UNPROFOR), l’esercito della repubblica serba di Bosnia Erzegovina guidato da Ratko Mladić e gruppi di paramilitari serbi massacrano più di 8000 bosniaci di religione musulmana. Solo nel 2007 questo massacro fu riconosciuto dal Tribunale penale internazionale come genocidio.

Ma in La stagione che non c’era Srebrenica è solo S., forse perché l’autrice non vuole che diventi il simbolo di qualcosa ma lo scenario di storie che si intrecciano, di generazioni che confliggono anche quando si amano, di ideali che sembrano dissolversi ma ai quali è difficile rinunciare. È qui che intrecciano i loro sguardi Eliza, vivace bambina di otto anni piena di interrogativi, di ironia e di insofferenze verso il mondo adulto;  Merima, la sua giovane madre single, attivista comunista che assiste con rabbia alle derive nazionaliste della politica in cui ha creduto  e Nene, suo coetaneo e amico d’infanzia, artista “scappato di casa”, come si direbbe scherzando di un giovane inquieto, deluso, un po’ scansafatiche ma con una sensibilità enorme verso Eliza e Merima e una sorta di preveggenza malinconica che lo induce a sognare un’opera d’arte fatta con tracce del mondo che si sta disgregando. A questo proposito, scherzando con gli amici Nene progetta, proprio all’inizio della guerra, una festa in giardino con “Vernissage d’autore con fine del mondo inclusa”.

Mentre Nene cerca rifugio nella sua arte, Eliza si rifugia nella sua casetta di legno su un albero e nell’amicizia con due coetanee, una di famiglia serba e una come lei musulmana, oltre che nell’intesa con Nene: tutti in fuga dal mondo dei grandi.  Ed è a lui che confida il desiderio di sapere dove vive in realtà suo padre, compagno di università di Merima, suo fidanzato costretto dalla famiglia a lasciarla quando lei resta incinta: la famiglia albanese/montenegrina non vuole che sposi una ragazza musulmana e bosniaca. Tra piccole menzogne e tracce di realtà la bambina si fa un’idea del padre che le induce un forte desiderio di conoscerlo. Nene si impegna con lei nella raccolta di indizi su dove vive e in un complicato progetto di viaggio per andarlo a conoscere.

Il rapporto fra i due è un’affettuosa e complice trama d’infanzia alla ricerca di se stessi e in fuga dalle ipocrisie del mondo adulto che non vede l’infanzia se non come simbolo o metafora di qualcosa che si deve evolvere.

Il racconto della bimba, evidenziato in corsivo, è forte e coinvolgente e ci fa capire quanto la scuola sia l’esempio forse più eloquente di questa distanza fra bambini e adulti. Eliza e le sue amiche si sentono estranee in una scuola che si basa sulla competizione e su criteri di valutazione che negano la soggettività dei singoli bambini. Eliza, ad esempio, si ribella all’obbligo di dover scrivere di famiglie felici quando è tormentata dai dilemmi legati alla rottura tra i suoi genitori, si rifugia così in un racconto inventato che indigna la maestra. Già in altri libri Elvira aveva parlato dell’importanza della menzogna nell’autobiografia” quando si tratta di sottrarsi alla compassione, agli stereotipi e ai giudizi.  Non ha nemmeno voglia di impegnarsi in solfeggi e performance musicali che la distraggono dall’ascolto profondo della bellezza della musica. Ma la ribellione più radicale viene alla fine, quando si sottrae con le sue amiche alla raccolta di firme contro la guerra a cui la maestra le obbliga e che le costringe a capire ancora meglio l’ipocrisia di adulti che in realtà già da anni stanno confliggendo aspramente tra loro. Alla fine le bimbe -angosciate anche per la partenza di Vesna, l’amica con un cognome serbo- decidono di ridurre i fogli con le firme in coriandoli che si spargono nell’aria insieme ai fiocchi di neve, mentre loro volano strette l’una all’altra sull’ altalena.

Nel 1992 -dopo che Slovenia e Croazia si dichiarano indipendenti e quando anche la Bosnia, dopo un referendum, lo fa- inizia l’assedio di Sarajevo. Il fantasma della guerra diventa realtà, Eliza e Merima partono, non i nonni, convinti che in quanto anziani saranno ugualmente al sicuro, e nemmeno Nene che non ha voglia “di andare in Germania a spaccarmi la schiena ed essere guardato come uno zingaro balcanico, no grazie”. Meglio restare a S. a sognare la sua mostra d’arte sul passato jugoslavo, del resto “Se cerchi l’inferno chiedi la strada all’artista. Se non trovi l’artista sei all’inferno”. A suo modo il giovane artista spaesato e scettico resta in Bosnia con l’ironica illusione di poter testimoniare la fine dei tempi.

