
Selezione di Milena Nicolini da:
A guardare le nuvole-Partigiane modenesi tra memoria e narrazione, a cura di Caterina Liotti e Angela Remaggi, Carocci, Roma 2004
Vinka Kitanovic, nome partigiano Lina
(…) E io sentivo che, combattendo per gli italiani, combattevo per mia madre, per mio padre, per la mia terra perché eravamo uguali. (…) Eravamo tutti giovani (…) e la guerra è una cosa brutta e terribile perché nessuno di noi è addestrato alla guerra. Ognuno di noi veniva da esperienze diverse, da origini diverse, però i sogni erano uguali: combattiamo per finire la guerra, combattiamo per una società più giusta. (…)
La Resistenza mi ha lasciato la consapevolezza e anche l’orgoglio di aver partecipato, di aver vissuto questo periodo terribile, però nello stesso tempo pieno di solidarietà e di fratellanza tra di noi e questo non lo dimenticherò mai. E mi ha costruito, ha fatto di me una donna che forse, se… non auguro a nessuno un’esperienza di questo genere (…) Ho perso… però ho guadagnato: ho guadagnato nel senso della conoscenza di cosa vuol dire volersi bene, di cosa vuol dire essere uniti e la consapevolezza di non avere mai tradito se stessi. (…)
Bruna Marazzi, nome partigiano Jenni
(…) Mio padre era già clandestino, mio fratello che era del ’26 si era già nascosto… quindi ero già entrata nell’atmosfera… era la lotta al fascismo, e quindi ognuno dava quel po’ che poteva (…)
Le prime cose che ho fatto… c’era anche da considerare che noi come ragazze, anche se avevamo diciassette, diciotto anni, non eravamo solite andare fuori di sera, perché a casa nostra allora non è come adesso che tutte le ragazze vanno, solo che siano in compagnia di… la mamma non la portano con loro, invece noi se andavamo fuori, una volta c’era nostra madre che ci accompagnava o nostro padre. Quindi fare la staffetta significava anche avere una certa autonomia. Praticamente noi cominciavamo lì ad amministrarci come donne. (…) affrontare la lotta clandestina significava essere in movimento di giorno perché i partigiani non potevano muoversi di giorno perché erano nei rifugi (…)
L’importanza delle famiglie che ci hanno ospitato! Questa secondo me è una cosa da non dimenticare mai, perché se non avessimo avuto le famiglie che ci davano una mano, naturalmente neanche la Resistenza avrebbe resistito, eh!? Questo è poco ma sicuro, perché oltretutto c’era un legame tra la gente, (…) un legame importante anche senza conoscere le persone, un legame con il movimento, capisci? (…) Era tanto importante che il movimento della Resistenza avesse il sopravvento sul fascismo… quindi la gente ti aiutava, ti dava anche se non chiedevi.
(…) abbiamo aiutato a camminare le donne noi, attraverso la Resistenza (…) Perché io sinceramente attraverso la Resistenza mi son fatta una cultura (…) e con me sinceramente son maturate tante altre donne. (…)
Cesarina Mazzoni, nome partigiano Clia
Mio padre era fascista ma era una bravissima persona… buono, lui era – come devo dire? – era un pilota dell’aviazione, era un ragazzo giovane quando viene il fascismo, però era una bravissima persona. E a casa nostra (…) ci son stati tutti a casa nostra (…) sono venuti a finire tutti a casa nostra perché visto che mio padre era fascista, si sentivano più al sicuro (…) quando ci son stati i rastrellamenti, son stati momenti terribili: mi han portato via me, han portato via mio padre, poi c’era il rifugio pieno che per fortuna non li han trovati: era nella stalla sotto dove c’eran le mucche. C’è ancora… (…)
(…) Don Zeno [il fondatore nel 1948 di Nomadelfia] per me è stata una figura meravigliosa (…) ci veniva a prendere, tutti i ragazzi della zona con un carretto per portarci in chiesa, ci faceva sentire dei dischi, ci spiegava (…): lui era un prete come di deve! (…) Mio padre avrebbe voluto far studiare mio fratello ma non me, io sarei andata a scuola volentieri, mio fratello no! La donna era per la casa. C’era da lavorare, ma tanto! (…) Lavavo i piatti, andavo su uno sgabello per arrivare al lavabo (…).
