Gli stereotipi, come noto, sono credenze condivise secondo cui i membri di un particolare gruppo sociale presentano proprie caratteristiche.

Difficili da sradicarsi ancor più nella società odierna dove, non solo la doxa vince sulla episteme, ma anche: “… la censura opera inondando la gente di informazioni irrilevanti… (e) oggi avere potere significa sapere cosa ignorare” (Yuval Noha Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, 2017).

Un eccesso informativo che diviene spesso causa di opacità e di confusione, se non anche uno strumento di negazione di ciò che si desidera pubblicamente accantonare o cancellare.

Sulla mafia, o più propriamente le mafie, molti sono i luoghi comuni e gli stereotipi, la cui esistenza non è facilmente eliminabile proprio per la loro presenza storica nell’immaginario popolare e culturale, rinforzato anche dai media non sempre in modo attento, scrupoloso e critico.

Alcuni esempi:

“la Mafia non esiste”: il maxiprocesso del 1986 per la prima volta conferma l’esistenza della mafia dopo gli attentati eccellenti in cui persero la vita Pio La Torre e poi il Prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa.

La loro morte accelera la decisione di introdurre nel nostro Codice penale l’art. 416 bis che prevede il reato di “associazione a delinquere di stampo mafioso”, norma che ha permesso il Maxiprocesso contro Cosa Nostra e di perseguire ogni forma di associazione di questo tipo.

“la vecchia mafia non uccide donne e bambini, poiché i mafiosi sono uomini d’ onore”: i dati censiti in tal senso evidenziano, dalla seconda metà del XIX secolo ad oggi, 119 donne e 108 bambine e bambini vittime di mafia:

Emanuele Attardi, undicenne, la sera dell’8 novembre 1874 passeggiava con il padre, cancelliere della Pretura di Bagheria, il quale aveva contribuito all’arresto di un mafioso; quella sera un colpo di fucile indirizzato al padre colpì Emanuele uccidendolo;

Emanuela Sansone, di 17 anni, venne ammazzata il 27 dicembre 1896, poiché la mafia sospettava che avesse denunciato i picciotti falsari;

Santa, Domenico, Giovanni, Maria Rogolino, rispettivamente di 13, 8, 6, 5 anni e Francesca di soli 5 mesi, il 4 settembre 1910 vengono massacrati a colpi di mannaia nel loro casolare nei pressi di Pellaro, oggi quartiere di Reggio Calabria, nel primo massacro documentato eseguito da ‘ndranghetisti;

Giuseppe Bruno, di 18 mesi, l’11 settembre 1974 viene ucciso in un agguato di una cosca di Seminara rivale del padre Alfonso;

Caterina e Nadia Nencioni, rispettivamente di 53 giorni e di 8 anni, il 27 maggio 1993 muoiono nella esplosione della bomba in Via dei Georgofili a Firenze;

Emanuela Setti Carraro, di 32 anni, moglie del prefetto Dalla Chiesa, viene assassinata assieme al marito, il 3 settembre 1982 a Palermo;

Francesca Morvillo, di 47 anni, moglie del giudice Falcone, viene uccisa nella strage di Capaci il 23 maggio 1992.

Lea Garofalo, di 35 anni, vedova, sorella e compagna di narcotrafficanti decide di collaborare con la giustizia e viene rapita e uccisa il 24 novembre 2009.

Di queste morti ne dà testimonianza e ne approfondisce la storia Bruno Palermo, nel suo libro Al posto sbagliato: storie di bambini vittime di mafia, Rubbettino, 2016, scardinando il falso mito della onorabilità mafiosa, che è, in realtà, esclusivamente sopraffazione e violenza.

L’ autore scrive che non esiste un posto o un momento sbagliato per i/le giovani e, in generale, per le vittime della criminalità e della altrui violenza, perché al posto sbagliato ci sono sempre gli assassini e i mafiosi.

Quindi la violenza della mafia pone in crisi gli stereotipi stessi, divenendo un effetto inatteso   contro l’immagine mafiosa.

Oggi la criminalità organizzata non ricorre alla violenza, se non in casi estremi, operando come una multinazionale del crimine che offre sul mercato servizi illeciti di cui imprenditori o privati dediti al vizio si servono per le loro convenienze economiche e ludiche.

In questo contesto, è difficile avere una immagine che esemplifichi iconicamente che cosa è la mafia e ciò rende più complessa all’immaginario collettivo la sua visibilità, il suo riconoscimento, facilitandone una sottovalutazione politica e mediatica, ingenua o voluta.

Quando manca l’elemento aggressivo diretto, omicida o stragista, parrebbe aver più vigore lo stereotipo in esame, ma anche in tempi di quiete la tempesta mafiosa agisce continuamente, di nascosto, ma con inaudita ferocia.

Infatti, la tratta dei minori destinati a un mercato della prostituzione per pedofili e agli appassionati di pedo-pornografia è una delle nuove frontiere in cui si cimentano le mafie cinesi, europee dell’est e le bande criminali africane.

Bambini/e nei campi profughi asiatici, africani o nelle strade delle metropoli vengono sequestrati per essere venduti in questo mercato internazionale dell’orrore.

I bambini e le donne, diversamente dalla droga e dalle armi, sono vendibili più volte, quindi ottimi moltiplicatori di guadagno.

La Pedo-connection è il nuovo marchio criminale in Italia, gestito dalla ‘ndrangheta tramite il Dark Web, l’Internet delle cosche e della criminalità, le cui vittime sono abusate nei modi più orrendi.

Rimangono invece attivi alcuni luoghi comuni nel gergo giornalistico, politico e d’uso corrente, che andrebbero analizzati con più attenzione.

I luoghi comuni, infatti, sono idee generali, valori e giudizi basati su credenze più o meno errate, “sono anche arma del potere che, ripetendo sfacciatamente certi temi, contribuisce a imprimere idee, valori, alibi che nella mente del pubblico (funzionano…) come una vera e propria natura mentale” (R. Barthes, Luogo comune, Enciclopedia Einaudi, p. 582).

Per esempio, parlare di recrudescenza ad ogni omicidio di mafia o usare la parola emergenza per fatti criminosi in aumento, può far pensare che esista la mafia solamente quando uccide e spara e che tra un omicidio e l’altro sta ferma, quando, in realtà, le organizzazioni criminali operano continuamente in modo occulto e non visibile.

Usare la locuzione vittime innocenti propone una lettura delle vittime quasi come si trattasse di non addetti ai lavori, come se uccidere gli addetti (magistrati, poliziotti, giornalisti) sia cosa giusta, poiché colpevoli di fare il loro lavoro e di accettarne i rischi.

La metafora della mafiaPiovra, introdotta da una serie Televisiva degli anni ’80 del secolo scorso, propone una immagine totalizzante della mafia stessa, così come pensare a una mafiacancro, induce a considerarla una cellula estranea alla società, quando, in realtà, vive con e in essa.

Don Ciotti, nella prefazione al libro di B. Palermo, Al posto sbagliato, scrive: “Ci servono parole autentiche, misurate ma ferme, inequivocabili, capaci di mordere le coscienze e di esprimere a un tempo, il dolore, la compassione, la condanna, ma anche la speranza…”

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