Un mondo <<ex>> Tra Berlino, Russia, Ucraina, Bosnia, Italia

La stagione che non c’era è un romanzo o un’autobiografia? Forse né una né l’altra cosa, la sua bellezza sta nell’ibridazione dei generi a cui nemmeno la storia è estranea. Il racconto è intervallato da preziose trascrizioni di articoli, comunicati, trasmissioni radio di quegli anni.

Così i passaggi fondamentali di quel periodo vengono evocati: dal crollo del Muro di Berlino nell’89, allo scioglimento del Partito comunista jugoslavo nel 1990, dalla vittoria dei partiti nazionalisti in tutte le repubbliche che facevano parte della Federazione jugoslava al tentativo dell’ultimo presidente, Ante Markovic, di difendere i principi di uguaglianza e prosperità condivisa contro i nazionalismi che stanno disintegrando la Jugoslavia.

Sono i temi che animano le discussioni dei giovani protagonisti del racconto tra disincanto, rabbia ma anche ironici ricordi di utopie condivise, momenti conviviali, iniziative artistiche e musicali vissute insieme, indipendentemente dalle appartenenze.

 Era già un mondo <<ex>> travolto dalla violenza nazionalista, una memoria che sicuramente andava salvata come cerca di fare Nene attraverso la sua arte e come fa Elvira con le sue opere letterarie. Ma, nello scritto che segue, lo fa anche O. (che data la guerra in corso non vuole che il suo nome sia fatto) nata in Siberia e vissuta, dopo il matrimonio, in Ucraina. La crisi degli anni Novanta cambia la fisionomia del mondo che conosceva. Gli uomini non trovano più un lavoro, la crisi economica è pesantissima, le donne si fanno carico in moltissimi casi del mantenimento di tutti e molto spesso decidono di venire nei paesi dell’ovest europeo in cerca di lavoro.

 Alla ‘fine dei tempi’ -dopo il crollo del Muro di Berlino, all’inizio della disgregazione jugoslava, ma anche di quella sovietica- la memoria diventa un modo per usare il passato come strumento identitario e la difesa dell’identità troppo spesso giustifica, ieri come oggi, la distruzione dell’altro.

 È necessario a questo punto, anche alla luce delle crisi attuali, riflettere su una frase che ho sentito pronunciare da Predrag Matvejevic, durante una sua conferenza di molti anni fa: “Serve salvare la memoria ma anche salvarsi dalla memoria”: salvarsi soprattutto dall’uso spesso nazionalista e identitario che ne fanno i poteri politici ed economici. Salvarsi dalla logica dei gruppi che intrecciano autovittimizzazione e suprematismo fingendo di ignorare che ognuno di noi nasce da ibridazioni culturali e si nutre di scambi e relazioni anche al di fuori dalla propria comunità. La forza della vita nasce anche dal riuscire ad essere talvolta, come direbbe Julia Kristeva, “stranieri a noi stessi”.

 O. ricorda più volte l’aver vissuto l’infanzia e la giovinezza con amici provenienti da varie repubbliche sovietiche, di aver condiviso con loro lavoro, studio, divertimento e anche amore, per poi trovarsi quasi straniera in Ucraina, ben prima della guerra attuale.

I paesi del mondo <<ex>> diventano per chi se ne va in cerca di salvezza, ma anche per coloro che vi restano, paesi d’origine perduti, impossibili da ritrovare nella somma dei loro frammenti.

Resta spesso solo la trama delle relazioni, la capacità di vedere ogni singola persona, la possibilità di essere visti come soggetti e non come componenti di un anonimo ingranaggio economico o politico da distruggere.

La storia del Novecento è sempre più disseminata di esseri senza nome, di morti senza tomba, di macerie che non lasciano traccia. Il numero dei civili morti in tutte le zone di guerra aumenta così come aumenta l’indifferenza che nella storia ha accompagnato distruzioni e genocidi, se non quando servivano a scopi politici e si riducevano a puri simboli.

Storia di O.