Abbiamo sempre avuto passaggi di tante persone (…) Andavano e venivano, perché quando non avevano un posto sicuro si fermavano lì. (…)
C’è stata una cosa bruttissima, sono stati uccisi cinque partigiani lì dentro, in una casa colonica lì, a Crocicchio, lontano tre chilometri dalla nostra casa; ma quella notte lì si sentiva la sparatoria: (…) poi la mattina hanno mandato me a vedere (…) Non so, una spia… (…) C’erano addirittura due fratelli e quando hanno chiamato la madre a chiedere chi sono quelli lì, lei li ha negati perché ne aveva altri tre sempre nascosti. (…)
Orianna Ognibene, nome partigiano Luciana
(…) Una mattina per esempio sono andata per andare per Gargallo… avevamo un recapito grosso; c’era una nebbia una nebbia che non ci si vedeva! Parto con due sportone piene di armi (…). Metto erba sopra, ma in distanza vedevo un buio, un buio avanti: “Ma cos’è quel buio?”. Allora mi fermo, c’è una ragazza che guardava dalla casa. Allora vado dentro: “Cosa c’è che vedo un buio là?”. Mi dice: “Hanno messo i reticolati e i carri armati e hanno circondato la casa”. (…) una spia! La casa dove dovevo andare io. Hanno ammazzato più di venti persone lì! (…) Loro poverini si erano rifugiati nel pagliaio, han dato fuoco al pagliaio, son dovuti saltar giù e gli hanno sparato. Li hanno ammazzati tutti… tutti.
Un’altra volta sono andata con l’Aude Pacchioni, siamo in bicicletta che andiamo per Gargallo (…) c’abbiamo uno davanti in bicicletta. Dal fosso saltan su questi repubblicani. “Alt” a questo signore. Noi ci fermiamo. Lui poverino ha messo le mani per aria (…), cominciano a spararci addosso. (…) L’avevano crivellato. (…) Avevano da sparare a uno ma non era lui. (…)
Io ero sempre in pericolo, io andavo da don Zeno a portare le armi, andavo con un cappottino di pannetto da soldati (…). E sentivo dei contadini che mi fischiavano, mi dico: “Ma saran dei ragazzetti, vedono una ragazzetta…!”, invece mi avvisavano che c’erano gli apparecchi, (…) quattro volte son venuti, eh! Io ho buttato la bicicletta dentro questo fossone che era largo sempre, dentro accucciata lì, che mi arrivava la terra. È stata una fifa grossa, perché non sapevo cosa avevo nelle sporte (…). Arrivo da don Zeno, apro la sporta, (…) mi guarda e fa: “La sporta è piena di bombe a mano!”.
Ibes Pioli, nome partigiano Rina-Lea
(…) Poi è sorta un’altra necessità: di avere dei contanti. (…) i miei genitori venivano dai contadini dei Molza e c’era la marchesa Molza che abitava sfollata a Ponte Motta (…) allora lo zio mi disse: “Il comitato ha deciso e sono d’accordo di andare a fare un prelievo dalla marchesa Molza, con lei consenziente. Tu vai, prendi la tua sportina, preparati a ricevere una forte somma che poi porterai a destinazione qui da noi”. E il giorno dopo ci andai di pomeriggio, scortata (…). Mi ricevette, aveva una bella villa (…) tutta adombrata, molto bella. Mi apre questo portone, una scalinata tipica delle case signorili, con un tappeto rosso per la scala, dall’alto c’era un lume a petrolio acceso (…) Lei dall’alto dello scalone si prese fuori un occhialino, mi guardò in basso, scese la scala lentamente con un gran bel portamento, tutta vestita di nero, mi si avvicinò, mi guardò, senza dire niente, e io guardai lei, ma io la guardai anche un po’ intimidita, in soggezione. Poi, dopo avermi squadrata ha detto: “Ma è lei la partigiana?” Allora io ho detto: “Signora marchesa io la saluto, sono venuta perché invitata a venire qui, se lei crede io sono la proposta per l’operazione che si è detto”. E lei: “Ma lei è una partigiana?” Una seconda volta io dissi di sì: “Ma lei è giovane, perché rischia la vita?”. Allora mi sono ritratta un pochino e ho risposto in questo modo: “Non si combatte solamente quando si è giovani ma anche quando si ha una certa età”. Questo le rischiarò il viso, si è trasformata: “Allora anch’io dovrei essere una partigiana!”. “Lei se fa qualcosa per i partigiani, fa già molto”. Così mi diede il primo acconto di 600.000 lire.
