Piazza San Francesco, Perugia. Foto di Giancarlo Belfiore. Anni ’70.

C’è chi di una piazza vede le pietre, i bassorilievi, i tesori custoditi nella chiesa che sorge lì, meravigliosamente policroma e quattrocentesca. C’è chi di una piazza ricorda l’esproprio di altri tesori pittorici, ivi presenti in un lontano passato. C’è chi di una piazza racconta le faide locali, l’asprezza di rivalità territoriali, tutte giocate sulla potenza, mai veramente elaborate né lasciate indietro. Uno spiazzo aspro, scoraggiante, abbandonato al primato del sarcasmo di chi guarda.

In tutto questo, gli esseri umani sono solo un accidente del tempo, figurano in quello spazio come ombre che l’hanno attraversato inutilmente, sedendosi a coppie su una panchina per un bacio previsto dal copione. Invece in quel prato pieno di zolle rovesciate per i troppi calci dati ad una palla, in quel prato verde nascevano speranze. Sentimenti. Che di solito le pietre non hanno.

Figlie e figli nati dall’euforia postbellica popolavano piazza San Francesco negli anni che vanno dalla fine dei sessanta agli ottanta del novecento con i primi motorini smarmittati e truccati, le vespine nuove fiammanti o semplicemente con la gioia tranquilla di stare lì a guardare. Un dente di leone raccolto e soffiato addosso a un’amichetta, una verde spiga pelosa appiccicata su una spalla, lanciata da qualcuno per dispetto o solo per ridere.

Piazza San Francesco è stata un laboratorio all’aperto che cresceva dal basso. La generazione più fortunata del novecento sciamava lì in tutte le ore di luce, fra saline mattutine concordate per non andare a scuola e inesausti pomeriggi spesi in compagnia di un pallone da calciare. Pallone che finiva sempre oltre il muro di cinta di una casa, quella coi cipressi. Scampanellii continui per riaverlo indietro, finestre che si aprivano, sgridate generali per il continuo disturbo, ma poi che fai, non glielo rendi? E così dall’interno del giardino, con un manico di scopa, si recuperava il pallone rimasto impigliato nel pergolato di glicine per rilanciarlo nella mischia. E da lì a un minuto, eravamo daccapo.

Poi sul muro esterno delle case, dove fino al giorno prima le ragazzine giocavano con abilità ai dieci fratelli, spuntò un cesto da pallacanestro fissato a un’altezza di circa tre metri da terra, e l’asfalto lì davanti diventò un playground. L’aveva fatto montare una mamma per far migliorare il tiro al proprio figlio cestista. Subito lo popolarono tutti i maschi. Rimbalzi schermaglie prese in giro parolacce bestemmie: urli che non preoccupavano nessuno. Un micromondo in cui anche noi piccole donne ci facevamo le ossa, capendo equilibri e alleanze, vivendo rossori, soffrendo esclusioni. Soprattutto si era in compagnia e in movimento, scattanti o goffi non importa, e ognuno elaborava poi il suo mondo in solitaria, coi suoi filtri.

In estate soffiava il vento di Umbria jazz. I prati antistanti la chiesa diventarono un campeggio non autorizzato e i bagni chimici non erano ancora arrivati. Così il muro della casa del canestro, al civico tre, diventava il grande orinatoio, nemmeno con la privacy di un vespasiano, e l’estate restituiva potenziati i miasmi vari che da lì salivano. Allora si interveniva dalla casa, prima con sgridate di tono più alto rispetto a quello per i calciatori, ma poi che fai, non pulisci? Con secchiate abbondanti di acido muriatico e candeggina ogni giorno si sanava, e magari per i campeggiatori ci scappava pure qualche sigaretta lanciata dalla finestra o qualcosa da mangiare. Le chitarre e le percussioni suonate dai gruppetti sui sacchi a pelo facevano pigramente la giornata, nella generale sonnolenza. Il prato quasi fosse una Woodstock casareccia in attesa dei concerti gratuiti della sera, nei diversi punti della città.

