La storia
Hirayama è addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo e la sua vita solitaria si ripete con regolarità giorno dopo giorno, dal risveglio al ritorno a casa. Un caffè al distributore automatico, le audiocassette con la musica anni Settanta, la sosta per il pranzo sotto un albero che fotografa in modo ossessivo, la propria igiene ai bagni pubblici, un libro prima del sonno costituiscono il suo rituale silenzioso e sereno. Pochi gli incontri: un bambino che ha smarrito la madre, il giovane collega in cerca d’amore, la libraia gentile, il barista di giorno e una barista separata di sera; inoltre, uno sconosciuto che lascia in un bagno un foglietto col giochino del tris (o filetto di pallini e croci), che lui accetta aggiornando la sfida. Qualcosa però cambia quando la nipote, fuggita da casa, lo va a trovare e resta con lui, che rivede la sorella con cui i rapporti si sono logorati, forse per colpa del padre che Hirayama non vuole più vedere. Un evento, questo, che gli riapre una ferita e un pianto a lungo nascosto. Ma un ultimo incontro con un uomo senza speranze di vita gli offrirà ancora delle emozioni irrinunciabili, tra lacrime e timidi sorrisi.

Un film tra Ozu e la sacralità dell’esserci
Se si ha pazienza di seguire con animo sgombro la routine del protagonista, l’ultimo film di Wenders ripaga lo spettatore con piccole rivelazioni e la grazia di una conquista, quella della malinconia di esserci nell’attimo prezioso in cui viviamo. Hirayama è rifugiato in un presente che ripete in un cerimoniale di sicurezze, comprese le ombre che lo visitano nei sogni. Ma quelle ombre, che diventano un gioco di sovrapposizioni nel significativo pre-finale, finiscono per rivelarsi la scoperta commossa che l’amore può ancora esistere, magari sollecitato anche dalle ferite del passato. È un amore che Wenders aveva scandagliato nel quotidiano osservato dagli angeli de Il cielo sopra Berlino (1987),mentre i cieli giapponesi e il cinema di Ozu avevano mostrato tutta la fascinazione wendersiana per la cultura orientale nel documentario Tokio-Ga del 1985.Tornato nell’amato Giappone dopo diversi anni, il regista tedesco rivela ancora l’impronta indelebile del maestro Ozu, di cui riprende la divisione dello spazio abitato da Hirayama e l’incipit ad altezza (quasi) di ‘tatami’, nonché alcune simmetrie nella disposizione dei personaggi e certe transizioni di vita quotidiana. Ma Perfect Days ci riconduce anche alla poetica wendersiana del tempo, all’opposizione stasi-movimento, con una nostalgia del passato (i libri usati, le audiocassette nel mangianastri, la musica di Lou Reed e altri) che è rifugio e sofferenza. Non a caso l’ombra e la luce sono i due elementi che vivificano il film, mentre l’acqua delle rare lacrime del protagonista libera l’emozione della scoperta di essere ancora nel mondo degli altri, con la parola ritrovata, nel “qui e adesso”. È questo, in fondo, il senso del tremolìo delle foglie illuminate dal sole filtrante, che in giapponese è riassunto dalla parola komorebi: guardarle rimanda a una sensazione rigenerante tra gli ostacoli della vita. La forza, pervasa di malinconia, di poter sopravvivere e amare ancora, sotto l’eterno ritorno del cielo di Tokyo.

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