Vive a Modena, dove è nato nel 1951 – Ha lavorato come insegnante all’Istituto Tecnico Enrico Fermi di Modena. Diplomato in regia cinematografica nel 1981 presso il “Centre de formation au cinema direct” di Parigi, presieduto da Jean Rouch, si è dedicato alla realizzazione di numerosi documentari e spettacoli teatrali fra i quali diversi musical (Jesus Christ Superstar, Cats, Hair, Il Re leone). Da giornalista scrive periodicamente sul settimanale Tempo edito anche on-line da Radiobruno (Carpi- Modena).
Tra le pellicole che hanno acceso gli schermi festivi e festosi appena trascorsi, una in particolare ha davvero brillato per la sua totale indifferenza agli schemi narrativi del cinema contemporaneo. Il suo autore, infatti, resta fedele a una poetica fatta di inquadrature a camera fissa dove anche il movimento interno dei personaggi è ridotto all’essenziale, e a tematiche che riguardano una umanità marginale, cioè di chi vive ai bordi del consumismo e del benessere. Un mondo messo in scena con la semplicità che rispecchia quella dei personaggi. Lui è Holappa, (Jussi Vatanen) operaio in una fabbrica metalmeccanica piuttosto malmessa, vive solo ed è alcolizzato. Al nostro orecchio latino il suo nome suona già comico o tragico. Lei è Ansa (Alma Pöysti), commessa in un supermercato, addetta anche a gettare nella spazzatura i cibi in scadenza. Un giorno un sorvegliante si insospettisce e ad una ispezione, una scatoletta di cibo andato a male viene trovata nella sua borsetta. Ne consegue il licenziamento in tronco. Anche il suo nome è altrettanto estraneo alle nostre consuetudini. Tuttavia non c’è affatto un gusto esotico in tutta questa stranezza, anzi: abbiamo di fronte persone in carne e ossa, non personaggi; proletari dal lavoro precario che sbarcano il lunario con fatica e sudore e che non sempre ci riescono e così annegano in una bottiglia solitudine ed emarginazione. Però queste due persone hanno il colpo di fortuna di incontrarsi e il colpo di sfortuna di non sapere come ritrovarsi. Lui, infatti, ha smarrito il biglietto con il numero di telefono di lei, caduto a terra e trascinato via come le foglie al vento. Disperato dentro, impassibile fuori, confessa all’amico di non sapere nemmeno il nome di quella provvidenziale ragazza. La situazione la risolve il cinema. I due, infatti, si cercano davanti alla sala dove insieme avevano visto un horror che hanno trovato molto piacevole e quasi romantico e nel quale due strampalati spettatori, ostentando cinefilia, trovano echi di Bresson e Godard. Il paradosso sta anche qui, non solo nella vicenda dei due protagonisti. Tutto il film, nella sua esagerata normalità si muove sul filo del paradosso. Ma se ci si lascia prendere dagli sguardi e dalle posture dei personaggi, dai dialoghi spogli e laconici, da una recitazione priva di qualsiasi enfasi, dalla fotografia coi colori smaccatamente saturi, dalle scenografie tappezzate di manifesti cinematografici, non si può non godere interiormente, in silenzio, di una comicità solo suggerita, di un riso sempre sul punto di esplodere e di un sentimento di spontanea solidarietà per quelle figure così oneste e pure. Aki Kaurismaki sembra divertirsi lui stesso nell’inanellare le scene come tanti quadri che compongono linearmente la più semplice delle storie d’amore ed è sincero nell’omaggiare senza cinematograficamente citarli, alcuni tra i più riconosciuti mastri del cinema, Visconti, Lean, Melville, Ozu, Sirk. A quest’ultimo sembra rubare il titolo (Come le foglie al vento), e contenderlo anche alla canzone di Prevert e Kosma (Le foglie morte). C’è infatti anche tanta musica e “canzonette”: tutte rigorosamente in finlandese, e di nuovo il mio orecchio si diverte a quei suoni incredibili incastrati in arie risapute ma solitamente farcite con parole dai suoni molto più melodiosi. Quando il film finisce (troppo presto - dura solo 81 minuti), mi resta un sorriso prematuramente spento dalla luce della sala e della notte di fuori. E l’immagine finale ristagna nella mente perché mi riporta all’infanzia, ai film di Charlie Chaplin visti da bambino, con il vagabondo che si allontana per mano alla sua bella verso un sole che occhieggia all’orizzonte. E ripensando a quei volti immobili, inespressivi, volutamente comici nella loro drammaticità , mi ricompare nella mente anche l’indimenticabile silenziosa maschera di Buster Keaton. Magia del cinema!
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