Già, la città. La città la sentivi tua. Era piena di persone, anche arrivate in autostop con quattro soldi. Musicisti di strada, che magari venivano da lontano o da vicino, e nemmeno per un momento pensavi che quegli spazi fossero interdetti a qualcuno: la bellezza confezionata del “guardare ma non toccare” non era ancora entrata in vigore.

Quella piazza aperta ingrandiva il cielo, che non era sfessurato fra le altezze dei palazzi, e lo rimbalzava nel verde giallo del prato. Oggi a Piazza San Francesco tutto è in ordine, le finestre delle case lasciano vedere persone che scivolano da una stanza all’altra nella luce elettrica della sera, le macchine sono parcheggiate composte sull’asfalto, l’Accademia è stata stabilizzata con interventi di consolidamento, l’Auditorium è intelligentemente recuperato e dato alla città per i suoi concerti.

Si sa, la nostalgia è gaglioffa. La città è diversa, adesso il playground esiste più grande e col doppio canestro in Piazza Fortebraccio, autorizzato dal Comune. I ragazzi ci giocano, il cielo si vede poco.

In piazza San Francesco sorge ancora la chiesa meravigliosamente policroma e quattrocentesca. Le pietre sono ancora stabilmente lì, come il prato. Quando capita di passarci e di vederla semivuota, quasi intoccabile nella sua bellezza incartata col cellophane, pronta per l’ammirazione degli agiati turisti di breve passaggio, il cuore si stringe nel rimpianto di non avere l’emozione per correre incontro a quello spazio, ma poi che fai, solo per questo smetti di volerle bene?

  1. Avatar Stefania Tarantino
    Stefania Tarantino

    Betty mi hai riportata indietro nel tempo! Grazie ♥️ Nei nostri ricordi c’è una vita intera e le tue parole descrivono bene la spensieratezza della nostra gioventù

    1. Avatar Elisabetta
      Elisabetta

      Grazie Stefy, e soprattutto la piazza meritava questo amore, ci volevano delle parole di riconoscenza e quella foto

  2. Avatar beatrice trenti
    beatrice trenti

    Pensavo a questo intervento ieri, costretta a piedi per la mia cittĂ . Immediata periferia. Palazzi nuovi o rimessi a lucido, piazzette di piccolo medio largo respiro, verdi spazi d’erba ben tenuta, con sapienti cespugli di colori intonati, attraversati da non invadenti vialetti puliti… cercavo una panchina per godere di quel prezioso ordinato promettente spazio di serenitĂ . Nessuna. La poca gente che passava, camminava in fretta, forse per arrivare in qualche posto – chissĂ , un bar – dove potersi fermare, magari trovare qualcuno con cui scambiare due parole. Guardandomi intorno, allora ho sentito che la sensazione piĂą forte non era la tranquillitĂ , ma la solitudine. E non quella del profondo pensare, ma quella dell’isolamento. Come in quei quadri di paesaggi dove non c’è nessuno, e neanche è gradito l’occhio di chi guarda, che potrebbe spettinare un ordine escludente. La mia cittĂ  si vanta di avere tanto verde. E meravigliose piazze storiche ordinate, pulite, senza panchine. Pochi passanti, nessuno si sognerebbe di discutere di qualcosa all’aperto nel verde o tra monumenti. Mi viene in mente un romanzo di Asimov dove la gente non riusciva piĂą a camminare all’aperto. CittĂ  a misura di isolamento, solitudine. Ogni tanto qualche grave questione ci porta ancora a sventolare cartelli per gli spazi della cittĂ , a dire forte delle cose insieme, ma è roba da poco, che finisce subito, non si resta fino a sera inoltrata a discutere, confrontarsi, confessarsi, confidarsi…Eppure, ce l’hanno insegnato a scuola, la cittĂ  è prima di tutto segno di una comunitĂ …

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarĂ  pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *