Immagine presa da Wikipedia

Ho scelto di scrivere queste poche pagine sulla mia esperienza africana, su richiesta di un collega ed amico, non solo per collaborare a questo progetto, ma anche e soprattutto per me, per riportare alla luce ricordi ed impressioni che, a distanza di alcuni anni, sono divenuti meno nitidi nella mia mente.

Ho trascorso circa tre anni della mia vita in Eritrea, un paese di cui, prima di allora, conoscevo pochissimo. Sono stati tre anni faticosi ma estremamente arricchenti per la mia crescita personale. “Tempo … prezioso!” recitava il verso di una canzone di Jovanotti e devo ammettere che, nella mia esperienza africana è stato proprio IL TEMPO l’elemento focale capace di rivoluzionare il mio modo di percepire la vita.

Nel nostro mondo industrializzato e complesso il tempo è vissuto come Chronos:il tempo cronologico e sequenziale che ha una dimensione quantitativa. Ogni istante è definito e valutato in base agli eventi che vi accadono o che sono stati programmati con precisione: è così che vengono scandite le nostre giornate. Gli anni vissuti in Eritrea hanno totalmente stravolto questa concezione del tempo che mi portavo dietro. Ho iniziato a percepire il trascorrere delle ore e dei giorni non più dal punto di vista quantitativo, ma come un insieme di momenti opportuni per riscoprire il significato dell’esistenza, per il loro effettivo valore: Kairos.

Il tempo di aspettare è stata la mia prima tappa in questo percorso. Per l’uomo contemporaneo l’attesa è divenuta qualcosa di insopportabile e possibilmente evitabile: quasi tutto risulta disponibile in tempo reale o si cerca di andare in questa direzione. Ad Asmara ho imparato ad attendere per ore davanti ad uno sportello con l’obiettivo di pagare la bolletta dell’acqua o del telefono e poi, improvvisamente, quando ormai era giunto il mio turno, un ordinario blackout spegneva i computer, l’ufficio sospendeva le sue attività, tutti tornavano a casa e per quel giorno non se ne sarebbe più parlato. Quante volte mi sono innervosita con idraulici, elettricisti o falegnami. Essi, interrogati sull’orario previsto per il loro intervento, mi davano sempre la stessa risposta: – Verrò domani, nel pomeriggio! Ed io a ribattere: – Ma a che ora? È loro nuovamente a replicare: – Nel pomeriggio! E così il giorno dopo li aspettavo per ore.

Anche nei bar e nei ristoranti bisogna munirsi di grande pazienza. Ricordo che, nell’hotel in cui alloggiai appena arrivata, ci volle quasi un’ora per ricevere la colazione e nel frattempo ero già in ritardo per il mio primo giorno d’insegnamento nella Scuola Italiana. Persino le normali mansioni quotidiane come cucinare o lavare subiscono una variazione temporale. Ricordo divertita il pomeriggio in cui preparai una crostata per il compleanno di una collega e proprio quando fu il momento di accendere il forno mancò la corrente. Chiesi ad alcune signore eritree che abitavano nelle vicinanze come poter risolvere il problema ed esse mi indirizzarono al forno di quartiere dove tutte le donne della zona portavano a cuocere pane e focacce. Anche in quell’occasione attesi in fila per un bel po’, ma fu grande la soddisfazione di vedere cotto il mio dolce in quell’enorme forno e solo dopo una manciata di minuti. Per quanto riguarda il lavare, i più fortunati hanno un pozzo in cortile per immagazzinare l’acqua che viene distribuita dall’acquedotto cittadino una volta al mese, la maggioranza della gente invece approfitta dell’arrivo della pioggia per riempire bidoni e bacinelle e poter quindi fare il bucato, magari durante la notte.

Il tempo di ascoltare è stata la seconda grande rivelazione ricevuta dagli anni trascorsi ad Asmara. Fin da subito ho osservato come le persone che si conoscono e si incontrano per strada, dopo i tre contatti spalla contro spalla che costituiscono il tipico saluto tigrino, trovano il tempo di fermarsi per parlare a lungo con l’amico ritrovato. Essi chiedono notizie sui familiari, sulla salute e sul lavoro, nessuno viene liquidato rapidamente con uno – Scusa, sono di fretta, non posso fermarmi, ci sentiamo! Come accade nelle nostre realtà. L’incontro con l’altro è un momento prezioso a cui dedicarsi pienamente, tutto il resto passa in secondo piano.

