
Referendum giustizia, Regionali di Marche Calabria Toscana: chi più chi meno, secondo la categoria della votazione, il numero degli elettori che si astengono aumenta sempre, non si ferma mai. Qualcosa deve pur significare al di là della generica motivazione che se ne dà: disaffezione, sfiducia, distacco; quando più duramente non si arrivi ad accuse di disimpegno, di irresponsabilità, di colpevole indifferenza. Anch’io sono tra chi ha sempre tuonato contro gli astenuti: un dovere sacrosanto, se i nonni maschi, da analfabeti, avevano imparato a fare almeno la firma per poter votare, e poi, finché era stato possibile, anche a rischio di botte fasciste, erano andati a mettere la loro brava croce. E se le nonne femmine, e le loro figlie, mia madre, le zie, io le ricordo come erano emozionate per andare ai loro primi seggi: si vestivano da festa, il rossetto, la cipria, la borsetta bella coi documenti. Era anche l’occasione per incontrarsi con conoscenti, amici, parenti, aspettare insieme i risultati, commentare, sperare, progettare. Era un onore essere chiamati a fare i rappresentanti di lista, gli scrutatori, anche i presidenti di seggio qualche volta. Oggi, però, non è certo tempo di rimpianti e continuare a ‘rimproverare’ e basta non è più né utile né tantomeno sufficiente. L’astensione non è più – come si diceva – ‘un partito’. È spesso la metà, più o meno, degli elettori. E non solo da noi. È un fenomeno globale, là dove si vota, più o meno democraticamente, liberamente. Bisogna cominciare a pensarci attorno seriamente. Non perché il problema non sia stato discusso da esperti, politici, gente comune, ma perché, mi sembra, troppo timidamente lo si è affrontato, con la volontà di ‘mettere le pezze’, piuttosto che con il bisogno di pensare l’impensato e immaginare il nuovo e strizzarsi il cervello con prospettive future diverse. E perché, invece di proporre alla gente un atteggiamento critico ma in senso propositivo della situazione, la gente, la si è messa sempre più in disparte, lontana dai luoghi dell’incontro e della discussione, ormai oggi del tutto evaporati o resi desueti, inutili, dinosaurici. Non che io creda che nei circoli, nelle ‘sale di cultura’, nelle sezioni partitiche, negli oratori, nei comitati di quartiere si facessero le decisioni che poi amministravano il sociale. Erano però luoghi di discussione, di incontro, di scambio anche arrabbiato di idee, luoghi dove potere tastare il polso della realtà. Oggi non potrebbero comunque svolgere più nessuna funzione, tanto è cambiato il mondo. Ma il problema è che niente è stato proposto provato al loro posto. Il vuoto, il niente. Si sono moltiplicate in compenso le reti televisive. Potenzialmente mezzi popolari per diffondere cultura e informazione. E partecipazione: esempi del possibile non mancano, si veda Radio3, Prima Pagina. Macché. Solo pubblicità e pubblicità, che per i nuovi bimbi è più consueta e normale delle favole, e programmi demenziali, all’insegna della banalità dei messaggi, della santificazione del puro apparire, della competizione, deIl’affidamento agli oroscopi e alla ‘fortuna’ da lotteria. E la nostra tv nazionale, che eppure, ci dicono i sociologi, ha trasformato il paese, gli ha dato una lingua popolare comune, abitudini d’igiene, alfabetismo e cultura di base, sempre più svuotata, fino ai livelli attuali, quando per poter vedere anche solo uno sceneggiato minimamente decente devi pagare una piattaforma privata: ah!, ma ricordate quando in tv si vedeva l’Ulisse di Rossi? In macerie il pubblico e avanti il privato (anche se di qualità appena sufficiente): sta accadendo pure nella sanità e presto anche nella scuola. I social, mi si dirà allora, sono la vera novità, il progresso della comunicazione, la ‘realtà’ di oggi. Vero. Peccato, però che siano venuti avanti come grandi baracconi anarchici, in apparenza, dove di tutto e di più si può fare, disfare, osare ecc., ma in realtà gestiti, manipolati, finalizzati da pochi individui, tantissimo potenti, quanto, spesso, pericolosi. Inoltre è terribile che tante corrette espressioni sociali (certo, anche partiti, partiti democratici) del passato non abbiano neanche provato ad ‘entrare’ in questi nuovi mezzi di comunicazione, esiliandosi ai margini del rapporto con la gente.
