È merito della poetessa, editrice, traduttrice e docente Valeria Di Felice averci fatto conoscere la poesia di Anna de Brémont (circa 1852 – 1922) con il libro da lei curato e pubblicato ad aprile 2023 per la propria casa editrice Di Felice Edizioni, nella collana “I contemporanei del futuro”, diretta da Roberto Michilli. Il libro, racchiudente buona parte della produzione della poetessa, s’intitola “Poesie e sonetti d’amore” e si articola, per 251 facciate, in 4 sezioni (“Serie di 12 sonetti”; “Mattina sul capo”, in 7 componimenti; “Poesie d’amore” in numero di 20 e una “Miscellanea” di altri 25 componimenti), corredate da 2 note della curatrice, una biobibliografica sulla De Brémont e un’altra dal titolo “Dipingere con le parole i volti dell’amore”, utili a introdurre il pubblico alla conoscenza di un’autrice di un secolo fa pressoché ignota. Il libro contiene dunque a tutti gli effetti una scoperta. Chi era Anna de Brémont?
Prima di identificarla come una poetessa attiva tra fine Ottocento e inizio Novecento, bisognerebbe dar conto di una poliedrica ed eccentrica artista – che è stata anche giornalista, cantante, teatrante, imprenditrice di spettacoli, animatrice di circoli culturali – il cui vero nome era Anna Dunphy, nata a New York (USA) da immigrati irlandesi attorno al 1852, orfana di padre e cresciuta a Cincinnati nella nuova famiglia lì creatasi dalla madre; e, poi, di una contessa francese quale Anna diviene all’età di 26 anni, sposando il quarantaduenne conte Emile Léon de Brémont, di 18 anni più anziano di lei. Vedova già a 30 anni, dal marito eredita il titolo con cui amerà presentarsi al mondo per il resto della vita, Anna de Brémont appunto, nonché un discreto patrimonio (tra cui un castello presso la costa basca francese), da lei dilapidato in poco tempo, ma che le consente di cominciare a figurare nel mondo artistico: prende a frequentare gli intellettuali residenti o di passaggio a New York e nel 1886 si trasferisce a Londra, iniziando una vita all’insegna delle più svariate attività: animatrice di un salotto a Marylebone, frequentatrice di altri salotti come quello della madre di Oscar Wilde, organizzatrice di tournée nell’impero britannico, per le quali s’imbarca intemeratamente per il Sud Africa al seguito di un mago illusionista. A Città del Capo nel 1889 pubblica la prima raccolta di poesie intitolata “Love Poems”, riportata nel volume di Valeria Di Felice. Collabora con giornali. Compone musica. Riparte per gli USA, torna in Inghilterra, è sempre su una nave. L’equilibrio non è il suo forte, soprattutto nella gestione delle finanze. Guadagna poco. Entra marginalmente in qualche evento di corte omaggiando con delle poesie i Windsor, cerca di farsi pubblicità con un’intervista commissionata a un importante critico dietro compenso, sennonché lui le chiede troppo, perché a parlare di un personaggio così eccentrico nell’Inghilterra vittoriana si rischia; e lei risponde con classe (noblesse oblige) augurandogli di crepare prima, in modo da essere lei a scrivere per lui, gratis, un necrologio; in attesa di tale dipartita, però, lo querela per diffamazione e perde rovinosamente la causa. Questa esperienza la accomuna negli stessi anni all’amico Oscar Wilde il quale, dopo aver temerariamente agito in giudizio contro lord Douglas, e perso la vertenza trasferitasi in sede penale con accuse di omosessualità e plagio nei confronti del figlio del lord, suo giovane amante, pagherà uno scotto più duro, con due anni (1895-7) di carcere a Reading; Oscar, uscito distrutto da questa fase, e Anna si rincontreranno per caso solo un’unica volta a Parigi, nell’anno dell’Esposizione Universale e della morte di lui (1900), al cui funerale lei parteciperà. Più che come poetessa, Anna si è ormai fatta conoscere tra Inghilterra e Francia come un personaggio abbastanza scandaloso, ma la sua produzione scrittoria non ne risente: a 42 anni pubblica dei Racconti, a 47 il primo romanzo. Attorno ai 50 anni, nel paese presso il castello dei de Brémont in Francia, a Saint-Jean-de-Luz, viene intanto a luce da genitori ignoti una bambina cui è dato il nome di Maryse Choisy che tutti ritengono sua figlia, dato che Anna vive celata nel castello; lei non la riconosce, ma la seguirà occupandosene per 20 anni, fino alla morte. Nel frattempo produce altri due romanzi, torna a Parigi, pubblica altre raccolte di poesia e allo scoppio della Prima guerra mondiale, nel ’14, offre come ospedale militare al governo francese il suddetto castello, dove da Londra tornerà solo nel 1920 per festeggiare il fidanzamento della figlia. Due anni dopo, nel 1922, muore di polmonite a circa 70 anni e viene sepolta a Londra.
Per il solo aver seguito e ricomposto tutte queste evoluzioni e circonvoluzioni esistenziali, nonché di produzione letteraria – in base a fonti edite dai diretti discendenti della poetessa – andrebbe ben lodata Valeria Di Felice; anche per un’ulteriore difficoltà: Valeria ha dovuto agire come storica, prima che come traduttrice e curatrice dell’opera della de Brémont; la cui produzione è quanto mai varia, ramificata nel tempo e disuguale per qualità.
Era una grande poetessa? No, ma non si può rispondere a una domanda così. La produzione di Anna de Brémont è percorsa da una dimensione declamatoria, teatrale, scenica, in sintonia con gran parte del suo personaggio. Certo non è una produzione innovativa o sempre di livello elevato: viene dagli anni in cui negli USA sono emersi nomi straordinari nella poesia come Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, Henry W. Longfellow, Edgar A. Poe, per non parlare della narrativa (la de Brémont ha scritto vari romanzi e racconti) con l’assestarsi dei già classici in vita – costitutori dell’identità anglosassone nell’impero – Charles Dickens, Rudyard Kipling, Henry James o di anticipatori/radicatori senza tempo di quest’identità, quali Joseph Conrad ed Hermann Melville, che si riverseranno direttamente da fine Ottocento in tutto il Novecento e oltre. Paragonata a loro, è la de Brémont artisticamente minore? Sì, ma neppure questa domanda può essere formulata: non possono farsi paragoni legati a una mera contestualizzazione.
Anna fu certo una elegante continuatrice dei modi tardoromantici, per il culto della rima (che coltivò sempre, sino ad adoperare per essa arcaismi e termini inusuali), o per il tributo metrico a forme classiche (a volte condizionante, sino a produrre un certo meccanicismo nella versificazione). Si ispirò ad Alfred Tennyson e ad Alice Meynell, per il costante omaggio alla musicalità e alla prevalenza del significante fonetico sul significato. Ma fu felice in questo, perché era dotata di talento, quale si coglie ad esempio in “Sister Claire’s confession”, Confessione di suor Clara, lungo componimento polifonico (o sintesi di più componimenti) dove la struttura della ballata, così amate da Tennyson e da Meynell, l’assolve da rime scontate (Era lontano, lontano/ tanti anni fa/ dove una profonda baia assolata/ lavava con onde e correnti/ i piedi bianchi delle scogliere, sulle cui alte pareti coperte di muschio/ l’abete orgogliosamente si erge/ e l’aquila si posa”). E fu pure tenera, dickensiana, nel poetare con le voci dei bambini come in “Children’s Christmas Dinner at Victoria Hall”, Cena di natale dei bambini a Victoria Hall, dove un fratellino e una sorellina piccoli e poverissimi raccontano alla mamma, col loro linguaggio pieno di meraviglia, di essere stati portati a una festa di beneficenza natalizia a Victoria Hall, dove hanno potuto mangiare dolci e tant’altro, che a casa loro non avrebbero potuto permettersi, e di aver perfino avuto in regalo mezzo scellino a testa da una vecchietta in cui si era incarnato un angelo (“Non piangere, mammina cara, gli angeli sono vicini/ ci amano, ci custodiscono e vegliano su di noi qui;/ perché noi siamo i loro bambini, i poveri di questa terra/ la sacra, sfortunata e povera banda di Dio”); quando entra nei modi scenici che le sono congeniali, Anna de Brémont sa agire in modo commovente i suoi personaggi e sa farli parlare con le loro voci. Fu anche una buona descrittrice della natura, come nelle poesie che dedicò a Città del Capo, in “Cape Morn”, Mattino sul Capo (di Buona Speranza, dove visse: “Un bagliore iridescente avanza sul mare,/e sulla città addormentata, tutta vivida e bianca/ brillano la casetta, la guglia e il tetto; mentre ogni albero/ e arbusto sotto il piatto dorso del monte/ beve nel bagliore; con gioia silenziosa e tremante/ senza fiato il mondo attende il dio della luce!”). Fu soprattutto una poetessa d’amore appassionata, nei componimenti in cui si dedicò all’amore perduto o al suo momento iniziale, come in “A spirit love”, dalle immagini a tratti elisabettiane, come quando l’amore viene paragonato a uno spirito dalle cui catene si vuol essere avvolti, avvinti, trattenuti (“Un verso di poeta la mia anima scosse in profondità, / l’amore respirò in ogni parola luminosa, /ma come un sogno troppo bello svanì – lo trattenni io lì sempre./ Ma perchè dovrebbe mai l’amore, che tenta sempre/ di legarmi, spezzare così le sue catene? / Perché uno spirito reclama amore/ e geloso custodisce la sacra fiamma/ che brilla e brucia nel mio cuore,/ chiara luminosa e pura oltre la terra/ finché i larghi portali della morte siano spalancati,/ e a quell’amore la mia anima sia volata”). Una voce dunque finora sconosciuta e interessante, anche perché rappresentativa di un certo milieu anglosassone del quale si pensava di aver mappato quasi tutto, quella di Anna de Brémont, propostaci da Valeria Di Felice.

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