Vanilba Leoni
(…) e poi ci hanno portato a Fossoli, in campo di concentramento (…). Il mio pensiero più grande era quello che non si presentasse mio fratello, perché sapevo che se si presentavan loro li ammazzavano… i ragazzi. (…) Ci han preso su come ostaggi (…) Poi quando hanno visto che non si presentavano, da Fossoli ci hanno permesso di venir via (…) A Fossoli (…) ero la più giovane del gruppo e (…) mi chiamavano Cinìn. E c’era una ragazza ebrea e ci ho chiesto a una guardia se potevo buttare una pagnotta, a me ne davan due e me ne bastava una, che loro gli ebrei invece eran sotto i tedeschi, perché le avevano messo la stella gialla sul petto. (…) Allora [la guardia] me lo permetteva, andavo là vicino, buttavo la pagnotta, lei se la prendeva. (…) Si chiamava Iris (…) Temo che non se la sia cavata! (…)
Io ho girato come staffetta, però non ho preso neanche quelle 5.000 lire che davano in principio alle staffette: io dicevo mio fratello è salvo, basta! Io giravo per lui, per i ragazzi che conoscevo (…)
Giovanna Rinaldi, nome partigiano Gianna
(…) Quando i fratelli l’han tirato giù [il cognato impiccato dai nazifascisti], sono arrivati i tedeschi e lo hanno fatto rimettere nella forca eh! Poi due fratelli son scappati e quello zoppo l’han preso che l’han tenuto dentro tre giorni e l’hanno anche malmenato. Quando con mia madre e il pretore siam riusciti dopo tre giorni a fare il funerale, alla sera alle nove lo siamo andati a prendere con un carretto a mano, messo in una cassa purchessia, e poi dalla chiesa a piedi fino al cimitero, con dietro i mitra dei tedeschi e i tamburi con quel tam tam del coprifuoco: io, mia madre, mia sorella e mia cognata. Sempre i tedeschi fino al cimitero, ha capito? E sono cose che non si possono dimenticare, perché aveva diciott’anni, un cìn [un bimbo]!
Lucia Malavolta, nome partigiano Lina
(…) L’ultimo giorno che è venuta la Liberazione c’erano gli americani lungo questa strada, io ero dietro che [stavo andando] andavo ad avvisare a Novi che c’erano già gli americani. (…) Ho trovato un ragazzino di diciotto anni che era ferito… perché loro non si volevano arrendere i tedeschi quando vanno, vanno anche se non vogliono andare, quando son comandati! L’ho preso, son arrivata a Rovereto, c’erano dei ragazzi che me lo volevano prendere perché l’avevo sulla canna della bicicletta. Me lo volevano prendere e ho detto: “No, questo ce l’ho in mano io, lo consegno agli americani, perché è un ragazzo comandato come tanti altri, io non voglio fargli del male”. Dopo l’ho consegnato. (…) Ma non so più niente (…)
Alma Malpighi, nome partigiano Aurora
(…) Noi potremmo dire che in tempo di guerra abbiamo sfamato molta gente (…) Abbiamo avuto delle famiglie che il marito è andato in Germania e la moglie rimaneva a casa con i figli e i figli come facevano a mangiare?! (…) Sicché lì venivano al coperto, venivano al caldo della stalla, le madri venivano ad aiutarci dove c’era il bisogno (…)
