Bianciardi

Ci siamo lasciati alle spalle il 2022 e con esso il centenario della nascita di uno scrittore appartato ma non certo secondario. Il suo destino, nell’anno della ricorrenza, è stato simile a quello di Dino Buzzati con Il deserto dei Tartari: bello, ma prima e meglio di lui c’è stato Kafka. Ebbene, prima e meglio di Bianciardi, c’è stato il centenario della nascita di Pasolini, che in parte ha oscurato le celebrazioni bianciardiane, fiorite soprattutto per diritti di nascita a Grosseto, la provincia amata e respinta che forse non ha perdonato allo scrittore la sua fuga a Milano dopo un matrimonio affrettato e infelice.

Eppure Bianciardi, che certo non ha avuto la statura di intellettuale polimorfo e dirompente di Pier Paolo Pasolini, ha saputo vedere lontano e anticipare quella critica “agra” e divertita (ma non meno tragica) alla società dei consumi che ha fatto dello scrittore “friulano” un gigante del secondo Novecento, ammirato e studiato in tutto il mondo.

La stagione dei cineclub

Luciano Bianciardi (1922-1971) incontra il cinema nel secondo dopoguerra, quando fioriscono i cineclub e i circoli culturali. Professore nella sua città, diventa un organizzatore e un animatore di incontri e dibattiti: le discussioni sul realismo sovietico e sul neorealismo, sul cinema di Machaty o su quello di De Sica sono materia che Bianciardi inserirà nel suo primo romanzo-saggio, Il lavoro culturale (1957), in cui scrive che “l’arte, tutte le arti, tendono alla condizione del cinema” e lo dimostra individuando le dissolvenze in alcuni momenti topici della Commedia dantesca, come lo svanire di Piccarda Donati nel Paradiso. La funzione che lo scrittore assolve nei primi anni Cinquanta, quella di segretario del Cineclub di Grosseto, lo porta a conoscere, durante la riunione annuale della Federazione dei circoli del cinema, la donna che segnerà in modo decisivo le scelte successive di Bianciardi, cioè Maria Jatosti, romana attivissima nei circoli comunisti. Con lei Luciano “fuggirà” a Milano lasciando di fatto la famiglia creata in Toscana.

A Milano il nuovo lavoro, gravido di aspettative, si concentra intorno alla nascita della casa editrice Feltrinelli, che Bianciardi descrive nel suo secondo romanzo-saggio, L’integrazione (1960), una specie di secondo pamphlet sull’universo organizzativo dei “preti rossi”. L’anarchico che è in lui mal sopporta gli orari, il vuoto formalismo e il prospettivismo che diventano la camicia di forza dell’organizzazione del lavoro, per cui lo scrittore finisce per essere di fatto licenziato da Feltrinelli e “relegato” al ruolo di traduttore e giornalista. Arrivano gli anni durissimi, vissuti al fianco di Maria, che verranno raccontati nel terzo romanzo, quello della svolta e, se vogliamo, della re-integrazione di Bianciardi nella società degli “eletti”, La vita agra (1962). Il successo dell’opera è dirompente: l’entusiasmo di Indro Montanelli sul “Corriere della Sera” è contagioso e il libro viene portato in un tour di presentazioni in tutta Italia dall’autore insieme a Domenico Porzio, vice direttore letterario della Rizzoli, la casa editrice che ha pubblicato il fortunatissimo romanzo. Talmente fortunato che piace subito a Ugo Tognazzi e, due anni dopo, La vita agra diventa un film di Carlo Lizzani.

