“Perché anche per Luisa «scrittura» è logorio e insieme labirinto.
Quella scrittura che è un falsificare lo scrivere, ripercorre a occhi chiusi l’errore,
frugare senza trovar nomi. Peso del sangue sulla carta.”

Toti Scialoja

“Le metamorfosi sono sempre ancora la tua passione.”

J.W. von Goethe

“La nostra attenzione converge sulle frontiere.”

Nelson Goodman

Attraverso i secoli, la scrittura si è più volte inserita nell’espressione pittorica, facendosi essa stessa parte integrante dell’immagine (si pensi a Orcagna, Van Eick, Bosch, Runge, a molte Vanitas barocche etc.). Nella pittura del Novecento la ricerca e lo studio di una simbiosi tra scrittura (semantica o asemantica) e immagine sono apparsi particolarmente complessi, ricchi di implicazioni tematiche e formali, arrivando ad esiti estremamente interessanti e diversificati, tali da poter mettere in crisi le più affermate teorie linguistiche e le più radicate convinzioni circa il rapporto intercorrente tra linguaggio verbale e linguaggio visivo.

Il termine chiave, alle radici della nostra cultura, è la parola greca γραφείν (graphèin) – utilizzata da Platone per indicare sia il segno verbale che il segno pittorico – che si è intrisa, in epoca contemporanea, di un senso di mistero, forse scaturito dalla consapevolezza dell’impossibilità, maturata nella coscienza moderna, di annettersi gli immensi territori dell’inconscio, di dominarli in un rassicurante sguardo d’insieme. Graphèin diventa allora tracciare geroglifici, intessere un macro-testo verbale-pittorico, mentre si fa strada la consapevolezza della fascinosa tirannia dell’inconscio e dei suoi simboli, con cui la coscienza razionale lotta facendosi espressione dell’indefinibile, dell’indecidibile, dell’indescrivibile. Questo “labirinto” di segni lo troviamo, misterioso e avvolgente, nell’arte di Luisa Gardini.

  Senza titolo, 1976 (copertina di album), cm 14,5×20

A partire dalla prima epoca Romantica, le arti sono caratterizzate dalla tendenza a spingersi verso zone-limite nelle quali ogni arte sfiora i confini dell’altra, invadendone spesso il territorio: “L’estetica di un’arte è quella delle altre; soltanto il materiale è diverso”, scriveva intorno al 1830 Robert Schumann nei suoi Dialoghi tra gli immaginari alter-ego Florestano ed Eusebio. Una tendenza sottolineata, qualche anno più tardi, a metà ‘800, anche da Charles Baudelaire, e mirabilmente descritta in qualcuno dei suoi testi critici[1]. Tale spirito di compenetrazione e mimesi si estende peraltro, secondo Baudelaire, al di fuori dell’ambito puramente artistico, coinvolgendo ogni disciplina letteraria, filosofica, scientifica… In uno di questi territori di frontiera (zone-limite, come le definiva Adriano Spatola [2]), si dispiegano le molteplici espressioni della ricerca sulla scrittura in un’artista visiva come Luisa Gardini, ricerca che si pone in un’ottica pan-oramica: una visione sin-ottica, che implica un prezioso sguardo d’insieme. E “Vedere sinotticamente significa conoscere amando”, scriveva Ernst Jünger[3]. La sinossi mira alla forma figurale (Gestalt) sottesa a tutte le forme di espressione umana, e sa cogliere il nesso affettivo-analogico che le collega. Il processo di “trascinamento” del segno-testo “verbale” verso la sfera visivo-tattile dell’immagine si pone in singolare consonanza con quello della traduzione di un testo da un sistema verbale a un altro sistema verbale. Il testo da tradurre si pone sempre, al traduttore, anche come soglia percettivo-emozionale che apre sull’universo dell’immagine, quell’universo che va oltre la determinazione di un significato per immergersi nell’inarginabile flusso del senso [4].

Il geniale semiologo Algirdas Julien Greimas distingue fra “sens” e “signification”, intendendo, con il primo, un “senso non articolato” e con la seconda un “senso articolato”. I significanti tracciati da Luisa Gardini nei suoi dipinti – nei suoi testi visivi – non rimandano a una signification, vale a dire a un significato, ma a du sens, del senso, a un insieme di effetti di senso non circoscrivibili e non codificabili, che costituisce il fascino dei suoi lavori di pittura-scrittura.