Mio figlio è nato il 3 di aprile del ’44. Ricordo che una volta… eravamo sfollati in una casina di contadini a San Donnino e mio marito aveva una riunione a Gargallo. Era tremenda la strada per Carpi, era tremenda. Ho fatto da San Donnino a Gargallo e ritorno tra una poppata e l’altra, in tre ore e mezzo per essere a casa a dare il latte. Poi mia madre mi faceva mettere le mani nell’acqua fredda, le braccia nell’acqua fredda perché mi calmassi, perché mi mettessi in condizioni di serenità per poter allattare il bambino (…)
Siamo diventate donne mature, consapevoli e ci sono state tante eroine (…) Sì, sì, una grossa emancipazione, una grande emancipazione. È stata una maturazione di consapevolezza, di capacità… la capacità di valutare la propria forza, non solo la forza individuale, ma la forza collettiva ecco (…)
Cesarina Prampolini, nome partigiano Marta
(…) Allora ho detto: “Marta”, e mi son sempre chiamata Marta, e tanti mi chiamano ancora. (…)
E la Liberazione? Eravamo lì che avevamo da mangiare, che non so come avevamo un pezzettino di coniglio (…) e non vedevo l’ora! E allora ci han detto: “No, no, dobbiamo fare una riunione!”. Siam andate via senza mangiare: avevamo una rabbia! (…) E siamo andate a casa da mia zia (…) a pianterreno, sotto le finestre c’era la mitraglia con i repubblicani, che sparavano dentro l’Accademia [in centro di Modena], perché (…) erano proprio in posizione lì. E tutta notte han fatto questo lavoro, io non so cosa sparassero… E noi eravamo dentro. Dicevamo: “Adesso si voltano e ci ammazzano tutti!”. E mia zia diceva: “Perché non dormite?” (…) E noi: “Ma sai che non abbiamo mica cenato?”. E allora lei: “Mo perché non me l’avete detto! Aspetta…”. Si vestì e sotto al letto tirò fuori un tegame di pasta e fagioli. Perché non avevamo mica il frigo, i frigo erano sotto al letto! (…) al mattino (…) c’è una donna che dice: “Ci sono gli Americani alla Crocetta! (…)”. (…) Allora tutti quelli lì, compreso Alfeo, alè! Fuori tutti a prendere le sue posizioni, e noi lì ad aspettare. Infatti vennero poi lì con il carro armato (…) che sparavano dentro l’Accademia. E poi arrivarono questi americani, che però hanno lasciato poi i partigiani a liberare Modena! Son stati là ad aspettare, perché facevano venti bombardamenti e poi venivano avanti un passo! E Naso diceva: “Quando arrivano gli americani bisogna cioccare [battere] le mani!”. “Io no!” E lui: “Ma no, guarda, perché loro…”. E io: “Me no, per me no, perché han fatto dei lavori [cose]che potevano avanzare [evitare]!”. Beh insomma, c’erano questi partigiani pieni di fame, perché erano venuti giù dalla montagna, perché insomma, abbiam fatto il gnocco fritto e tutte le case hanno aderito, chi faceva una cosa e chi… E io sotto le mitraglie andavo a portare il gnocco (…) Poi arrivarono gli americani: avevano solo sete, eran tre giorni che non dormivano, avevano fatto l’avanzata… (…) Poi dopo al pomeriggio che sfilarono i carri armati, tutti battevano le mani, io ho tenuto sempre le mani dietro le spalle. (…) avevano ucciso il babbo di mio marito in bombardamento, una; poi prima di arrivare, ma sa quanti bombardamenti ci han fatto subire? (…)
Perché poi noi non ci attentavamo a dire che eravamo stati partigiani, poiché dopo la guerra subito c’è stato un odio contro di noi, e allora delle volte andavi piano a dire… (…) Perché intanto le partigiane erano tutte donne poco serie, perché andavano a letto con tutti i partigiani!
