I frammenti del racconto di Rosy sono tratti da una registrazione che le ho chiesto di permettermi. Mi sono recata nella sua casa con Anna e Iris, due sue figlie di cui sono amica. L’ho conosciuta ad Asmara nel dicembre del 1995: le portavo notizie dei figli che vivevano nel mio paese e che lei stava facendo arrivare uno ad uno per salvarli dalla chiamata alle armi e dall’incerto futuro in Eritrea. Lì il peso della dittatura si faceva di giorno in giorno più tragico.
Figlia di un italiano, arrivato nel corno d’Africa nel 1936, e di madre amarica, Rosy, nata a Massaua nel 1949, viene “adottata”, dopo che il padre naturale ritorna in Italia, da un altro italiano. Questi, già titolare di una numerosa famiglia in Italia, come il primo del resto, con sette figli nati qui prima della guerra coloniale, la fa crescere con affetto e dedizione e avrà ancora quattro figli meticci tra il 1951 e il 1964, in Eritrea.
Rosy si sposa, all’età di 16 anni, con Giovanni, nato da una giovane eritrea che sostituiva la sorella, come domestica, nella casa di un facoltoso ingegnere. Questi la lasciava incinta e lei moriva nel dare alla luce il bambino, Giovanni, che subito veniva portato in un orfanotrofio ad Asmara e cresceva tra un collegio e l’altro come figlio di nn, portando lo stigma di “San Giuseppe”, dal nome di uno di questi orfanotrofi, noti a tutti per essere affollati di figli di nessuno.
Rosy parla molto bene italiano, come tutti i meticci eritrei; ha frequentato la scuola italiana di Asmara e l’ha fatta frequentare ai suoi figli con l’idea che l’Italia potesse essere una meta a cui pervenire preparati un giorno, uscendo dai pericoli di uno stato di dittatura con i retaggi di un passato coloniale carico d’ombre.

A pag. 81 della guida Africa Orientale Italiana, pubblicata nel 1938 dalla Consociazione Turistica Italiana, dopo le Avvertenza e informazioni generali, dopo accurate notizie su clima, fauna, flora, geografia, storia, … al paragrafo Demografia ed etnografia, si legge:

Gl’Italiani, con il loro carattere umanissimo e con l’istintiva penetrazione psicologica, hanno già stabilito un equilibrio nei rapporti con gli indigeni: non altezzosità e separazione assoluta, ma superiorità e comprensione. Occorre trattare con giustizia e bontà, ma senza debolezza; saper diffidare è buona regola; troppa familiarità è fuori luogo.
Gli Eritrei e i Somali sono orgogliosi di appartenere da gran tempo all’Italia e di aver contribuito alla conquista dell’Impero: ascari e dubat godono di grande prestigio in tutta l’A.O.I. Essi si considerano, di fronte agli abissini, quasi pari agl’Italiani e loro naturali collaboratori. Di questo spirito e dei loro meriti, riconosciuti solennemente dal Governo Fascista, è doveroso tener conto nel trattare con loro; scambiarli per etiopici sarebbe grave offesa e ingiustizia.
Sono noti i provvedimenti presi dal Governo Fascista per la difesa della razza e per evitare la formazione di un deprecabile meticciato.

Nel 1938 vengono emanate le leggi razziali antiebraiche, ma ben prima, nei territori africani lo scontro bellico è inteso come scontro di civiltà tra un popolo evoluto e moderno contro un popolo primitivo e barbaro e, dalla parte colonizzatrice, mentre si attua lo scontro di civiltà, si afferma l’esportazione del modello di civiltà superiore.
Liberare i popoli del Corno d’Africa dalla schiavitù e conquistare le bellezze esotiche dai facili costumi (spesso bambine/ragazzine vendute da famiglie in miseria) sono motivi dominanti della propaganda dei governi dell’Italia liberale per attirare gente dai territori nazionali depressi verso l’Africa.
Dall’acquisto della baia di Assab, nel 1882, la presenza italiana si allargò alla città portuale di Massaua e, via via, all’entroterra che costituisce il territorio dell’attuale Eritrea. Il tentativo di entrare in Etiopia venne fermato all’Amba Alagi nel 1895 (lo stesso luogo che vide la sconfitta del regio esercito italiano da parte delle truppe britanniche nel 1941) e nel 1896 la sconfitta di Adua, nel Tigrè etiope, a un passo da Axum, fermò per lungo tempo le ambizioni coloniali italiane.
In Eritrea permangono modi e costumi italiani, la lingua è diffusamente parlata e le architetture moderniste volute dai governi coloniali hanno permesso ad Asmara di entrare nel patrimonio mondiale dell’Unesco.
L’Eritrea, colonia primogenita, doveva garantire il benessere dei coloni italiani. La presenza maschile era di gran lunga superiore a quella femminile perché pochi, soltanto le famiglie molto benestanti o di alto rango, potevano arrivare in Africa al completo. Molti viceversa erano gli uomini che, soli, tentavano la fortuna con attività che mettessero in risalto il prestigio e la superiorità italiani. A questi era concessa la pratica del concubinato, o “madamato”: giovanissime donne eritree assumevano servizio con funzioni domestiche e sessuali; una relazione intima, non occasionale ma a termine, senza obblighi da parte dei soggetti implicati, che normalmente veniva conclusa dall’uomo. Dopo la proclamazione dell’impero questa pratica fu bruscamente interrotta e furono contemporaneamente attivati dispositivi giuridici per controllare il comportamento degli italiani e riaffermarne prestigio e superiorità. I “meticci” furono ricacciati nella comunità indigena, furono vietate le relazioni coniugali ed extraconiugali tra “razze” diverse, e furono proibite le legittimazioni e le adozioni di figli nati dall’unione tra “cittadini” e “sudditi”. Si calcola che, nella sola Eritrea, che contava circa un milione di abitanti, di circa ventimila “deqalà” (bastardi) nati da unioni miste, meno di tremila erano stati riconosciuti dai padri italiani.
Dopo la caduta del fascismo, il governo italiano abrogò la legge contro il meticciato e dal 1947 consentì ai discendenti italiani di fare domanda per il riconoscimento, un riconoscimento spesso impossibile perché il legame con il padre era da tempo svanito. Dopo quasi cinquant’anni però, con l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia (1991, ufficialmente riconosciuta dall’ONU nel 1993) e la riforma della legge sulla cittadinanza italiana nel 1992, fondata sullo ius sanguinis, gli italoeritrei tentarono di reclamare la cittadinanza. A pochi riuscì di venirne a capo. Rosy è tra questi.
La strada difficile e tortuosa, da lei intrapresa per dare un cognome ai suoi sette figli, meticci figli di meticci, per dare loro un passaporto italiano, è durata venticinque anni.

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