In occasione dell’inaugurazione della mostra Ritratti di Sciascia presso la Biblioteca Carducci di Città di Castello (30 maggio 2024)
Trascrizione di Elisabetta Chiacchella
Vito Catalano è nipote di Leonardo Sciascia ed è nato a Palermo nel 1979. Oggi è responsabile ricerche ed editoria della Fondazione Sciascia di Racalmuto, curando una collana di testi sciasciani pubblicati in collaborazione con la casa editrice Rubbettino. Ha pubblicato i romanzi L’orma del lupo (Avagliano 2010), La sciabola spezzata (Rubbettino 2013), Il pugnale di Toledo (Avagliano 2016), La notte della colpa (Lisciani Libri 2019), Il conte di Racalmuto(Vallecchi 2021), La figlia dell’avvelenatrice (Vallecchi 2023). Ha pubblicato articoli sui quotidiani Il Messaggero, Il Riformista, La Sicilia. Per alcuni anni ha insegnato scrittura italiana agli studenti della Facoltà di Linguistica Applicata dell’Università di Varsavia.
Paolo: Devo dire, da insegnante di letteratura italiana nella scuola superiore, che sono stato davvero molto contento di essere coinvolto in questa bellissima iniziativa che mi ha consentito di approfondire, attraverso la rilettura di Leonardo Sciascia, un fondamentale autore del Novecento, un “intellettuale”, come è scritto nella locandina, uno che fa, cioè, l’azione di “intelligere” (ebbe a dirlo Sciascia stesso in un’intervista), di comprendere i tempi e gli uomini, il presente e il passato. Da insegnante penso che un autore come Sciascia possa essere proficuamente proposto nelle scuole attraverso la lettura di testi, e non solo quelli più famosi ma anche, ad esempio, alcuni saggi storici; positivo è ad esempio il fatto che nel 2019 sia stato proposto all’Esame di Stato un passo del Giorno della civetta.
Naturalmente io oggi sono qui, come voi del pubblico, soprattutto per ascoltare Vito Catalano che ci illuminerà su vari aspetti relativi al pensiero e all’opera dell’illustre nonno.
Innanzitutto, Vito, vorrei chiederti come e dove è nata questa bellissima mostra e come sono state raccolte le fotografie.
Vito: La fondazione Sciascia possiede le foto già da trent’anni, ma hanno trovato sistemazione da oltre vent’anni presso la ex centrale elettrica di Racalmuto. Sono state un dono dei fotografi (tra gli altri Henri Cartier-Bresson, Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone). Le fotografie conservate alla Fondazione sono parecchie più di quelle in mostra oggi, e i ritratti di Sciascia sono andati più all’estero che in Italia. La mostra è stata esposta ad Amsterdam, Parigi, Belgrado, Colonia, Varsavia, a breve andrà a Skopje; in Italia è stata a Ravenna, Perugia, oggi è a Città di Castello e recentemente si è fatta avanti Randazzo, in Sicilia.
Paolo: Anche alla luce della mostra e delle foto qui presenti in alcune delle quali sei stato immortalato quando eri bambino insieme al nonno, ti chiederei per prima cosa quali sono i ricordi personali più importanti legati al nonno e alla sua memoria che, ovviamente, si sarà tramandata in famiglia; ti chiederei anche quanto ha influenzato la tua attività di scrittore.
Vito: Ho dei ricordi di un nonno molto tradizionale, molto disponibile con i nipoti come con chiunque. Amava narrare episodi divertenti o misteriosi, leggeva a voce alta e con gusto poesie di Trilussa. Certo, non era il tipo di nonno che si metteva a giocare a quattro zampe con noi, ma chiunque poteva andare a parlare con lui quando scriveva, sempre di mattina, nella casa di Racalmuto, e chiunque bussasse veniva ricevuto da lui. Quando mi chiedono se avevo percezione di avere un nonno famoso, io rispondo che sono sempre stato abituato a visite che potevano essere quelle del contadino nostro vicino di casa che gli portava un cestino di prugne o di un uomo politico famoso, oppure quelle di un giornalista straniero che veniva a intervistarlo: così era la nostra quotidianità nelle estati in campagna. Per quel che riguarda la mia attività di scrittore, credo mi abbia influenzato moltissimo il crescere in un mondo di libri e lo scrittore Sciascia ha avuto sicuramente influenza su di me come però altri scrittori letti, riletti e amati.