Nel XX secolo il rapporto parola-immagine è segnato soprattutto dalla convinzione dell’arbitrarietà del segno: questa, intesa nel senso di Saussure, sposta la questione del legame tra segno e referente a quello tra significante e significato, facendo slittare definitivamente il problema della significazione e del linguaggio dalla rappresentazione alla forma. Il linguaggio viene infatti inteso ora come forma di unità differenziali, il cui valore è determinato dalla posizione, in particolare sui due assi del paradigma e del sintagma. Tale arbitrarietà è la stessa che Foucault chiama in causa per Magritte, ed è alla base della perdita dello “spazio comune” tra le parole e le cose, che dà origine ad uno sviluppo orizzontale delle parole tra loro e delle immagini tra loro. Già Duchamp, del resto, aveva condotto al limite estremo tale processo con la trovata del ready-made, legando arbitrarietà e indeterminazione fino a dar vita a un nuovo nominalismo: l’arte come nome – nome proprio – con cui l’artista battezza l’immagine o l’oggetto (in seguito, con il concettualismo, addirittura la parola). L’arbitrarietà del segno, peraltro, si accompagna subito al senso di un divergere della parola dall’immagine, nonché di un divergere di entrambe dal significato stesso.
Alcune ricerche pittoriche sulla scrittura nel Novecento ed oltre – tra cui quella di Luisa Gardini – sembrano prendere atto di questa divergenza per lavorare invece in direzione di un recupero della solidarietà fra parola e immagine, mettendosi alla ricerca di un senso altro, che va ben oltre la sua apparente corrispondenza con il significato.

Gran parte delle ricerche novecentesche in questa direzione – a partire dallo sperimentalismo futurista, poi dadaista e costruttivista, per arrivare al segno-gesto dell’Informale – rivendicano una presenza assoluta alla parte figurativa della parola scritta, che viene ad essere costruita nell’opera come le figure, o sostituisce le figure stesse, ma strutturandosi in modo da mimarne la forma; d’altra parte, il concettualismo isola la parola tipografica nella sua nuda leggibilità, perlopiù senza concessione alcuna alle suggestioni dei sensi e della percezione della forma.
L’uso della scrittura che Luisa Gardini fa nella sua arte visiva abbandona l’ordine lineare della scrittura stessa. Un uso che è figurale, più che figurativo: consiste nel dipingere la parola, aprendo il suo orizzonte sulla visibilità ab-soluta, cioè sciolta dalla visione di forme-parole delimitate e perfettamente riconoscibili; una visibilità che è prima di tutto visibilità della rara – rarefatta, sottile, leggera – materia nella quale, e con la quale, sono dipinte le scritture
Quando l’esistenza non è più che parola, parola come discorso e logos, parola funzionale e strumentale, perdiamo la scrittura del mondo, diventiamo ciechi ad essa: il logos anestetizza la carne, la parola strumentale rende insensibili alla materia delle cose. Gardini sottrae le sue opere al pericolo del logocentrismo concettuale: tratta la superficie delle sue scritture dipinte come se fosse pelle viva. Qui la scrittura dipinta mostra l’immediata e profonda relazione tra corpo e linguaggio. Si tratta di un corpo sottile, etereo, rarus, eppure denso, che si manifesta in una scrittura legata alla suggestione del mito, della poesia, ma anche della musica. Sembra evocare il Libro assoluto perché assente, vissuto attraverso le risonanze delle proprie stratificazioni di memoria e immaginazione, di estemporanei o sofferti commenti o glosse.

Triana, 1996, tecnica mista su tela, cm 135×174

I gesti di pittura-scrittura di Luisa Gardini si trasformano in accadimenti: se ne avverte l’enèrgeia, l’operare in un flusso temporale. Pare di avvertirne persino il rumore: segni, graffi, macchie, cancellature, ombre, sovrapposizioni, suggeriscono il senso di uno spazio quasi musicale, dove la traccia squisitamente imperfetta della scrittura è anche voce. La scrittura si fa voce dell’assente: ricostruisce il textum come presenza, lo restituisce alla sua dimensione vitale. Si riesce così a superare lo scarto tra scrittura e fonetica, facendo vivere ritmicamente l’esperienza della visione-lettura con l’imbastire una trama di segni, di tracce, di pause bianco-silenzio, di cesure, di cancellature che lasciano fantasmi di parole. Tenendo presente la distinzione operata da Lyotard nel suo libro Discours, figure, è forse possibile affermare che si verifica una fusione tra spazio del testo e spazio della figura.

