2-EPPURE

In un tempo di soggettività così screditata, reificata, annichilita di fatto, com’è quella attuale, mai come oggi arrivano sotto i fari – via!, faretti –  di una non così piccola cerchia di interessati non-specialisti i risultati di studi, esperimenti, ricerche, ipotesi, teorie, dibattiti inerenti la soggettività in senso lato: dalla pur annosa quaestio della coscienza e del libero arbitrio, con gli addentellati dell’inconscio, dell’epistemologia, dell’etica, della banalità del male, della percezione del tempo, fino alle prospettive dell’intelligenza artificiale, del cambio di paradigma nel rapporto uomo-ambiente, dell’interconnessione tra tutti gli esistenti. Al di là dell’ambito più specifico delle scienze della mente e del cervello, la soggettività pare un corollario da trattare necessariamente anche nella fisica quantistica, negli studi botanici, nella sperimentazione robotica e informatica, ecc., con uno sguardo profondo e appassionato, molto oltre i dibattiti accademici, tanto da far intrecciare di nuovo scienza e filosofia. Ma anche da produrre buoni testi di grande divulgazione che permettono ai non-addetti-ai-lavori di entrare criticamente a margine delle riflessioni più cruciali. Personalmente ne ho ricevuto stimoli potenti, che a volte hanno davvero sconvolto la quiete inerte di miei apparenti approdi conoscitivi.
Mi sia tollerato, qui, di introdurre nella riflessione un mio inserto personale; d’altra parte si tratta, qui, di una riflessione che, per sua natura, non può non cominciare proprio dalla esperienza intima di sé. Fin dai primi anni che ricordo mi prendeva con forza il dubbio che gli altri non ‘sentissero’ sensorialmente come me; chiedevo spesso a Loretta, la mia amica, cosa fosse per lei il sapore dolce o il liscio del muschio. Lei non sapeva cosa rispondermi, come a una domanda assurda e al massimo diceva: come a te. Ma io potevo accettarlo solo per amicizia, per fiducia, per fede: in realtà io non potevo sentirlo, il suo dolce, il suo liscio. Nel tempo la domanda si è allargata a tutta la vita interiore e si è rivolta a tanti – sempre meno, a dire il vero, perché mi veniva a risposta un’espressione sconcertata, come a una domanda assurda, un po’ cretina, se non addirittura sintomatica di patologia psichica. Poi ho smesso, tenevo per me quel senso di separazione e solitudine interiore – ma a volte anche di auto-esaltazione, perché se ci sei solo tu, puoi anche farti divina. Non mi ha impedito di ‘socializzare’, di impegnarmi nel ‘noi’, di avere amici, amori, empatie, attriti ‘normali’. Ma non ho mai smesso di desiderare quella che ho cominciato a chiamare ‘dualità’, in senso greco: due insieme. Perché continuava a succedere che non ne avessi abbastanza del mio ‘consistere’ tra me e me, del mio, unico possibile, autoaccertamento. Credo onestamente che la mia ‘fede’ cristiana, fin da bimba in una famiglia di laici-atei, poi progressivamente mutante a diversi diopadre e diomadre, attraverso lunghi abbandoni fino alla attuale convivenza di luminosità e spegnimento, sia sorta dal bisogno di ‘sentirmi’ nella mia interiorità insieme a qualcuno – anche solo strappata, separata da qualcuno: che però, prima, c’era e che avrebbe potuto esserci ancora…  Ho cominciato a sentire che era l’utero di mia madre, dove ero stata totalmente connessa a lei, che mi apriva a dio. La morte, il pensiero della morte mi ha sempre accompagnato, mai con paura, sempre come un sostare kafkiano alla porta del senso. So di avere scelto gli studi di filosofia per il bisogno che sentivo di darmi strumenti di riflessione. Ma dove meglio ho potuto pensare è stata la poesia, la scrittura. E adesso, nell’ultimo spicchio della mia vita, ecco che mi fioriscono intorno studi, ricerche, ipotesi che non solo danno un nome al mio innominato rovello interiore, ma che lo assurgono a normale postulato per ulteriori e ben più profonde riflessioni. Se non dissetata, però mi sento in cammino sulla via di Damasco.       

Intanto.