Paolo: È noto che Sciascia è stato per alcuni anni maestro elementare (per questo si definiva “maestro” soltanto con la m minuscola): in genere si è detto, anche sulla scia di alcune affermazioni di Sciascia stesso, che lo scrittore non amava questo lavoro, che lo aveva scelto per ripiego e lo lasciò non appena possibile. Tuttavia, una studiosa come Barbara Distefano ha rivalutato il ruolo di Sciascia maestro elementare: Sciascia aveva la dolorosa percezione delle difficoltà a incidere sulla società, come maestro elementare, in un contesto molto povero quale era quello della Sicilia rurale tra gli anni ’40 e i ’50 e da qui forse sorse in lui un certo pessimismo; tuttavia, Distefano ritiene che questa attività sia stata molto rilevante per comprendere la formazione dello scrittore. Dunque, Vito, potresti chiarirci l’importanza che per Sciascia ha avuto questa professione?
Vito: Intanto era un maestro buono perché non usava la bacchetta per battere gli alunni quando in molti la usavano, cosa che era non solo permessa ma addirittura a volte sollecitata dagli stessi genitori. Insegnava in un contesto molto difficile e si domandava quanto parlare di poesia fosse opportuno di fronte a dei bambini che non avevano mangiato ed avevano fame. Credo che la scuola sia stata importante per lui soprattutto come punto d’osservazione dell’ambiente che lo circondava, della società. E comunque, quando lo chiamavano maestro, lui rispondeva che era un maestro con la m minuscola.
Paolo: Uno dei grandi temi dell’opera di Sciascia è stato quello della ricerca della verità, tema nel quale è evidente la lezione di un autore come Pirandello il cui relativismo lo ha di certo influenzato particolarmente (tra l’altro ricordiamo che Sciascia ha dedicato alcuni saggi all’opera di Pirandello, segno dell’interesse che aveva per questo grande scrittore suo conterraneo). Dunque Sciascia cercava la verità nei suoi gialli e nei suoi saggi (L’affaire Moro) ma non pare trovarla (o se essa si trova, o almeno si intuisce, non sembra però “vincere”: insomma, i “buoni” vanno per lo più incontro allo smacco se non alla morte); ecco dunque che Sciascia, che di certo ha una formazione illuminista, si rivela però un illuminista sui generis, come del resto aveva intuito Calvino.
Vito: Lui diceva che non era lui ad essere pessimista, bensì è la realtà ad essere pessima. Comunque finché uno scrive, non si può dire che sia pessimista. E di certo non è rinunciatario.
Paolo: Altro tema sciasciano, legato al precedente, è quello del potere (e dei suoi abusi). Peraltro, il rapporto con la ricerca della giustizia e con il potere (tema in cui emerge l’influsso di Manzoni, basti pensare ad esempio alla Storia della colonna infame) in Sciascia non è mai solo un fatto teorico ma è legato costantemente alla difesa della dignità umana: sempre, insieme all’indagine rigorosamente razionale dello scrittore, si avverte la pietas per gli uomini vittime degli abusi del potere, siano essi personaggi del passato come l’eretico Diego La Matina (Morte dell’Inquisitore) o la presunta strega Caterina Medici (La strega e il capitano) fino ad arrivare a fatti di cronaca contemporanea come il caso Tortora.
Vito: Sciascia ha sempre ritenuto l’applicazione del diritto il miglior modo possibile per sconfiggere abusi e ingiustizie. E lo affermava senza tener conto delle atmosfere che si creavano nel Paese. Ad esempio, nel caso Tortora si espose subito dicendo di essere certo dell’innocenza di Tortora in un generale clima di accesi colpevolisti e dove qualcuno timidamente si affacciava a chiedere: “E se Tortora fosse innocente?” Grande attenzione dava al lato umano di ogni vicenda, all’umanità dei personaggi (nello scrivere come nella vita).
Paolo: Come intellettuale controcorrente Sciascia è stato spesso al centro di polemiche, ad esempio sul terrorismo (si pensi all’accusa che gli fu mossa – ingiustamente – di aver coniato lo slogan Né con lo Stato né con le Brigate Rosse) oppure sulla mafia (vedi l’articolo sui “professionisti dell’antimafia”). Sciascia stesso era consapevole di questa sua tendenza a porsi se necessario controcorrente, non per caso in uno dei suoi ultimi interventi scrisse queste parole:
Io ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è.
Alla luce di questo, Vito, ti chiederei per concludere quale lezione ci lascia Sciascia, intellettuale del Novecento, per il futuro.
Vito: Sciascia fu un intellettuale libero, che fece sentire la sua voce contro la mafia e contro il terrorismo così come in singole vicende giudiziarie. Per il suo non tener conto di mode e opportunità venne accusato di rompere i fronti vuoi nel caso della lotta alla mafia o nella lotta per lo sviluppo della Sicilia o nel caso Moro. Ha insegnato a pensare con la propria testa. Ecco la lezione che ci lascia. Pensare con la propria testa davanti alla cappa del conformismo ma anche a quella dell’anticonformismo. E c’è poi la lezione del grande narratore e prosatore.
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