Ludwig Klages scrive che “se il linguaggio precede il pensiero in quanto tale, lo stesso accade con la lingua scritta nei confronti del pensiero prevalentemente concettuale e astratto”.[5] Così, la scrittura tracciata dalla mano e scaturita, proprio nel suo spessore gestuale, dalla sfera di un vissuto, è primaria rispetto all’idea astratto-tipografica e puramente semantica del testo. Klages è sedotto da ciò che egli chiama seelischen Gehalt, il “contenuto d’anima” del movimento della scrittura. Ė forse quella “direzione del pensiero” di cui parla Roberto Sanesi [6]: un pensiero spesso involontario e trascinante, tale da generare una sorta di écriture automatique.

      Senza titolo, 2010 (particolare), tecnica mista su tela e tavole, cm 150×240

Il carattere che si imprime nella pittura-scrittura di Luisa Gardini è qualcosa di vitalmente mobile, come lo è anche ciò che per Klages è Seele: qui la realtà abbandona la sua natura figurativo-referenziale, per acquisirne una figurale-autoriflessiva[7]. L’èidos del testo-scrittura, la sua idea-immagine, è tuffata nel respiro avvolgente della vita, con un procedimento di frammentazione e di deriva che può ricordare il procedimento allegorico caro a Walter Benjamin.
I segni e le forme che costituiscono l’universo di Luisa Gardini fluttuano in quello che Barthes definirebbe l’“impero del significante”: non sono chiuse in una semanticità codificata, ma vivono la condizione dell’apertura del linguaggio, della sua perenne metamorfosi. Metamorfosi: trapassare di un segno nell’altro, risoluzione delle separatezze: non esistono contorni, ma piuttosto molte vibranti sensazioni. Il lavoro di Gardini non produce un senso, ma origina un processo infinito di decifrazione. La materia duttile, salda ma infinitamente sensibile, costellata di tracce, d’impronte leggere, di memorie di gesti, si fa percepire intensamente, eppure sembra sempre sul punto di dissolversi, per   ri-manifestarsi come visione di un’idea di spazio, nutrita della reversibilità interno/esterno, visibile/invisibile. Dunque variazione, metamorfosi, passaggio. Trapasso della concretezza nel vuoto, e viceversa: risucchio della realtà e coagulo di trasmutazioni.

Senza titolo, 2016, tecnica mista su tela, cm 40×40

Luisa Gardini, nata a Ravenna nel 1935, vive e lavora a Roma. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico a Ravenna, si trasferisce nel 1952 a Roma dove, dopo un periodo di studio presso la Facoltà di Architettura, nel 1957 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Roma con Toti Scialoja, che la introduce alla produzione dei maestri di quegli anni. Sebbene la sua produzione artistica sia stata prolifica sin dagli anni ’50, e facendo parte attiva della neoavanguardia di quel periodo, ha sempre preferito condurre la sua ricerca in modo discreto, senza partecipare a mostre, e decide di esporre pubblicamente le sue opere solo a partire dall’inizio degli anni ’80. Il lavoro di Luisa Gardini – in parte influenzato dal neodada e dal post-espressionismo astratto americano, impiega una serie di tecniche, specialmente il collage e l’assemblage, indagando la relazione tra segni scritti e disegnati.


[1] Cfr. S. Pegoraro, Charles Baudelaire. Sinestesie critiche, Bulzoni, Roma 1992.

[2] Cfr. A. Spatola, Verso la poesia totale, Paravia, Torino 1978.

[3]  E. Jünger, Linguaggio e anatomia, in Il contemplatore solitario, tr. it., Guanda, Parma 1995.

[4]  Cfr. W. Benjamin, Il compito del traduttore, tr.it., Mimesis, Milano, 2023.

[5] L. Klages, Grundlegung der Wissenschaft vom Ausdruck, Bouvier, Bonn 1950, pp. 339.

[6] R. Sanesi, Visibile, Book Editore, Bologna 1991, p.7.

[7] L. Klages, La scrittura e il carattere, tr.it. a cura di R. Marchesan, Mursia, Milano 1982, p. 38.

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