Dove sono arrivata.
Il nucleo della soggettività è la coscienza, da intendere come qui viene descritta: 


“io so di essere cosciente dentro di me, ma non posso provare di esserlo e neppure posso provare se qualcun altro lo sia. Posso solo attribuire la coscienza a un’altra persona o anche a un computer, ma non posso osservarla oggettivamente con un esperimento in terza persona. La mia esperienza interiore non può essere osservata dall’esterno. Non è condivisibile. Posso conoscere i veri sentimenti [o pensieri, sensazioni, intuizioni ecc. N.D.R.] di un’altra persona solo se questa me li rivela. Però, in questo caso, la mia conoscenza non può essere sicura, perché la persona in questione potrebbe sbagliarsi o mentire.” F. Faggin, Silicio, cit. p.189

Niente di più scivoloso, inafferrabile, passibile di ipotesi divergenti: la soglia dove si fermano i neuroni a specchio. La coscienza è equiparabile a quell’essenza spirituale chiamata ‘anima’ da molte religioni? Oppure viene da un’energia universale che si individua attraversando, vivendo corpi particolari, ma senza interrompere la connessione con i ‘tutti’? O invece, interna al cervello, è una sua funzione ancora non localizzata nella mappa encefalica, ma localizzabile prima o poi dalla scienza? È una funzione che serve solo a coordinare le altre funzioni del cervello e nasce da esse? O addirittura è solo apparenza di funzione, ancora indefinita nel suo ruolo? Potrebbe essere ricreata in un’intelligenza artificiale? O potrebbe ricrearsi automaticamente da sola, come negli ‘io-robot’ di Asimov, capace quindi di scelta e creatività originale? Oppure qualsiasi mirabolante intelligenza artificiale potrà sempre e solo produrre conoscenze limitatamente all’elaborazione delle informazioni in essa immesse dalle programmazioni? E la ‘mente’, postulata dalla psicanalisi, con tutto il corteggio di ‘inconscio’, ‘es’, ‘archetipi’, ecc., esiste veramente, se finora nella mappatura cerebrale non se n’è trovata traccia? E il libero arbitrio, necessariamente connesso alla coscienza, da cui facciamo dipendere millenni di storia e preistoria, nonché finalità sociali, etiche, metafisiche, è davvero una componente essenziale della soggettività e non invece un’illusione che maschera una dipendenza non più solo da condizionamenti socio-ambientali, culturali, psicologici, ecc. (almeno parzialmente contrastabili, se conosciuti e conoscibili), ma da precisi impulsi neuronali incontrollabili, come indicherebbe il peraltro molto discusso esperimento di Benjamin Libet? Gli altri esistenti del mondo, dell’universo: animali, vegetali e – perché no? – minerali, secondo le vecchie catalogazioni, gli altri che stiamo cominciando adesso a guardare davvero, hanno una loro forma di coscienza, un intimo rapporto con se stessi, con la propria unicità, magari in forme che neanche riusciamo a immaginare? Di sicuro cominciamo a conoscere come si rapportano, si combinano, interagiscono, si connettono con i propri simili e con gli altri-da-sé che incontrano nel mondo. E cominciamo a stupirci e cominciamo ad imparare.
Qui mi fermo con le domande che espandono i confini, per non esondare in ambiti ormai frequentati nei tempi, nei modi, nei luoghi più disparati, ma che ancora fanno rizzare i capelli agli studiosi ‘tommasei’ (Gv,20,25). Ma per intenderci e per buttare lì almeno una piccola provocazione: dalle esperienze di uscita dal corpo della coscienza, all’entanglement della fisica quantistica.

L’io vuoto, dicevo all’inizio della riflessione, l’io idiota.

È un tempo, apparentemente, il nostro, anche di pienezza eccedente dell’‘io’: forme di egoismo, di egocentrismo, di solipsismo fanno chiudere gli occhi su chi ha bisogno, aprono alla reazione rabbiosa per il minimo dissidio, o anche per nessun motivo, tornano a catalogare gli altri in base a parametri di razza, religione, nazionalità, normalità, competizione, naturalità, civiltà – ma per esaustività diciamo: parametri di tutto, purché adombrino nell’altro la diversità da sé, la non identità di sé, e quindi l’ostilità verso sé. Per farsene motivazione e giustificazione a violenze efferate, a discriminazioni feroci, a guerre/massacri, a sofferenze soffocate anche dell’urlo/testimonianza.
Non è eccesso dell’‘io’, però: è vuoto dell’‘io’. È il trionfo della negazione, dell’annichilimento. Una soggettività malata, che manca in sé di un fondamento, essendo tautologicamente se stessa l’unico referente accettato, senza rendersi conto che si tratta spesso di un fantoccio raffazzonato con brandelli di ideologie, bisogni desideri indotti, emozioni manipolate. E se il vuoto fora buchi di malessere, in tempo di avatar, se ne può inventare un altro, di ‘sé’, altrettanto apparente e vuoto, ma più consono ai criteri imperanti, comunque tale da potercisi davvero confondere ed interscambiare. Fuori di sé, quello che chiamerò l’io-me può tollerare solo l’uguale (fino a che almeno l’uguale non si connoti a competizione). Tutto il resto è non-me, pericoloso nella sua diversità alternativa al me, e deve essere annientato: con il declassamento a oggetto di sfruttamento, con una cieca indifferenza emarginante, con lo sterminio fisico. Anche con la fine del mondo. Che include evidentemente l’autodistruzione, fatale: après moi le déluge, diceva le Roi Soleil Luigi XV!