Sono nata in Siberia, oltre i Monti Urali. La Siberia occidentale è un territorio vasto, abbastanza grande da contenere tre France, dall’Artico al Kazakistan settentrionale. Vivevo a 30 km dal Kazakistan, quindi le nostre scuole erano multietniche e multinazionali. I miei amici erano bielorussi, ucraini, ciuvasci, kazaki e così via. Petrolio e gas furono scoperti nel nord della regione, quindi molte persone provenivano da tutte le repubbliche sovietiche. C’erano soprattutto molti ragazzi dall’Ucraina, che arrivavano con i voucher studenteschi o per incarichi universitari. La città era incredibilmente giovane, si chiamava Bratsk, dove fu costruita la centrale idroelettrica più potente al mondo, oltre il fiume Angara. La sua localizzazione era molto a nord e veniva pagato un coefficiente ‘settentrionale’ per il clima rigido e un anno di esperienza lavorativa veniva conteggiato come due. La città era circondata dalla taiga. Taiga è il nome di una foresta produttiva che si estende per migliaia di chilometri, dove forse nessun piede umano ha mai messo piede, composta principalmente da conifere, larici, pini e, naturalmente, ricca di uccelli e animali, compresi orsi. Ma nella taiga, stranamente, c’erano anche villaggi di ‘Vecchi Credenti’, persone che fuggirono nella taiga dal potere sovietico e seguirono lo stile di vita dei Vecchi Credenti, ovvero non bevevano, non fumavano, non impugnavano armi, vivevano solo di ciò che producevano. Ebbene, anche oggi, queste presenze si trovano ancora nella taiga remota. Trovarono una famiglia, una figlia e una madre, vissero all’inizio del XX secolo, ignare che il mondo fosse cambiato molto. Vivevano di caccia, pesca, giardinaggio e di ciò che trovavamo nella foresta.

I miei antenati giunsero in Siberia dal fiume Don quando Ermak conquistò la Siberia. La regione è ricca di foreste e selvaggina, minerali preziosi e terreno torboso, ma ha estati molto brevi e inverni freddi. In generale è ricca e aspra, ma ospitale e amichevole. Ogni estate, il nostro cortile era pieno di auto e moto; pescatori e cacciatori venivano a trovare mio nonno e mio padre. Durante la Seconda Guerra Mondiale, mio ​​nonno salvò molte persone deportate da Stalin, soprattutto tedeschi della regione del Volga. Per questo la gente ricordava la sua gentilezza e chiamava mio nonno “papà”. E, naturalmente, chiamavano così anche i commilitoni di mio padre e i suoi due fratelli morti in guerra. Sono nata e vissuta nella natura selvaggia, tra campi e foreste, dove ci sono molti laghi – in breve, in una regione lacustre. Studiavamo a casa, leggevamo, giocavamo. Eravamo in quattro, due fratelli e una sorella, io ero la quarta, la più piccola. Per tutto l’inverno i miei genitori lavoravano anche la sera, mio padre cuciva stivali di feltro, mia madre lavorava a maglia calzini e guanti, il nonno lavorava a maglia reti per la pesca estiva. D’estate, andavamo nel bosco a raccogliere bacche e funghi, o semplicemente a fare un’escursione nella natura. La sera, andavamo al cinema, giocavamo a pallavolo e poi andavamo a nuotare. Eravamo in tanti ed eravamo molto uniti. Sognavamo il futuro, cosa saremmo diventati dopo la scuola, e ci innamoravamo. Siamo cresciuti lavorando duro. Dopo gli esami, facevamo un tirocinio pratico, e non se ne parlava: se non superavi il tirocinio, non passavi all’anno successivo. Lavoravamo negli orti della scuola, coltivando ortaggi che poi mangiavamo a pranzo d’inverno. C’erano anche campi estivi organizzati per adolescenti, dove lavoravamo in giardino e la sera raccontavamo storie o discutevamo di eroi letterari. Anche i nostri insegnanti trascorrevano molto tempo con noi dopo la scuola; l’insegnante di classe aiutava a preparare uno spettacolo teatrale, di solito basato sulle fiabe dei fratelli Grimm o di Charles Perrault. Organizzavamo anche ‘serate Puškin’ e concorsi per la migliore canzone… Ci piaceva particolarmente guardare un film con tutta la classe la sera… Leggevamo molto, soprattutto classici mondiali. Sono sicuro che tutti lo sappiano; ti piace sempre qualcosa di sconosciuto. Ho studiato per tre anni in una scuola tecnica professionale. Ho sposato un uomo ucraino e ho dato alla luce il mio primo figlio. Poi mio marito ha deciso di tornare in Ucraina, dove è nato il mio secondo figlio. Mi sentivo una straniera in Ucraina, in tutti i sensi… Quando i miei figli erano piccoli, ho lavorato alla mensa di un asilo. I bambini sono cresciuti, sono andati a scuola, sono stata trasferita alla mensa della scuola, più tardi, quando i bambini sono diventati abbastanza grandi, poi ho deciso di trasferirmi di nuovo all’ORS (Organizzazione per l’Approvvigionamento dei Lavoratori). Negli ultimi anni ho lavorato come amministratrice di una scuola professionale.