Estremamente forte è stato poi per me il contatto con l’idea di Tempo del vivere e del morire che nella cultura eritrea non sono altro che due facce della stessa medaglia, due dimensioni comunicanti e non totalmente separate come accade nella percezione dell’uomo occidentale dei nostri giorni. La morte è un’eventualità estremamente probabile per tutti, indipendentemente dall’età o dalle possibilità economiche. Le case asmarine hanno le pareti costellate da fotografie che ritraggono i familiari defunti ed insieme a queste vi sono le immagini di matrimoni e battesimi, quasi a voler ricordare che vita e morte convivono nell’esperienza umana e che sono separate solo da un sottilissimo velo. Emblematico simbolo di questo legame inscindibile è il ‘DAS’, un tendone temporaneo fatto di semplici tubi di ferro e teloni bianchi o grigi che viene costruito in strada, nelle vicinanze di una casa, in occasione di un matrimonio o di un funerale. All’interno del DAS vengono accolti i parenti, gli amici ed i vicini per ricevere congratulazioni o condoglianze ed offrire loro qualcosa da bere e da mangiare. Quanta dignità e compostezza ho potuto osservare in queste situazioni, anche di fronte alle più grandi tragedie come la perdita di un figlio giovanissimo.

A proposito di cibi e bevande non posso dimenticare Il tempo del caffè. Desidero raccontare il rito domenicale della realizzazione di questo caldo liquido corroborante così associato nella nostra mente alla fretta mattutina e alla rapidità dei baristi italiani. In Eritrea la preparazione tradizionale del caffè richiede quasi un’ora ed è una cerimonia che le donne apprendono fin da giovanissime. Le fasi vanno dall’accensione del fornelletto a carbone in salotto, alla tostatura dei chicchi di caffè, dalla riduzione in polvere degli stessi in un mortaio di legno insieme al ginger, alla bollitura e filtrazione del miscuglio acqua-caffè per varie volte. Il caffè si prepara in una sorta di grande alambicco di terracotta chiamato JEBENA che ha all’imboccatura dei crini di cavallo per trattenere le polveri del preparato. È il tempo in cui gli ospiti possono consumare gli ‘embaba’, piccoli pop-corn e altre delizie dolci o salate e chiacchierare con la padrona di casa. La tradizione vuole che ogni convenuto debba servirsi per sei volte. Raramente io sono riuscita ad andare oltre la terza tazzina, ma ho impressi nella mente quei pomeriggi di festa in cui il tempo sembrava essersi fermato ed ogni cosa al di fuori di quella stanza pareva non avere più importanza.

Vorrei poi dedicare una breve parentesi a quello che potrebbe essere definito Il tempo della musica. L’Eritrea è un paese che ama profondamente la musica in tutte le sue forme. La musica contraddistingue ogni momento di festa ma si sente anche nei taxi, nei ristoranti, si ode provenire dalle case o dai cellulari delle donne che lavorano o dei ragazzi che girano in bicicletta. Le musiche eritree hanno tonalità molto acute e sono contraddistinte da un ritmo sincopato che le rende immediatamente riconoscibili. I cantanti fanno largo utilizzo di un effetto vibrato e gli strumenti musicali utilizzati sono molto particolari. Tra essi ricordo il KRAR a corde, una sorta di cetra ed il WATA che è un parente rudimentale del violino. Le danze locali prevedono vivaci movimenti di spalle e collo. È il tempo della gioia e della spensieratezza quello della musica, in cui la gente dimentica per un po’ i propri affanni, sorride e si fa trascinare dai ritmi.

Da ultimo, ma non per importanza, intendo menzionare Il tempo di stare a scuola. Nei tre anni trascorsi ad Asmara ho potuto riconoscere ed apprezzare l’importante presenza della Scuola Italiana in quel paese. Il desiderio di bambini e ragazzi di rimanere a scuola il più a lungo possibile nel corso della giornata, per giocare, fare sport, partecipare a laboratori di recupero o di potenziamento, ma anche soltanto per ritrovarsi e parlare con i coetanei. Lo spazio-scuola era vissuto dai ragazzi come un ambiente attraente e sereno, come un punto di riferimento, come un luogo in cui stare bene e fare cose belle. Il cortile dell’Istituto Italiano era aperto per molte ore al giorno e quando il portone veniva chiuso i ragazzi si ritrovavano nella strada proprio di fronte alla scuola. Dimostrando una sorta di desiderio di non staccarsi da essa. Molti studenti ormai adulti od attempati, che ho conosciuto, ricordavano gli anni trascorsi nell’Istituto Italiano come anni di grande formazione, ma anche un tempo di gioia e spensieratezza. Così è stato anche per me che ero dall’altra parte della cattedra.

“Tempo … prezioso” cantava Jovanotti.

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  1. Avatar Rossana Ugolini
    Rossana Ugolini

    Bellissima e aderente analisi!!! Ho avuto la sensazione di trovarmi ancora lì, il posto che, nonostante tutto (intendo mancanza di acqua ed elettricità) mi ha permesso di vivere gli anni migliori della mia vita. Periodo di grande insegnamento e riconoscimento dei veri valori!

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