Ugo Tognazzi ne La vita agra. Carlo Lizzani 1964

La vita agra di Carlo Lizzani

L’adattamento di Luciano Vincenzoni, Sergio Amidei e dello stesso Lizzani, oltre a lavorare di sottrazioni e aggiunte (che pescano anche dal precedente romanzo di Bianciardi L’integrazione) introducono tre varianti sostanziali: a) il luogo di provenienza del protagonista Luciano Bianchi, che non è Grosseto ma Guastalla in Emilia; b) l’attività che finirà per “integrare” Luciano, cioè il settore della pubblicità e del marketing; c) il finale, con la ricomposizione della famiglia di origine, che prende posto nella casa milanese, mentre l’amante fugge a Roma. Se le prime due varianti appaiono “naturali” vista la provenienza padana di Ugo Tognazzi nel ruolo di Luciano (a) e l’attacco alla società dei consumi (b), più discutibile è il cambiamento del finale, che dispiacque anche a Giovanna Ralli (l’amante comunista Anna), perché sposta l’asse del film su un totale ritorno alle convenzioni sociali e in fondo finisce per rivelare il suo limite parziale: la resa ai codici borghesi è anche una resa ai codici rappresentativi della commedia maschilista italiana, con varie “strizzatine d’occhio” e “smorfiette strapparisate” (Micciché) sparse nel film. Peraltro, l’opera di Lizzani non è totalmente un’occasione mancata, come la volle vedere la critica del tempo, perché contiene alcuni passaggi riusciti e fedeli allo spirito bianciardiano, nonché una regìa che lascia spazio alla libertà degli attori e agli interventi spiazzanti di Enzo Jannacci, vero amico di Bianciardi, che in ogni caso si sentiva troppo gratificato e troppo buono per intervenire sulla sceneggiatura; gli bastò partecipare ad alcuni momenti della lavorazione, entrare in un’inquadratura insieme a Tognazzi e incassare l’assegno per i diritti. La vita agra aveva risollevato le sue finanze e il suo orgoglio di provinciale emigrato.

Spenti i riflettori sul capolavoro, la vita dello scrittore iniziò una lenta discesa e quando le luci del cinema si riaccesero su una sua opera, lo scrittore aveva un rapporto sempre più stretto con l’alcol e una visibilità culturale più defilata.

Il merlo maschio

Il merlo maschio

Il racconto Il complesso di Loth (1968) offre al regista Pasquale Festa Campanile lo spunto per scrivere e dirigere il film Il merlo maschio, che esce nei cinema italiani nel settembre del 1971. E’ la storia grottesca di Niccolò Vivaldi (Lando Buzzanca), un violoncellista frustrato fin da bambino nelle sue velleità musicali, al punto da sentirsi completamente dimenticato non solo dal direttore d’orchestra ma anche dal suo stesso strumento. Le visite dall’amico neurologo non lo aiutano, finché non scopre il piacere assoluto e la forza creativa nel fotografare le nudità della bella moglie ed esporle alla vista altrui. In un crescendo rossiniano arriverà a mostrare le grazie della consorte, interpretata da una Laura Antonelli destinata a una fulgida carriera, alla prima veronese dell’Aida, finendo in manicomio.

Già in altri racconti e nel suo ultimo, bellissimo romanzo Aprire il fuoco (1969) Bianciardi aveva celebrato la libertà sessuale come riflesso di una liberazione dai poteri politici, economici e religiosi, in una parola come conquista anarchica. E anche se il film si inserisce indubbiamente nel lungo elenco delle operine erotiche degli anni Settanta, mantiene un suo timbro satirico e grottesco non comune: qualcuno, non a torto, ha detto che è

uno dei primi film italiani a testimoniare platealmente la sovversione all’interno della coppia matrimoniale operata dalla frustrazione dell’anonimato sociale. Per un’opera bianciardiana adattata da un regista come Pasquale Festa Campanile ci sembra una lettura corretta, tanto più che la storia è ambientata a Verona, in quel Nord-Est italico molto cattolico e molto produttivo. Anche in questo film lo scrittore viene immortalato in più sequenze, in pratica quasi tutte quelle in cui l’orchestra fa le prove nell’arena di Verona. In giacca chiara o in camicia, Bianciardi ha con sé lo strumento che lo seguì pure nella casa dei suoi ultimi giorni, quel violoncello che era il suo legame con una ipotetica, abortita carriera di musicista. Due mesi dopo l’uscita de Il merlo maschio, lo scrittore muore di cirrosi epatica all’Ospedale San Carlo di Milano. Un furgone con autista, becchino e nessun altro riporterà la salma a Grosseto.

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