La nostra cara, importante, Democrazia sta mostrando gravi segni di inadeguatezza rispetto ad un presente che si è messo a mutare con una velocità esponenziale, epocale, in tutti i settori, soprattutto quelli che cambiano addirittura il modo di esistere della gente, di conoscere e percepire il mondo, la realtà, di giudicare, discriminare secondo valori millenari – e, se non millenari, basilari per l’evoluzione etica dell’umanità. Pensiamo solo a trenta anni fa, quando non c’erano i telefonini e un po’ più indietro quando i pc erano scatoloni immensi, con schermi da video-tv, e quasi nessuno ne aveva uno tra le mura domestiche. Oggi si affaccia addirittura l’Intelligenza Artificiale, con prospettive da fantascienza horror o solare, e le nostre società registrano un’inarrestabile diminuzione della partecipazione politica, della diffusione dei giornali, della lettura di libri, dell’istruzione, della cultura in genere – e forse addirittura dell’intelligenza, perché i nuovi sistemi di comunicazione pare limitino anche fisicamente le capacità cerebrali – quella cultura, anche minima, ma necessaria a penetrare una scrittura, una situazione, una problematica più complessa, ad affrontare criticamente quanto viene proposto come vero, come sicuramente giusto, come necessario: dalla politica alla pubblicità; dalle informazioni ‘scientifiche’ alla conoscenza storica; dall’incontro con gli ‘altri’ alle radici di un qualche ‘noi’. Mi sgomenta soprattutto che il ‘relativismo’ circa la possibilità della conoscenza – sì, già affrontato dalla filosofia , e non solo, del secolo scorso, ma certo in modo molto problematico e tutto sommato aperto – oggi sia divenuto, a livello davvero ‘volgare’ – cioè dogmatico, cioè veicolato in modi occulti, cioè gestito da strettissime minoranze – l’inutilità dell’impegno critico, dato che la verità è mobile come la donna dongiovannesca, di fatto medesima della menzogna – questa, oggi, frequentata come la più limpida delle attività razionali. Basta dire: non è vero o non siamo stati noi e scompare la responsabilità per centomila uccisi, scompaiono le fotografatissime macerie, anzi si tramutano in applausi e commozioni e proposte di nobel per i peacemaker, i ‘portatori di pace’. La forbice tra i pochi ricchissimi e i molti poverissimi si allarga. E ovunque si confermano al potere gli autocrati di vario tipo e destre estreme avanzano nelle elezioni. C’è da chiedersi se proprio questa non sia la scelta, indiretta e inconsapevole fin che si vuole, di chi non va a votare. Spesso nei grandi momenti di crisi, come quella del ’29, la gente spaventata ha delegato tutto al potere assoluto di uno solo: Hitler, in Germania. Eppure grandi manifestazioni di gente in piazza ci sono state, ci sono adesso: da noi i girotondi, le ‘se non ora quando’, le sardine, i propal, ecc. ecc.. E tante tante forme di attivissimo volontariato che un po’ suppliscono alle assenze dello stato. Tutta gente che, per lo più, non va a votare. Che dopo un po’ si sfalda, si sperde, non incide politicamente perché non ha rappresentanti né organizzazione e non crede più alle presenti istituzioni e non vuole essere amministrata alla vecchia maniera. Se si guarda all’esperienza del ‘movimento’ Cinque stelle, si vede un fenomeno parecchio significativo. Nato da alcuni gridi – urla – di protesta, aggregatosi con un nuovo mezzo di comunicazione – internet – tanto veloce quanto potenzialmente caotico (nel senso di aggregare malcontento di opposte radici), ha incontrato i più grossi problemi nell’organizzazione: rifiutando le forme tradizionali, incontrava difficoltà nel darsi regole, nel controllare le intenzioni vere degli emergenti, nell’ubbidire e insieme tenere a bada, guarda caso, il ‘padrone’, e i suoi amici, del ‘sistema’ informatico che li associava. Con tanto di rivolta interna, estromissione grillina e tendenza a farsi, adesso, partito come gli altri. E non sto compiacendomi di questo. Mi sembra solo necessario ricavarne indicazioni. Come che la gente si scuote, si affaccia, si muove ancora, ma per vie del tutto diverse che ancora non sappiamo come far divenire partecipazione duratura. La struttura è vecchia, la struttura, non i valori. Cambiare, innovare è difficilissimo. E pericoloso. Non dimentichiamo che tra la Rivoluzione francese e i primi governi costituzionali passò Napoleone, tanto innovatore borghese dello stato quanto tiranno guerrafondaio. Non sto prevedendo una necessaria fase di tirannide, ci mancherebbe – con questo po’ po’ di illuminati autocrati che negano la crisi ecologica, chiamano “lavoro” il genocidio di un popolo, si dichiarano intenti a ‘difendersi’ da minacce misteriose, violando e distruggendo terre al confine, nonché lanciando miliardi di aeroplanini telecomandati con potenti bombe su ignare nazioni altrui. Né sto rassegnandomi al peggio, in mancanza di alternative.
Qualcosa di infinitamente piccolo, quasi senza possibilità di incidere, forse proprio imbelle, già tante volte indicato, ce l’ho da proporre.