Eppure eppure

Eppure, in questo tempo tremendo sono nate, e girano sempre più larghe, e prendono posto nei pensieri comuni parole nuovissime; che sono antiche di secoli, di millenni [i], ma che sanno trovare i suoni, i toni per essere ascoltate oggi, fuori dai mantra, dalle liturgie che le hanno svuotate di senso profondo. E mi riferisco a questa corale invocazione ad una modificazione del paradigma, che emerge da tutte le parti del canone simbolico, conoscitivo, spirituale del nostro mondo: per una nuova concezione e un nuovo sentire della relazione tra noi e gli esseri tutti: che stanno non tanto intorno a noi, ma dentro-nella nostra esistenza, intrecciati, connessi, reciprocamente necessari, non solo o non tanto per utilità, ma per medesimezza della vita, dell’energia cosmica, del senso dell’esserci – se c’è. Non si tratta di una moda; si sente un bisogno, una passione che accomuna i pensieri nei vari ambiti del sapere, anche quando divergono e discutono; si sente che si confrontano, si ascoltano, costruiscono. Forse li accomuna la consapevolezza della necessità di cambiare per avere futuro. Porto un esempio piccolo, ma proprio per questo significativo.
Il mio amico Pier ha proposto alla riflessione corale del gruppo di cui fa parte il commento del primo e secondo comandamento, così come compare nel Deuteronomio, nel Levitico e nei Vangeli, costatando che sono quasi sempre stati considerati rivolti individualmente ad ognuno per invitarlo ad amare Dio e il prossimo. “Suggerendo” nota Pier “in questo modo una spiritualità alta, più che mai di moda anche adesso, molto adatta a tutti gli spiriti nobili, colti, magari anche al di fuori di ogni contesto religioso strettamente inteso.” E chiude la premessa con: “ora non lo possiamo fare più.”. Fa notare quindi che nel Deuteronomio e nel Levitico già era evidente la “dimensione sociale, politica”: “ascolta, Israele…”, “Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi…”. Soprattutto “dopo la tragedia del 7 ottobre e quelle successive”, ritiene che sia necessario cambiare il modo di leggere quei comandamenti. Da individuali devono essere letti come corali, sociali, politici. Propone la riflessione del teologo Johann Baptiste Metz, che ne L’autorità dei sofferenti avverte come ad Auschwitz sia avvenuta una frattura insanabile, definita anche “una memoria pericolosa”. E lo è, pericolosa, in quanto ribalta il tradizionale sguardo della storia, quello del punto di vista dei vincitori, per mettere al centro inderogabilmente i vinti e le vittime. Già Walter Benjamin, ricorda Pier, “vedeva nel Messia non un’attesa inaudita di futuro, ma la redenzione del passato”. In conclusione, però, porge un’altra, e problematica, citazione di Metz, da una conferenza tenuta verso la fine della sua vita (2019):
Certamente per molti, anche per molti cristiani, Auschwitz è da tempo scomparsa dagli occhi della loro memoria. Solo pochi collegano Auschwitz alle crisi dell’umanità del presente, forse dimenticando che la domanda su Auschwitz non è solo: Dov’era Dio?, ma anche: Dov’era l’uomo ad Auschwitz?

Anche la teologia, conclude Pier, deve diventare “programmaticamente” “politica”, nel senso di “parlare di Dio”, “ma con gli occhi aperti. Su che? È chiaro: sulla sofferenza dell’uomo. Del resto il primo sguardo di Gesù nei miracoli del suo Vangelo, non si è diretto al peccato degli uomini, ma al loro dolore!”.

MA C’È ANCORA DA DIRE…


[i] Penso a Buddha, Gesù, Francesco, alle Beghine, alle ‘massime’ di Kant…

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