Il geco
Lo scatto fulmineo del geco
sotto la grondaia, il fremito
della coda, la bocca
che rimesta buio e materia.
– Non pensano, predatore e preda
sentono la notte, il rame
ancora rovente, la fame
e la fine – mimano la vita
di fronte a me, spettatrice ferma
lungo le vetrate del corridoio
mentre attendo, seguita dai miei passi,
che l’ultima delle mie impronte
mi agguanti le caviglie.
– Al solito posto –
Ecco di nuovo il geco emergere dal buio:
si spinge oltre, stavolta, varcando
le Colonne d’Ercole dell’ombra, potente
come la più luminosa delle stelle.
Riafferra il filo che lo tiene
alla sua piccola creatura, persa
sulla vastità del muro, poi risale
incurante dei miei occhi che lo scrutano
accanto alle linee delle persiane
dove il giorno ha trasposto
il suo fitto contrappunto.
Gli sono diventata familiare
oppure possiede, il geco,
il senso della distanza:
sa che tendendo una mano
non potrei neppure sfiorarlo.
Improvvisa una danza,
un gioco sul cosmo dell’intonaco:
ad ogni mio battito di ciglia
una postura diversa
– aderisce alle leggi dei quanti –
Inverto il punto di vista, procedo
tastando il corridoio:
sotto la pelle ho un corpo di geco.
– E se non ci fosse, stanotte? –
Non mi riconosci – direi
al geco assente –
perciò non ti mostri.
Il tuo sangue è freddo, mentre io
ho la febbre come l’aria di luglio.
Il muro è un paesaggio lunare
a cui nessuno dedica canti,
stanotte, nulla è ormai sconosciuto
agli approdi costanti degli occhi.
Bastava il tuo corpostella
per rinnovare il mistero del cielo.
Un sogno e una tazza
Avevamo un sogno: un viaggio verso sud fino ad Ericusa.
Iniziammo a seminarlo in piena estate, quando nei campi della mia pianura è tempo di raccolto e da lui le sere sono punteggiate dal ritmo straniero del tango.
L’estate successiva ne avremmo raccolto i frutti.
Il sogno aveva a che fare con un’intuizione, la stessa di Peter Handke, quando riconosce le cose che danno senso alla vita. Il suo Canto alla durata era nell’unicalibreria aperta fino a tardi sul Corso semideserto, accanto a un espositore con le tazze, ognuna con un nome diverso.
Il mio compagno di viaggio avrebbe compiuto gli anni dopo qualche giorno, così ne comprai una con la scritta mi hanno chiamato in tanti modi ma il mio vero nome è Giacomo.
Anche il viaggio ci avrebbe restituito un’identità perduta.
Da allora avevamo due cose: un sogno e una tazza.
La tazza in metallo smaltato
conduce alle radici del nome.
Piena di sabbia sarà appesa allo zaino
e ormai vuota ad Ericusa
accoglierà in sé la prima acqua
che vedremo sgorgare da una fontana, pura
come il primo nome che cercano i poeti.
Intanto percuotiamo la tazza,
ascoltiamo il diapason,
intoniamo il canto del viaggio.
Facciamo un gioco,
quello che si faceva da bambini, quello delle parole scritte sulla schiena, scrivimi
la tua vita sulla schiena, io te la indovino, ma poi non te la dico con la voce:
la sapranno il corpo, il sangue e il respiro
– quanto basta. È tanto –
I segni che tracci li riconosceremo nelle crepe dei muri, nelle forme delle nuvole, unendo le stelle a piacimento.
E avranno un suono.
Lo ascolteremo a tempo debito, una volta giunti sull’isola,
dalla bocca della tazza, come da una conchiglia.
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