Mi sento di sposare appieno l’appello – lo era?, credo di sì – di Scurati su Repubblica: anche se in minoranza, mantenere alto il valore di una cultura complessa, critica, ‘scomoda’, baluardo contro la semplificazione da Fahrenheit del nostro presente. Come intellettuali e studiosi d’ogni settore, impegnarsi a vigilare contro ogni forma di disastro globale, da quello ecologico a quello autocratico, nonché a pensare l’impensato, il possibile futuro, l’utopia. Non dimentichiamo quanto fece l’illuminismo per il grande cambiamento politico e sociale. La cultura è necessaria come il pane e l’acqua. Tutto questo senza separarsi dalla gente. Che, se non si può raggiungere con i grandi media, per impedimenti politici o oggettivi, si può provare a incontrare di nuovo come un tempo, capillarmente, in piccoli volenterosi gruppi di attività, di pensiero, di discussione, di solidarietà.
La cultura critica è la vera assente. Non è mai stata troppo presente, diffusa, anche in passato; è difficile guardare, sentire, ascoltare continuamente col grimaldello che scardina certezze. Eppure tutti i grandi cambiamenti verso un nuovo mondo sono passati su cadaveri di verità assolute: il geocentrismo cosmico, lo schiavismo, la propulsione animale, il razzismo naturale, ecc.; sono passati anche e soprattutto attraverso uomini che hanno pensato diversamente; certo, sollecitati da situazioni sociali, economiche, politiche in oggettiva evoluzione, in oggettiva necessità di ridefinizione. Be’, certo oggi, con un mondo al collasso per ragioni climatiche, per un’economia pre-potente e anarchica che nientifica le vecchie istituzioni politiche democratiche, per l’assenza di fedi, utopie, prospettive di ‘progresso’ (certo! ideologiche, ma proiettate al futuro e suscettibili di discussione, di confronto, di pensiero critico), valori condivisi, se si escludono il denaro, il successo dell’apparire nel ‘comunque’, la forza della sopraffazione; ebbene oggi non mancano i disastri che gridano al cambiamento. Da qualche parte ci saranno ancora cervelli che pensano – o provano a pensare – alla maniera di Einstein, di Galilei, di Marx, di Fleming, di Heisenberg, di Gandhi, di Dante! Quando si sentono certe motivazioni per le assegnazioni dei vari Nobel, si rimane sbalorditi: quante novissime proposte per l’umanità, quante frecce scoccate… Ma di più, quando nel microcosmo sociale, qua e là per il mondo, per la nazione, si viene a sapere di un’economia finanziaria socialmente alternativa, di una maniera di coltivare che non sottrae risorse e rispetta la terra, di situazioni problematiche prese in carico e risolte da alcune persone che hanno fatto comunità, di soldati che hanno detto ‘no’ a ordini di guerra massacratòri, ecc.; si rimane felicemente colpiti: ma allora il diverso, l’alternativa può esistere! Ma allora? Che ci sia un problema di lenti, di occhiali, di miopie… no, di cecità irriducibili? Perché di fronte ai tanti problemi che affliggono la scuola, la sanità, il lavoro, il comportamento dei giovani, perché non si scende dagli scranni parlamentari, partitici, istituzionali, per ascoltare la gente comune, gli operatori dei settori, e, certo, anche i bravi solitari innovatori, nonché i pensatori propositori di possibilità, gli esperti autentici… Sento resistenze da ancien ancien – proprio vecchio – regime, da favoletta, proprio come le ‘brioches’ che la Regina Antonietta proponeva di gettare al popolo in sollevazione per il pane mancante. Tutti questi nazionalismi fasulli, superatismi, auto-crazie, se fanno paura per la follia del nulla in cui prospettano il futuro, del genere apres moi le deluge (‘dopo di me il diluvio’, pare riferibile a Luigi XV), per il costante pericolo bellico – anche nucleare –, per l’arroganza delle discriminazioni verso i più deboli, mi pare siano anche il segno di una inadeguatezza, fiacchezza delle attuali istituzioni politiche di fronte al loro fanatico proporsi, di fronte al disastro globale.
Boicottiamo. Nelle sale d’attesa, portiamoci un libro e leggiamo invece di fissare istupiditi TUTTI, appena seduti, il cellulare. Se anche non ci darà vero gradimento, sarà però un segno politico (io lo vedo come mi guardano dal dottore o in autobus, quando tiro fuori un libro di poesie: un’aliena, ma che attira l’attenzione e forse fa pensare). Se sentiamo dire assurdità o banalità o cattiverie gratuite dal fornaio, con le buone maniere, proviamo a introdurre elementi di riflessione critica. Se partecipiamo a qualche assemblea pubblica e ci sembra di avere qualcosa da dire, alziamoci e diciamo. Se ci fanno prepotenze, nei limiti del buon possibile, non arrendiamoci al subire. Se qualcuno attacca discorso, non facciamo gli scontrosi, incanaliamo in modo proficuo lo scambio pensatorio. Invece di un caffè, qualche volta compriamo un giornale e mettiamoci a leggerlo in pubblico, bell’aperto su una faccia goduriosa. Insomma, facciamo come se fossero importanti le nostre persone e i nostri pensieri. E, giusto!, pensiamo!
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