Vive a Modena, dove è nato nel 1951 – Ha lavorato come insegnante all’Istituto Tecnico Enrico Fermi di Modena. Diplomato in regia cinematografica nel 1981 presso il “Centre de formation au cinema direct” di Parigi, presieduto da Jean Rouch, si è dedicato alla realizzazione di numerosi documentari e spettacoli teatrali fra i quali diversi musical (Jesus Christ Superstar, Cats, Hair, Il Re leone). Da giornalista scrive periodicamente sul settimanale Tempo edito anche on-line da Radiobruno (Carpi- Modena).
C’è un paese che per molti non esiste, un paese che l’Occidente “democratico”, quello che si dice paladino dei diritti umani non riconosce, perché in quell’Occidente comprende anche l’unica sbandierata democrazia del Medio Oriente. (Ma, per inciso, mi chiedo se l’apartheid è compatibile con la democrazia). Questo Paese sta vivendo l’apocalisse. In questo paese, anche se non lo si vuole vedere, è in atto un genocidio, di cui la Corte internazionale dell’Aia si sta occupando. Ebbene questo paese riesce paradossalmente a inviare a Hollywood, e a proporne la candidatura all’Oscar, un reportage realizzato sul campo, sotto le bombe, dentro la devastazione e la distruzione sistematica di ogni edificio e infrastruttura socio-sanitaria. Questo paese è la Palestina. Il film-documentario si chiama From Ground Zero. Ho avuto la fortuita occasione di vederlo in una meritoria appendice del Via Emilia Doc Festival, organizzato a Modena dall’ARCI. Sono entrato in quella sala con la timidezza e la titubanza che provo a volte entrando in un santuario, con il timore di assitere a qualcosa che immaginavo benissimo e proprio per questo non avrei voluto vedere. Ma il dovere della testimonianza e il desiderio di pagare un biglietto da devolvere a quella popolazione superstite era ineludibile.Così mi sono seduto in quella sala fortunatamente gremita e inusualmente, ma rispettosamente silenziosa. Il sottovoce sembrava essere la caratteristica nell’attesa di quell’incontro tra pubblico e film. Così quasi non si è notato il totale mutismo quando il buio ha acceso lo schermo e hanno iniziato a scorrere immagini colorate di cielo funestato dal volo di fulminei bombardieri, di mare ormai solo desiderato, di polvere macerie esplosioni. E sotto-vicino-dentro: persone, uomini, donne, vecchi, bambini e bambine che insistono e resistono nei loro giochi, coi loro disegni, i loro residui sorrisi immediatamente sotto occhi dagli sguardi interrogativi o spenti. Ventidue micro film si susseguono per approfondire inesorabilmente una realtà irreale, per mostrarci quello che le televisioni oscurano, e che i giornalisti, ammazzati o allontanati con la forza, non possono più raccontare. È davvero stupefacente ed eroico questo lavoro di ricerca e ricomposizione di una situazione da parte di una schiera di operatori-autori e registi che con videocamere di fortuna o anche solo coi cellulari interrogano e quasi spiano la quotidianità della guerra. Il regista palestinese di Gaza Rashid Masharawi di cui ricordo solo Ticket to Jerusalem del 2002, è riuscito a raccogliere e coordinare questi materiali e dare loro la dignità cinematografica che ne fa un prodotto molto vario ma coerente, in una parola unitario.Persone in fila per l’acqua o per ottenere qualche razione di cibo, le corse per accapparrarsi ciò che viene paracadutato dal cielo, tra un bombardamento e l’altro. Gallerie in cui cercare un possibile rifugio. Continui spostamenti di moltitudini in movimento da zone dichiarate insicure dall’invasore per arrivare in luoghi altrettanto insicuri. Esodi e controesodi. Bambini aggrappati ai rimasugli di scuola e di una vitale alfabetizzazione. Un bambino con lo zainetto sulle spalle davanti a un cartone posto come lapide sulla sepoltura del suo maestro. La ricerca a mani nude di sopravvissuti sotto le macerie. Cortometraggi come flash che durano dai tre ai sei minuti, vari piccoli film che diventano tessere di un mosaico estremo che avrei voluto vedere integralmente, ma che arrendevole, confesso di aver chiuso gli occhi in alcuni insoportabili momenti.Penso che davvero, purtroppo, chiameranno pace questo deserto solo quando anche l’ultimo palazzo sarà crollato al suolo. Quando i coloni europei nel nuovo mondo che sarebbe diventato l’America combattevano e sterminavano milioni di nativi, erano soliti affermare che l’unico indiano buono era un indiano morto. La storia sembra ripetersi contro i nativi di Palestina. Chissà se nascerà una contro-epopea “eastern” che denuncerà questo massacro. Chissà se questo Groun Zero susciterà tanta indignazione come quello del 2001. Gianni Amelio, non ricordo più a che proposito, affermò una volta che il cinema è la morte al lavoro. Chissà perché m’è tornato in mente.
Leggi l'articolo completo