Il crollo dell’Unione Sovietica mi ha colta in Ucraina, ricordo come hanno abbattuto il monumento a Lenin nella piazza degli eroi che erano caduti liberando la città dai nazisti. Mia madre pianse quando decisi di andare con mio marito, ho ancora davanti agli occhi come correva dietro al treno.

Alla fine degli anni Novanta è esploso il nazionalismo. Ci siamo chiusi in casa con i bambini, a volte avevamo paura di accendere la luce, perché si avvicinavano tempi difficili, si sentiva ovunque. La sera c’erano manifestazioni in città contro la Russia e i miei figli correvano a casa confusi, dicevano che ora avrebbero distrutto i russi. Al lavoro, nel negozio c’erano aggressioni contro la lingua russa, la mia lingua, e tornavo a casa piangendo, mio ​​marito era arrabbiato. A volte ci rimproverava, perché non parlavamo ucraino, e io lo rimproveravo in risposta, perché non l’aveva insegnato ai nostri figli. In generale, la situazione era tragica. I negozi erano vuoti, non c’era niente, poi hanno iniziato a distribuire buoni sconto per sapone, olio e altri beni di prima necessità.

Ogni tanto andavo in Russia, vendevo quello che potevo e quando tornavo portavo i soldi. Poi l’Europa aprì i confini a Polonia e Romania, portavo a vendere lì tutto quello che potevo e compravo vestiti per i bambini. Così in qualche modo sopravvivemmo.

Le fabbriche chiudevano, la gente perdeva il lavoro, gli uomini si ubriacavano fino a morire, ma le donne dovevano sfamare i figli, i soldi in banca evaporavano, il rublo non valeva più niente. Così entrò in gioco il dollaro, portarono via le merci e importarono dollari. Decisi di mandare il mio figlio maggiore a Mosca, perché non riusciva ad adattarsi all’Ucraina. Lì lavorava come guardia di sicurezza di notte e studiava all’università di giorno. Il più giovane rimase in Ucraina, cercò di entrare all’università, ma non avevamo soldi, e senza soldi è un fallimento.

Verso la fine degli anni Novanta, inizio anni Duemila, le donne ucraine iniziarono a viaggiare all’estero in massa, in Grecia, Italia, Spagna. Mio marito era ormai in pensione, non era mai a casa, non sapevo dove andasse, dopo una malattia trovai lavoro come cassiera al mercato, un lavoro sedentario, ma legato al denaro. A quel tempo, l’Ucraina aveva introdotto la sua grivna. All’inizio, gli esattori prendevano i soldi che guadagnavo quel giorno, ma in seguito dovetti portarli in banca io stessa. Lo facevo al buio, paralizzata dalla paura. La città era completamente senza elettricità, quindi passavamo ogni sera a passeggiare con le candele accese. Questo fu l’inizio di un’Ucraina sovrana. Così, seduta in cucina, pensai a cosa fare, a come continuare a vivere. Seduta davanti a una candela, espressi un desiderio: se Dio mi aiuta a partire per l’Italia, sarò felice; altrimenti, tornerò da mia madre, dato che mio padre era già morto. Fortunatamente, ottenni il passaporto in due settimane, presi in prestito dei dollari e lasciai l’Ucraina all’inizio del 2000. Viaggiammo verso l’Italia per quattro giorni e finimmo a Napoli. Io e il mio vicino litigavamo con l’autista perché avrebbe dovuto portarci a Reggio Calabria con un pacchetto turistico. Ma a Napoli una donna ucraina ci venne a prendere e disse: “Non arrabbiatevi. L’autista vi ha venduti a me, quindi vi riporto a casa e poi, se volete lavorare, ve ne trovo uno”. Ci accompagnò a appartamento, che era pieno di ucraini, uomini e donne. Non potevamo nemmeno uscire per chiamare le nostre famiglie. Poi un giorno, riuscimmo a farlo. Posso dire di essere stata fortunata: ho festeggiato il mio 45° compleanno seduta nell’appartamento di questa donna, così invece di visitare le bellezze dell’Italia, fummo tenute prigioniere dalla mafia. Così, misi sul tavolo tutto quello che c’era nella valigia con il cibo e invitai tutti gli abitanti, compresa la proprietaria, che mi guardò e disse che se avessi voluto lavorare, mi avrebbe offerto un impiego. Dissi, ok, non avevo altra scelta. Il giorno dopo, un’altra donna ucraina venne e mi portò con sé, a condizione che dal mio primo stipendio avrei dovuto pagare cinquecento dollari per l’alloggio e il lavoro, così mi liberai, per così dire. Mi portarono in una famiglia di tre persone… Così iniziò la mia vita in Italia… Lo stipendio era di ottocentomilalire, giorno e notte senza uscire, ma mi davano la domenica gratis… Certo, senza conoscere la lingua, in una città sconosciuta, era molto difficile, ma era molto interessante, la domenica venne una donna che mi portò e passammo la domenica insieme… Così iniziò il mio viaggio turistico in Italia…

