Cominciamo dall’ultimo capitolo del libro che è l’unico ambientato ai giorni nostri:

“Noi non vogliamo offrirti un’asettica camera d’albergo, ma un comodo rifugio presso la nostra famiglia, in una casa del XV secolo che, dotata di ogni confort, non ha però rinunciato al suo fascino popolare. (…) Noi non vogliamo che tu, semplicemente, venga a visitare Venezia, ma vorremmo che, tornando a casa, tu possa dire (…) di essere stato per qualche giorno un veneziano autentico”.

Siamo nel Sestiere di Castello, vicino ai giardini della Biennale, e le case sono state trasformate in locazioni turistiche.
Sono le stesse case che all’inizio del Novecento il dott. Raffaele Vivante, direttore dell’ufficio d’igiene del Comune di Venezia, medico batteriologo, definì malsani tuguri.
Confrontiamo la descrizione sopra riportata dello stesso alloggio con quella riferita dal dottor Vivante un secolo prima: “locale a pianterreno: cucina con cesso vicino al focolaio, scarafaggi e topi in quantità, fogna che vi scorre sotto, mandando fetore orribile, stanza umida e bassa” (Il secolo nuovo, Come si vive a Venezia, 23 maggio 1903).
A quanto pare, liberati dagli inquilini che li rendevano malsani, i bassi, i magazzini privi di luce e finestre, i tuguri sono diventati imperdibili occasioni di investimento e sono stati trasformati in un albergo diffuso.
Di questo ci parla il documentatissimo libro dell’urbanista veneziana Paola Somma, Non è città per poveri, Wetlands, 2024, della sistematica cacciata delle classi sociali più povere da Venezia per fare spazio alla cosiddetta “industria del forestiere”, termine coniato dai giornali di Venezia già nei primi del Novecento. Quanto sia sbagliato puntare su un’unica fonte di entrata, su un’attività economica unica e pervasiva, lo ha dimostrato il COVID, che ha messo in ginocchio e gettato nella disperazione la città. Il blocco dei visitatori ha reso Venezia una città fantasma e messo in crisi l’intero sistema commerciale. Anche chi si lamentava del flusso incessante di turisti, si chiedeva: e adesso che facciamo?
Venezia Centro storico e isole aveva nel 1951 175.000 abitanti, la punta massima mai toccata; adesso sono meno di 50.000.
Il libro di Paola Somma ci racconta la storia di questa espulsione delle classi lavoratrici da Venezia, voluta e perseguita da tutti gli amministratori che si sono succeduti alla guida della città ed è una storia fatta di dolore, malattia, sofferenza, suicidi. Venezia ha sempre considerato i più poveri come un fastidio, un inciampo per la lucrosa industria del forestiere e questo libro finalmente mette in luce che prezzo è stato pagato e cosa si nasconde sotto i tappeti degli sfavillanti palazzi che affacciano sul Canal Grande.

“La duplice natura di Venezia, città dei ricchi e (soprattutto) città dei poveri, si esprimeva anche in una partizione geografica della superficie urbana riservata a ciascuna classe sociale. (…) Estromessa dal nocciolo d’oro del benessere cittadino, la popolazione povera era costretta a insediarsi nelle zone più eccentriche, lungo i bordi dove l’insalubrità di molti locali adibiti ad abitazione era drammaticamente aggravata dal sovraffolamento. (…) Le autorità cittadine erano perfettamente a conoscenza della gravità della situazione, e sapevano bene che la miseria e la denutrizione che colpivano gli abitanti di queste aree facilitavano l’insorgere di molte malattie; ma finché ciò rimaneva all’interno dei confini della città dei poveri e non minacciava né interferiva con gli affari dei benestanti, sembravano non preoccuparsene troppo (Somma p. 35)

Questa la situazione di Venezia alla fine dell’Ottocento, i poveri relegati nelle zone periferiche della città, in abitazioni malsane e sovraffollate, facilmente soggette a epidemie di colera e a malattie come tubercolosi, rachitismo, scrofola.

“Le cifre degli operai colpiti erano alte, di parecchio superiori alle medie nazionali, specialmente quelle relative alle donne (…). In particolare, ad ammalarsi e morire erano le sigaraie, e ancora più spesso le operaie del Cotonificio e le infilaperle” (p. 52) che lavoravano presso le proprie abitazioni in ambienti umidi, ristretti e non ventilati.

Partendo dal numero dei morti per tubercolosi, che erano stati in media 309 all’anno, il dottor Raffaele Vivante si recò di persona nelle case dei poveri e mise in evidenza in modo inconfutabile la

“duplice influenza del lavoro esercitato e delle deficienze del luogo ove esso si compie” (Raffaele Vivante, La tubercolosi polmonare a Venezia. Sua diffusione e profilassi, 1904).

Dall’inchiesta del dott. Vivante risultava che, per risolvere il problema dell’alta mortalità delle classi lavoratrici, era necessario eliminare l’insalubrità delle abitazioni costruendo nuove case popolari.

“Le raccomandazioni conclusive dell’indagine furono tuttavia sostanzialmente ignorate dall’amministrazione comunale e dalla stampa a lei vicina, che parlava degli abitanti dei tuguri solo per rendere noti alla cittadinanza i loro comportamenti stravaganti e delittuosi, a causa dei quali era necessario arrestarli o rinchiuderli in manicomio”. (p. 55)

Da parte delle autorità preposte alla soluzione del problema prevale la consueta colpevolizzazione delle vittime per le malattie che le colpivano.
Il presidente dell’Istituto per le case popolari e senatore del Regno Plinio Donatelli nel 1929 dichiarava che bisognava “valorizzare quanto più possibile la qualità degli inquilini. (…) Se la casa viene disertata per l’osteria, se le vetrate restano costantemente chiuse, e se la casa viene trasformata in un immondezzaio poco varrà averla assegnata a chi viveva in un tugurio(Plinio Donatelli, La casa a Venezia nell’opera del suo Istituto, 1928).
Nel 1910 per la prima volta si propone una dislocazione delle classi popolari non più nelle zone periferiche della città, ma in terraferma. È il primo passo che dà l’avvio allo spopolamento di Venezia.

“Venezia era in condizioni specialissime perché vi si trovavano di fronte due industrie, quella del lavoro e quella dei forestieri. E, a proposito della città nuova che sarebbe dovuta sorgere ai Bottenighi, la zona di barene destinata allo sviluppo di Marghera, (il consigliere Bolla) si chiedeva “allora qui faremo una città museo e metteremo una tassa sui visitatori” (p. 75)

Parole che oltre un secolo dopo hanno trovato piena attuazione nell’assurda tassa d’ingresso che viene applicata ai visitatori della città. Venezia non si smentisce mai e continua la sua ostilità verso i poveri: che adesso non sono più le classi lavoratrici residenti, ormai definitivamente esplulse da Venezia, bensì i turisti cosidetti “poveri” che non hanno i mezzi per alloggiare in città e optano per le sistemazioni più economiche in Terraferma. Solo loro il nuovo bersaglio di coloro che amministrano la città.

Paola Somma, Non è città per poveri, Wetlands, Venezia, 2024

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