La zona d’interesse

La sinossi

Auschwitz, 1942-43. Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio, vive con la moglie Hedwig e i suoi cinque figli in una villetta adiacente, isolata da un muro che lascia solo vedere il fumo dei forni e sentire spari e urla. Mentre l’ufficiale progetta l’ampliamento del lager e l’uso più efficiente dello zyklon B con alcuni “tecnici” dell’industria, la moglie prova gli abiti sottratti agli ebrei e organizza il suo giardino di piante e fiori. Tra una gita sul fiume (dove affiorano le ceneri delle vittime) e una festa nella piccola piscina, la vita scorre placida fino a quando il comandante viene richiamato a Oranienburg per un trasferimento già deciso come supervisore dei campi, anche in vista dell’arrivo di ebrei ungheresi da mandare a morte. Rimasto solo nell’edificio austero e inquietante, Höss ha conati di vomito.

Rudolf Hoss

Il richiamo storico

Il film è liberamente basato sull’omonimo romanzo di Martin Amis ma forse ancor più sulle memorie dello stesso Höss, dal titolo Comandante ad Auschwitz. Di famiglia cattolica, il gerarca prestò servizio a Dachau e Sachsenhausen prima di approdare ad Auschwitz, dove approntò i sistemi più rapidi ed efficaci di eliminazione dei prigionieri, depredandoli di molti beni e oggetti preziosi. Catturato dalle forze inglesi al termine del conflitto, non riuscì a suicidarsi col cianuro e fu testimone al processo di Norimberga, durante il quale fece un resoconto preciso della sua “attività” sostenendo di non poter rifiutare gli ordini che venivano direttamente da Himmler. In definitiva le sue memorie, unitamente ai riscontri fotografici, sancirono la sua condanna a morte pronunciata dalla Corte Suprema di Varsavia dopo una detenzione nel carcere di Cracovia. Höss ottenne il sacramento dell’Eucaristia prima di essere impiccato il 16 aprile 1947 davanti al crematorio di Auschwitz. Si era nuovamente convertito al cattolicesimo grazie a un gesuita polacco che lui stesso aveva risparmiato. Tra le sue memorie un’ultima lettera a Klaus, il maggiore dei suoi figli: “Mio caro Klaus (…) Diventa una persona che si lascia guidare soprattutto da un’umanità calda e sensibile. Impara a pensare e giudicare autonomamente. Non accettare acriticamente e come incontestabilmente vero ciò che ti viene rappresentato. Impara dalla mia vita. Il più grave errore è stato credere fedelmente a tutto ciò che veniva “dall’alto” senza osare d’avere il minimo dubbio circa la verità che mi veniva presentata. Cammina attraverso la vita con gli occhi aperti”. Forse in questo epilogo possiamo rintracciare anche il senso della sequenza conclusiva de La zona d’interesse.

Klaus nel film

Un’opera disturbante

Il film di Jonathan Glazer alterna scene sotto un sole abbacinante talvolta macchiato da nuvole di fumo e il buio (iniziale e finale) cupamente sonorizzato o le scene in negativo di una ragazza che depone piccole mele sugli ammassi di terra e cenere lasciati dagli internati. È questa una scelta stilistica che alterna la chiarezza della “banalità del male” all’oscurità del non narrabile, a una speranza invisibile. E se Il figlio di Saul di László Nemes (premio Oscar 2016) risolveva il dilemma con il” fuori fuoco” e il perdurare della soggettiva, qui la soluzione primaria è il “fuori campo” e uno sguardo oggettivo e apparentemente asettico: il male c’è ma non va visto, e se lo si tocca va subito ripulito con acqua e sapone. Nel finale, alcune donne delle pulizie lucidano le vetrine dell’attuale Museo di Auschwitz che racchiude scarpe e valigie degli ebrei uccisi o ripuliscono il forno crematorio meglio conservato: l’orrore è ancora occulto e il visibile è filtrato da uno schermo. Forse ancora oggi siamo tutti colpevoli di vedere la morte da una statica posizione di privilegio, che avvenga a Gaza o nel Donbass, ed è questo il messaggio più attuale e inquietante che questo perfetto e gelido film ci lascia addosso.

Il fiume delle ceneri

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