Nel febbraio 2022, il mondo per me, i miei figli e migliaia di famiglie è cambiato per sempre. Quando mio figlio che vive in Ucraina ha scritto che la Russia aveva attaccato l’Ucraina, non riuscivo più a pensare ad altro, solo paura per le mie nipoti. Mio figlio ha trattenuto il respiro, tutti i miei amici hanno chiamato e chiesto, e io ho pianto.  Anche il figlio che era in Russia era arrabbiato, anche con se stesso. Ora sono solo contenta di essere riuscita a dire ai miei figli: “Se il mondo crolla, ricordate, siete fratelli, di sangue…”.

“I soldati russi vogliono questo? Chiedetelo al silenzio. Chiedetelo a quei soldati sdraiati sotto le betulle… E i loro figli vi risponderanno… Sì, sappiamo combattere, ma non vogliamo che i soldati muoiano di nuovo in quella guerra!” (da Khotjat li russkie voyny, La vogliono i soldati russi la guerra? Canzone di Mark Bernes, su testo di Eugenj Evtushenko, molto popolare dal 1961).

Ma perché soldati, bambini e donne muoiono di nuovo? Chi risponderà di questo e quando? Se i figli dei nostri leader andassero a combattere, le guerre in tutto il mondo finirebbero. Ma ahimè… La gente comune combatte e muore… Ma perché lo chiedo? Io, una madre che ha dato alla luce figli maschi, non riesco ancora a credere che un tale odio possa esistere tra due nazioni fraterne. Gente, tornate in voi… Le madri hanno smesso di sostenere la guerra. Il Paese viene completamente distrutto, e questo è molto spaventoso! Lo stesso vale per Israele. Hanno dimenticato come il loro popolo è stato sterminato e perseguitato per secoli. Perché ora stanno sterminando un altro popolo, i loro figli? Come vivevamo in armonia, non ricchi, ma amichevoli. Dov’è finito tutto questo? La nostra generazione è stata cresciuta nell’unità e nel rispetto per tutte le nazionalità, ma ora tutto si misura in base al denaro. Uomini, chiedete alle vostre madri, chiedete alle vostre mogli se vogliono la guerra. Non provo odio, né verso una parte né verso l’altra, non giustifico nessuno. In ogni conflitto ci sono colpevoli da entrambe le parti, come tra marito e moglie, uno è più colpevole, l’altro meno. Ma a nessuno è permesso entrare in una casa vicina, in un paese vicino, per rubare, uccidere, dividere, crogiolarsi nell’odio… Questo è così terrificante, durerà per secoli. E come dovremmo continuare a vivere, da che parte dovremmo stare? Chi è contro la guerra e la violenza, chi è costretto a stare in un altro paese e ha paura di dire qualcosa contro entrambe le parti perché teme non per sé stesso, ma per i propri figli e nipoti. E così la vita va avanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, nella speranza che tutto finisca presto, ma ahimè, nuovi missili, nuovi droni e così via senza fine. Mi dispiace per i ragazzi che non hanno potuto e non hanno voluto lasciare il paese per vari motivi, e che sono costretti ad andare in guerra sotto minaccia di morte. È terrificante. E quelli che seminano odio, che si sono riempiti le tasche, hanno comprato ville e hanno fatto trasferire le loro famiglie, non hanno paura comunque… Tutti lo capiscono e nulla può essere cambiato.

                                                                                                                                             O.

O. è un’amica cara che qui si racconta con la lingua che ha imparato dopo anni di vita in Italia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *