
La voce del poeta rifugge l’immediatezza, si diffonde in un tempo dilatato, ritorna come un’eco, fluttua a lungo nell’intimo di chi legge e lentamente si posa. La poesia richiede periodi che non siano brevi, ha bisogno di risuonare come una musica ripetuta, così che ad ogni successiva lettura, ad ogni nuovo ascolto, emergano armonie segrete e qualche inatteso bagliore si sveli oltre il senso, il ritmo, la struttura.
Non so poi se questo possa valere sempre e comunque, ma mi è sicuramente accaduto leggendo e rileggendo il recente libro di Luigi Bressan, Quanto un bambino (Pordenonelegge – Samuele Editore, 2025), che ho avuto, grazie alla cortesia dell’autore, l’opportunità di scorrere ancora in bozza. Il titolo è desunto dal verso conclusivo della poesia Migrazioni (p. 65), in cui vengono messe a confronto le vite, non parallele, del pettirosso e del bambino, ma vuole forse più estesamente alludere a un tema che percorre l’intera raccolta: l’oscillazione irredimibile del tempo, che vibra sottotraccia fra smarrimento e trepidazione, fra stupore e coscienza del perduto.
Nel mobile sguardo del poeta si alternano e si sovrappongono offuscate presenze famigliari (La foto, p. 17; Marzio 1952, p. 23) e apparizioni fantasmatiche di figure riaffiorate d’improvviso alla memoria: un «uomo alla fornace» (Inferno, p. 26), una Esterina (p. 26) anch’ella forse minacciata dai suoi vent’anni, due Letizie (p. 35), una appartenente al passato il cui ricordo è innescato da una madeleine che ha le sembianze di una «foglia gialla», l’altra al presente, insieme unite da una comune inflessione di pronuncia. E accanto a questi lontani squarci d’infanzia e di adolescenza, ecco imporsi il tempo odierno, che è quello della vecchiaia irreversibile, dove «non serve cercare tra foto ingiallite / l’immagine del giovane che eri» (Uno di loro, p. 21). Un tempo talora descritto senza infingimenti e rappresentato con lucidità disarmante, come in questi versi: «… le notti dei vecchi / sono sorde, cercano di liberarsi / da affetti malati, frugano cassetti, / dimenticano cosa cercavano / piangono in silenzio a piedi nudi / su impiantiti freddi, nessuno arriverà / nevichi o il sole crepi i marciapiedi» (Fanfare, p. 47). Tuttavia dal confronto tra le diverse età, tra visioni a ritroso e stato attuale, nell’animo di quel puer senex che è il poeta non scaturiscono sentimenti di nostalgia o di rimpianto, ma i due livelli procedono in parallelo e si intrecciano, sospinti entrambi lungo l’inevitabile percorso della vita.
Il libro, così lambito dall’onda del tempo, è articolato in tre sezioni. La prima è intitolata In ascolto: «tendo l’orecchio» dichiara appunto il poeta già nella poesia d’apertura (Greti, p. 11); e subito dopo: «vieni a sentire…» (L’invito, p. 12); e più avanti: «Al buio lungo il muro / duravano le voci / un fremito di foglie» (Buio, p. 25). Sono bisbigli, soffi, frammenti di parole giunte da epoche lontane che si fondono con i flebili rumori di paesaggi reali ma come sospesi, velati, avvolti d’ombra: «Tra greti e magredi il Tagliamento / ha un silenzio gremito di sussurri / e mormorii come il cielo di stelle / e la volta celeste è in ascolto» (Il volo, p. 18). Spesso i paesaggi, quelli che il promeneur solitaire attraversa a passo lento o che magari richiama soltanto alla mente, fanno da sfondo a storie appena accennate, a ritratti sfumati, a minuscole messe in scena: una bicicletta scomparsa e ritrovata, un velivolo ultraleggero che precipita, l’ospite di una casa di riposo, un corpo abbandonato sull’asfalto. Mentre intorno trascorrono le stagioni nel loro sommesso trasalire e dolcemente declinare. E tra i rami degli alberi e i versi, tra i fiori e le parole, ovunque spira, lieve o impetuoso, il vento che accarezza o trascina con sé ogni cosa, impalpabile immagine del tempo che svanisce: «alla finestra seguo gli indizi / del vento e m’accorgo di stare / qui già come tuo ricordo» (Vento alla finestra, p. 19).
