L’arte di Anselm Kiefer è un viaggio nei meandri della storia e nel senza-tempo dell’inconscio e del mito, un viaggio che si snoda attraverso i territori di una sensualità aspra e seducente, ma sempre affiancata da una immensa sapienza compositiva. Una tappa di questo viaggio è approdata in questi mesi a Roma, sulle ciclopiche e perturbanti “isole” protagoniste delle grandiose tele esposte da Lorcan O’Neill.[1]
Ancora una volta, Kiefer mette in atto la sua geologia dell’infinito, si appropria del sortilegio di superfici luminose che si lacerano su orizzonti tormentati, linfe d’ombra calcificata, deserti di terre e di rocce, mura brunite dalla fuliggine, su cui si disegna la fragile mappa di un’odissea, la diaspora interminabile della condizione umana.    

Anselm Kiefer, Scilla e Cariddi, 2021 – Courtesy Galleria Lorcan O’Neill
 Anselm Kiefer, String Quartet no.14 opus 131, 2021-2023 – Courtesy Galleria Lorcan O’Neill

Il mito greco e la storia della Germania; la musica di Beethoven e di Wagner e la poesia tragica moderna di Paul Celan o Ingeborg Bachmann; l’alchimia dei Rosacroce e il misticismo ebraico…. Di tutto ciò si nutre la controversa, complessa arte di Kiefer (nato a Donaueschingen, Germania, nell’ “anno 0” 1945), il maggior erede del pensiero visivo del romanticismo tedesco. “Tutto ciò che è visibile è unito all’invisibile, l’udibile al non-udibile, il sensibile al non-sensibile. Forse il pensabile all’impensabile”, scriveva Novalis nel suo Frammento n. 1710. Così è nell’arte di Kiefer, di implacabile poesia, dove la luce e il colore si affiancano all’ombra densa e fumosa, la violenza alla delicatezza, la presenza all’assenza, la vita alla morte.

   Anselm Kiefer, Melancholia, 2005

Kiefer ha sempre suscitato polemiche e discussioni, sin dai suoi esordi – nel 1969 – con opere di forte impatto percettivo (in contrasto con l’allora dominante clima minimal e concettuale), che entravano nella zona oscura del recente passato tedesco. Ma per Kiefer occorre prendere coscienza di un’identità che si radica nel passato, qualunque esso sia. Questo significavano anche le “scandalose” Stone halls del 1983, con il loro inequivocabile rimando all’architettura del nazionalsocialismo. Ne scaturiva un’affascinante meditazione e rilettura, in cui i fantasmi della storia si univano alle suggestioni del mito.

Per questo artista-filosofo, la storia non racchiude verità né certezze. La storia brucia, divora, sacrifica. Ce lo rammentano le straordinarie architetture combuste da lui dipinte, le sue poderose muraglie, róse dal tempo e dal fuoco, o ancora i tronconi di scale in cemento assemblati a delineare la sagoma di un carro armato, in Sefer Hechalot (2001). Ma la storia è in grado di trasfigurarsi in mito, perché non sfugge al vortice vitale del cosmo e della natura: Kiefer è anche uno dei maggiori paesaggisti contemporanei. Ecco allora fondersi in drammatica simbiosi i frantumi, le rovine della materia attraversata dalla storia, e i germi vitali della natura: i semi, i semi che tempestano molte grandi opere bi-dimensionali di Kiefer, e che spesso rappresentano le stelle. Sono grandi “costellazioni”, queste opere, costellazioni di frammenti che avvertiamo come ceneri, spoglie prosciugate, residui di un processo di combustione (fiori secchi, cortecce, vetri frantumati, ferraglie ecc.), ma di cui avvertiamo anche la potenziale forza di germinazione.

Anselm Kiefer, Ave Maria, 2007

Influenzato dal pensiero di Heidegger, Kiefer si pone nel solco del poeta più amato dal filosofo tedesco: Friedrich Hölderlin, per il quale l’arte è una forza radicata nel cielo e nella terra, una forza che tiene insieme gli estremi. Il corpo umano è ciò che unisce la terra al cielo, è un groviglio di radici vitali, una fucina di immagini, e non di concetti astratti. Come Hölderlin, Kiefer crede nella potenza della poesia, nella sua capacità di riportare il mito, il divino e il sacro nel mondo. Per questo inserisce spesso nei suoi lavori i caratteri alfabetici e la parola come essenza mentale e spirituale, nucleo germinale di un racconto, di un mythos, appunto, che non si contrappone alla materia, ma la anima.
Parola e immagine interagiscono fortemente, secondo l’artista tedesco: è anche per questo che dà spesso alle sue opere la forma del libro: il libro che è la “casa” del linguaggio, così come, secondo Heidegger, il linguaggio è la casa dell’essere.

  Anselm Kiefer, Unter den Linden, 2013, libro di 15 doppie pagine e copertina in piombo elettrolitico –  Courtesy Galleria Lia Rumma

I “libri” di Kiefer sono, contemporaneamente, pesanti diari della storia – libri ciclopici dalle pagine di piombo – e “libri” della natura, insieme metaforici (si pensi alla metafora galileiana della natura come libro aperto), e letterali, come i suoi “erbari”, dove fioriscono i suoi girasoli bruniti, simboli di una genesi o di un’apocalissi, o di entrambe, secondo quella conjunctio oppositorum così frequente nella sua poetica. Libri e girasoli si collocano al centro di un’apoteosi, anch’essa euforica e insieme malinconica, della materia, pronta a sondare le innumerevoli possibilità dello spazio. Fino a una sorta di vertigine, come quella evocata da Roger Caillois nel suo bellissimo libro I giochi e gli uomini: ìlingos, in greco antico “vertigine”, dimensione in cui la spazialità moltiplica vertiginosamente le sue dimensioni.
E’ comunque sempre presente una dialettica di opposti, che convivono in tensione e non si elidono. Una tensione di estremi nella quale Empedocle – l’antico filosofo-poeta della Magna Grecia a cui Hölderlin dedicò un’opera indimenticabile – aveva identificato il fondamento dell’universo.
L’arte di Kiefer può essere allora letta come l’emblema di questa tensione, di questa polarità tra cielo e terra, di una ciclicità cosmica in grado di trasformare l’apocalisse in cosmogonia.
L’arte di Kiefer può forse ascriversi a un’esperienza di questo tipo: l’uomo impara ad esistere in ciò che non ha limiti, in una totalità che è apertura assoluta. Tutto è dilatazione, raggrumazione, sedimentazione, erosione di una materia cosmica che non si richiude su se stessa, ma esplode, si frantuma e si stratifica ad infinitum. L’artista esprime quella parte di se stesso, indefinibile e inarginabile, che è dentro di lui, ma insieme è dentro qualcosa di più vasto e vago.
Come ha scritto Salvatore Settis, in un suo splendido testo, Kiefer “non celebra nulla, non predica alcuna verità, non sventola alcuna bandiera politica. Facendo leva su una logica di inversione che ci impone stupore e riflessione, suggerisce qualcosa che oggi ci manca di più: fermarsi a pensare. Cedere alla maestosità dei suoi quadri, interrogarli e lasciare che siano loro a interrogarci.”[2]
Potremmo forse rubare, per riferirla a Kiefer, una frase di Pierre Boulez a proposito della fine del Ring di Wagner: “si ha l’impressione che abbia allestito gli scenari perché l’avventura ricominci”.

Anselm Kiefer Die Vierzehn Nothelfer, 2020-2023 – Courtesy Galleria Lorcan O’Neill

[1] Anselm Kiefer – La coscienza delle pietre, Galleria Lorcan O’Neill, Vicolo de’ Catinari 3, Roma. Fino al

[2] (S. Settis, “La logica dell’inversione di Anselm Kiefer”, in “La Rivista di Engramma” n. 191, aprile-maggio 2022, pp. 147-158)

  1. Avatar Bonanno Francesco
    Bonanno Francesco

    Un testo bellissimo e poetico all’altezza dell’arte di Kiefer

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