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Giovanni D’Alessandro, 1955, ha pubblicato in 26 anni 7 romanzi: “Se un Dio pietoso” (Donzelli 1996), “I fuochi dei kelt” (Mondadori 2004), “La puttana del tedesco” (Rizzoli 2006); “Soli”, “Il guardiano dei giardini del cielo”, “Sulle rovine di noi” e “La tana dell’odio” (San Paolo 2008, 2009, 2011 e 2013). È risultato vincitore o finalista in numerosi premi nazionali e internazionali, tra cui Viareggio, Fenice Europa, Scanno, Penne, Convegni Maria Cristina, ecc. Tradotto e pubblicato dai maggiori editori europei, è stato tra l’altro definito “vero, autentico caso letterario di questi anni” (Avvenire); “autore di romanzi di grande orchestrazione sinfonica” (IlSole24Ore). Autore anche di saggi, si interessa di letteratura anglosassone e di storia dell’arte con interventi/rubriche su quotidiani nazionali italiani ed esteri.
Quale cultura è stata nei secoli la più provocatoria dal punto di vista intellettuale? Indubbiamente quella greca: col suo culto della “sofìa”, cioè della conoscenza, al punto tale che a Delfi, sul frontone del tempio del dio della sapienza Apollo, avevano iscritto a grandi caratteri la massima (provocazione al genere umano d’ogni tempo): «Ghnòthi sautòn», «Conosci te stesso». Erano ben sicuri che la sfida sarebbe stata persa da tutte le generazioni successive. Perché? Perché avevano messo a fuoco, per la prima volta nella storia dell’umanità, che tentare di conoscersi era tanto necessario, quanto impossibile. Era una via senza fondo, in quanto scavare in se stessi, anche rimossi i livelli superficiali di non conoscenza, incontrava poi le dure concrezioni degli errori condivisi da tutti o, peggio, di quelli pure inconsci. I greci avevano capito che a credere di conoscere se stesso era solo chi rinunciava a progredire nello scavo, illudendosi d’avere raggiunto chissà quale profondità.Di questa provocatorietà e superiorità intellettuale dei greci erano ben consapevoli i romani anche dopo averli assoggettati, al punto da scriverne con Orazio: «La Grecia sottomessa ha sottomesso il suo selvaggio vincitore» cioè Roma (… e, detto per inciso, in quest’ammissione d’inferiorità stava forse la grandezza, culturalmente sincretica e “inclusiva” – si direbbe oggi – di Roma stessa).Certo, i greci erano anche sicuri che la sfida sarebbe stata raccolta. E infatti quanti provocati/provocatori in due millenni e mezzo si sarebbero cimentati col «Gnòthi sautòn» e avrebbero portato contributi di grandi menti all’impossibile autoconoscenza del sé. Ma non avrebbero toccato la meta, attraverso la teologia, neppure Agostino d’Ippona, Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri; non, col culto della follia misterico-apocalittica, Ariosto, Cervantes; non, con gli scandagli negli anditi tenebrosi del cuore, Marlowe, Shakespeare, Webster, Dostojevski, Conrad; non, con le loro fulminanti acquisizioni gnomiche, Montaigne, Pascal, La Rochefoucauld, Voltaire, Goethe, Chateaubriand; non, con trascinanti seduzioni narrative verso il sé-eterno/onnipresente in ogni creatura umana, Stendhal o Tolstoj; non, col richiamo alla solidarietà tra esseri umani, il Leopardi della Ginestra o Boell; non, col suo appello d’indignazione civile, rivolto a coloro che sarebbero nati poi, Brecht; e neppure avrebbe toccato la meta, agli albori del XX secolo, con la psicanalisi, Freud o Jung, col loro immenso tributo alla scienza e col loro portato poetico-narrativo rovesciato in Eliot, in Joyce, in Rilke, in tutta la produzione letteraria successiva; psicanalisti che avrebbero anzi messo a fuoco la impossibilità di conoscersi, se non per brani estratti dall’inconscio.E a questo punto bisogna chiedere perdono a chi sta leggendo questo pezzo, per la lunga premessa di cui sopra. L’abbiamo presa alla lontana, partendo dai greci, per un amoroso excursus tra i provocatori e i provocati di ogni tempo. Perché questa premessa serve a parlare di un libro.
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