Nella seconda sezione, Visite, compaiono ancora momenti di assorta contemplazione di paesaggi svuotati, fugaci apparizioni, incontri fortuiti o mancati, incursioni retrospettive: il ritorno in un’aula scolastica vuota dove «Resto come incantato e mi pare / di udire in lontananza una lezione / d’italiano con parole antiche» (Visita, p. 36); il soccorso dato a un cane randagio in una Notte di Natale (p. 38); i surreali personaggi da circo o da presepe, come in bilico tra memoria e sogno (Epifania, p. 43). E ancora Il sibilo indistinto e indecifrabile (p. 37) che attraversa il consueto mondo circostante e che proietta nell’ossimorica «oscurità del giorno» un riflesso di angoscia e di ironia, un po’ come la goccia del racconto di Buzzati; La lepre (p. 45) sbucata all’improvviso alla luce fioca di un lampione, appena intravista in uno scorcio che è anche un noto rimando letterario, dove «La notte è senza vento, la luna / dietro nuvole spesse»; un’altra reminiscenza leopardiana in apertura a Contagio (p. 48): «Il gallo primordiale ha cantato. / Il canto è disceso dalle montagne / a riscuotere il prezzo, dilaga / in ogni dove con forza di tuono». È come un rendiconto del destino, verso un futuro prossimo e imperscrutabile dinanzi al quale, come in attesa, «gli occhi distinguono appena / lumi traballanti di fiammelle / nell’aria senza terra di domani» (L’ora degli anziani, p. 39), mentre più nulla ormai può ricondurre al passato: «Tu per la nostra memoria / non puoi fare più nulla / né io ritrovare la tua luce» (Chiarori, p. 44).
Ma poi accade che queste pensose rêveries siano d’improvviso spezzate dall’irrompere furioso dell’attualità, dalla realtà più tetra, dall’oltraggio all’innocenza dei bambini orribilmente violata: «Quanti stanno curvi nell’ombra / umida e fredda della terra ingiusta / della mano senz’anima che opprime / quanti… bambini nati a soffrire» (Spreco, p. 52); non senza uno sguardo incredulo e dolente gettato sulla cronaca atroce dei nostri giorni: «Due volontari portarono secchi / per i bambini che stentavano / a mettersi seduti e bevevano / toccando la ciotola e i cani / corsero intorno a un secchio / umido e lo leccavano» (L’acqua, p. 54). Così, infatti, scriveva Mauro Sambi in appendice alla precedente raccolta di Gigi Bressan (Scenari, Carabba, 2024): «Mi pare che il dono più grande di questa tua estrema fase creativa sia la tua capacità di alimentare in chi ti legge un disagio autentico, ineludibile – tuttavia lasciando aperto un varco alla speranza, se non altro nella forma del dolore acuto per esserne ormai quasi del tutto incapaci».
Una forma di speranza sembra forse risiedere nell’ostinato persistere del mondo naturale, quantunque pericolosamente minacciato. La sezione conclusiva è dedicata a Grifoni, caprioli, lucciole, rari esseri umani, dove il mondo animale, puro e incantato ma anche crudele, sembra contrapporsi alla disgregante follia degli uomini. Si tratta soprattutto di uccelli (allodole, gazze, cince, scriccioli, pettirossi, merli e molti altri), in sintonia con uno spirito tutto pascoliano, onomatopee ornitologiche comprese: «Fst-fzz-c» (Pioggia di allodole, p. 57), «tic-ti-tic» (Troglodita, p. 74). E allo stesso modo la poesia di Bressan unisce uomini e animali in un analogo stupore per la vita e in una comune ansia di morte: un guardacaccia che ha in odio i bracconieri e «Dice: quest’anno / faccio una carneficina» (Il sogno, p. 67); bambini (quanto anche loro sanno essere spietati!) che torturano libellule (Ricognizioni, p. 70); un topo preso nella gabbia e, in parallelo, il pensiero «a quanta gente muore / in ogni istante di tutte le età / per le trappole più differenti» (Scatto, p. 78); una cincia «inconsapevole assassina» di un piccolo luì (La difesa, p. 64). Ogni cosa, ogni essere vivente si offre dunque all’attenzione del poeta – e alla nostra – in un inesausto processo di creazione e distruzione, nel circolo inesauribile e cieco di una Forza operosa (p. 72), di foscoliana ascendenza. Eppure, anche nella pacata rassegnazione al proprio essere, nel muto dolore, nel male che imperversa, l’uomo che è il poeta, ancora è in grado di recuperare una speranza residua, una fiamma di momentanea effimera salvezza e «allora ogni cosa nella mente / ritrova il suo tocco di grazia / e tu ripieghi la tua sofferenza / la tua mappa per ritrovarti» (Senza voce, p. 50).
È, questa grazia, il conforto, la risorsa, la remunerazione della poesia, quando, come rivelano gli emblematici versi posti in limine al libro, «In mezzo al bombìo delle api / Sale dal fondo una voce / Nasce nell’aria in forma di canto».
Luigi Bressan, Quanto un bambino, Pordenone-Fanna (PN), Pordenonelegge-Samuele Editore, 2025
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