Fernanda Rossi, nome partigiano Riccia
(…) Quando io ho cominciato a portare mio padre su e altri partigiani, ho cominciato a fare la partigiana anch’io. Facevo parte di un gruppo di SAP, della SAP di Piumazzo (…) Facevamo veramente dei lavori da partigiani. Tranne le armi. Io le armi non le ho mai portate. Arrestano uno dei nostri comandanti, non riesce a sopportare le torture (…): insomma ci hanno arrestato quella mattina lì in otto o in dieci. (…) Lì abbiamo subito gli interrogatori (…) eravamo in tre donne: una si è appartata con i tedeschi e non abbiamo mai saputo cosa è successo tra lei e loro; comunque danni non ne ha fatti (…). Io sono riuscita a salvarmi, però una mia amica di Anzola Emilia l’hanno stuprata: una ragazza di sedici anni! È l’unica cosa che mi sono schivata: per il resto, gli interrogatori, le botte, le torture, tutto il resto (…). L’unica cosa che mi ha salvato un po’ è stata che quel comandante che ha parlato, ha fatto la spia e ci ha fatto arrestare, io sono riuscita a vederlo prima di andare in interrogatorio. E mi ha detto: “Io mi sono limitato a dire che tu eri fidanzata con il comandante – non era vero ma era una scusa che si prendeva – portavi via le lettere… però eri con lui perché eri fidanzata. (…)”. Me la sono cavata (…) per il rotto della cuffia, per quello lì. (…) questa storia è durata ottanta giorni. (…) Là non è che ci fossero solo delle contadine o delle operaie; con noi c’erano una marchesa, la marchesa Dal Fiume, che cercavano i figli, non li hanno trovati e hanno preso lei; una signora di settant’anni; c’era la professoressa Darpa, che anche lei cercavano il fratello e hanno preso lei. (…)
Ines Contrasti, nome partigiano Tina
(…) Son venuta giù con tutti i partigiani il giorno della liberazione di Sassuolo. (…) Diciamolo bene che fino alla Liberazione la donna non era mai stata considerata, eh! Perché l’apporto della donna nel periodo della Liberazione è stato tanto, perché l’uomo era davanti, ma se non ci fossimo state noi! Armi maneggiate no, portate sì, molte (…)
Quel periodo lì per me era una cosa che… dovevo farlo, perché eravamo arrivati in un punto che… Io avevo ventidue anni e l’ho fatto con tanto orgoglio (…) Non ci si pensava alla paura, si affrontava giorno per giorno, quello che veniva… andava! (…) Quando c’era da partire si partiva. (…) io non avevo paura, (…) volevo andare!
Vittorina Gandolfi, nome partigiano Nadia
(…) Quando sono tornata alla vita normale per me è stata una delusione… dovermi mettere un’altra volta davanti a quella macchina da cucire… perché il mondo sembrava tutto nostro, sembrava di aver toccato il cielo con un dito, poi la realtà è stata quella e abbiamo dovuto accettarla, ma che delusione! (…) Abbiamo costituito l’UDI. Noi abbiamo preso delle offese i primi tempi in cui si dava la ‘mimosa’: era l’unico mezzo per raccogliere dei soldi (…) Facevamo assistenza ai più poveri di noi (…) L’attività che facevo è stata il motivo della rottura col fidanzato: lui non era d’accordo. (…)
Marta Sola, nome partigiano Maria
(…) Dell’emancipazione parlavamo… in quel periodo (…) e soprattutto dicevamo: “Ma insomma riusciremo ad avere dei contratti di lavoro che non ci portino più ad uno sfruttamento (…), ma insomma noi donne saremo considerate qualcosa, oppure continueremo a non avere nessun riconoscimento?”. Si incominciava a fare questi discorsi, erano pensieri che ci venivano per la vita che si era fatta, (…) per il modo come si era cresciuti… (…) Moltissimo hanno fatto le donne nella Resistenza, anche se non è stato tenuto in considerazione dagli uomini. Anche se gli uomini, beh insomma, sembrava una cosa normale: “E’ da fare”, dice, “E’ da fare”: sembrava una cosa normale. Invece no: si dava con tutta la responsabilità e con tutto l’animo immaginabile. No, non c’era molta considerazione da parte degli uomini, no!
Marina Saltini, nome partigiano Sonia
(…) Fui io a chiedere l’inquadramento legittimo delle staffette della nostra zona, perché una volta, dopo il 25 aprile, passai da una villa a Cibeno e c’erano dei ragazzi (…)” Prepariamo la lista dei partigiani da mandare alla Commissione regionale”, perché il comandante Alexander, comandante americano della piazza di Bologna, voleva l’elenco delle forze partigiane nel territorio dell’Emilia. Allora l’ho guardata bene e non c’era neanche una donna. Allora (…) l’ho detto alle mie compagne e siamo andate là che poi ci hanno aggiunto, che poi purtroppo ne hanno lasciate indietro. (…)
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