“Per me la sua pittura è una lezione di tragedia…”
Gianni Rodari

Nel 1949, l’industriale di laterizi Giuseppe Verzocchi commissiona a più di 70 artisti un’opera sul tema del lavoro. Fra gli invitati c’è Mario Sironi, che realizza per l’occasione il dipinto Il lavoro. Alla richiesta di spiegare la sua opera nel catalogo del progetto, così si esprime: “Tradurre il mio dipingere in termini critici? Cotesto è un male tutto italiano. Il critico ha la pretesa di prendere il quadro, metterlo in un alambicco, scaldare, manipolare, e trarne un composto spesso verde marcio o viola livido. Il tutto collocato in bottiglia, in fila con altre sopra uno scaffale, è la pittura”.
Parole amare e polemiche. Parole di un artista isolato e anticonformista. Isolato perché anticonformista. Forse – a detta di molti – l’unico artista italiano del Novecento a poter competere con Picasso, per la sua formidabile inventiva.
Del suo controverso rapporto con il regime fascista si è lungamente dibattuto. Se è vero che Sironi aderì pienamente al fascismo, è altrettanto vero che niente nella sua arte e nella sua personalità si può definire conforme alla cultura del ventennio. La sua vita sofferta, contraddittoria, sempre indipendente, è esattamente il contrario di quella del moraviano “conformista”, narrato per immagini da Bernardo Bertolucci.
Anticonformista, Sironi lo era già durante il regime: la sua carriera fu compromessa dalla volontà di conciliare le proprie tendenze anarchiche e antiborghesi, il proprio rifiuto di ogni trionfalismo e la ripugnanza per il successo nella vita pubblica, con gli ideali fascisti. Anticonformista, Sironi lo fu fino alla vecchiaia, dolente e solitaria, intrappolata in una sorte di congiura del silenzio, e terminata in un afoso agosto milanese, nel 1961 (era nato a Sassari nel 1885).

Mario Sironi, Il mio funerale,1960, tempera su tela

Principale artefice, accanto a Margherita Sarfatti, della poetica classicista e arcaizzante di “Novecento”, principale teorico di uno “stile fascista” nel campo delle arti visive, autore di straordinari cicli pittorici “di regime”, quando tutto fu finito ebbe il coraggio di restare dalla parte dei vinti – mentre molti seppero abilmente aggrapparsi al carro dei vincitori – di non rinnegare il suo passato, condannandosi così all’inferno dell’epurazione sociale. Nel dopoguerra vide crollare il suo universo estetico sotto la bandiera trionfante del realismo socialista. D’altra parte, i sostenitori del cubismo, dell’astrattismo e delle ultime tendenze informali, non vollero riconoscere le sue formidabili anticipazioni – di decenni – sull’attualità internazionale. Una damnatio memoriae in cui si esprime una politica culturale equivoca, la stessa in cui si inquadra anche la “rimozione”, fino a tutti gli anni Cinquanta, del movimento futurista – di portata indubbiamente europea – identificato con il fascismo, in modo da negarne qualsiasi validità. Per comprendere i caratteri anticipatori e precorritori del genio sironiano, si può pensare ad esempio agli studi per il ciclo di affreschi L’Italia fra le arti e le scienze, realizzato nell’Aula Magna dell’Università di Roma nel 1935, studi che nella loro libertà espressiva sembrano anticipare l’espressionismo astratto degli anni Cinquanta, per esempio De Kooning, per le linee aggressive e tormentate.

    Studio per l’affresco L’Italia tra le Arti e le Scienze, Aula Magna dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1935, tempera su carta applicata su tela

Ancora nel pieno periodo “monumentalista” di Sironi, negli anni in cui l’artista realizzava imponenti decorazioni parietali in edifici pubblici, il grande scrittore e critico Massimo Bontempelli manifestava la sua predilezione proprio per gli studi, i bozzetti, i frammenti di Sironi, o comunque per la sua pittura “da cavalletto”. La fine del regime fascista significherà per Sironi, oltre una profonda ferita morale, anche la fine dei progetti monumentali, il frammentarsi della sua figurazione, o meglio il suo concentrarsi in spazi ridotti. Ma è proprio l’angustia dello spazio – come sembrava aver intuito Bontempelli – a far esplodere con più forza l’intensità tragica della poetica sironiana, presente sin dagli inizi del suo iter artistico, presente anche nei grandi affreschi o bassorilievi di matrice celebrativa – dove le figure tendono a isolarsi e talora a cristallizzare l’azione in immobilità, in melanconia tenebrosa – e destinata a emergere con più forte evidenza nei lavori degli ultimi vent’anni di Sironi, “gli anni della solitudine”. Una poetica del dubbio, un relativismo, che allontanano il pittore dall’ottimismo manicheo e trionfalista del fascismo, e sembrano invece affondare le loro radici in un pessimismo cosmico di matrice forse leopardiana. Individualista e solitario, forse proprio per superare l’angoscia e il senso di solitudine, legati a una visione tragica della condizione umana, Sironi investì tante energie nella costruzione di un’ideale arte fascista: arte didascalica, rivolta alle masse, attenta al gioco di squadra, in tutti i sensi. Un’arte intesa a dare “unità di stile e grandezza al vivere comune”, come scrive l’artista nel suo Manifesto della pittura murale del 1933, dove afferma che “la pittura murale è pittura sociale per eccellenza”. Attrazione, dunque, per la narrazione epica e corale, per le composizioni affollate…
Eppure, la solitudine è uno dei temi fondamentali della sua opera, associata, in particolare, alle figure femminili. Essa dà il titolo, ad esempio, a uno splendido quadro del 1925, Solitudine, appunto (ora alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma). Il dipinto raffigura una giovane donna seduta, con lo sguardo fisso oltre il campo visivo dell’opera, melanconicamente assorta nei suoi pensieri. La monumentalità della figura, le forme del corpo e i lineamenti del viso ritratto di profilo richiamano la tradizione classica, mentre lo sfondo tenebroso e indefinito evidenzia un senso di malinconia e di solitudine, che richiama una condizione umana di isolamento e di alienazione. In quest’opera il rigore formale della poetica sironiana tocca uno dei vertici più alti: una tensione plastica che sembra rimandare al cubismo si unisce al rinnovato senso della figura, proprio del clima novecentista. La personificazione del sentimento della solitudine, incarnata da un personaggio femminile simile a una musa classica, dall’inequivocabile profilo scultoreo, rielabora in chiave monumentale l’espressione di uno stato d’animo, che acquista così una dimensione universale. Qualcosa di simile, in quegli anni, faceva Picasso, con le sue massicce figure neoclassiche.

A questa indimenticabile figura ne farà eco un’altra, realizzata negli ultimi anni di vita dell’artista: quella della Donna con velo del ’56, in postura quasi speculare alla prima, dal volto altrettanto melanconico, imbronciato, lo sguardo cupo, velato anch’esso, ma che questa volta sembra orientato verso lo spettatore. Il panneggio classico del ’25 si trasforma qui in una sinfonia di bianchi e grigi perlacei, pastosi e vellutati, che accompagna il braccio sollevato quasi in una danza…
Nel tempo, tra le due, si colloca una piccola tela inquietante: La penitente, del 1945. In un luminosissimo contrasto bianco/nero – quasi un Francisco Goya rivisitato – un’altra figura femminile velata di bianco, curva, come sotto il peso di quel velo, che le nasconde quasi completamente il viso, è giudicata da due figure nere, umiliata dal peso di un’indefinibile colpa…Gli eroi tragici eppure maestosi di un tempo, lasciano via via il posto agli umiliati e offesi di un’epoca di rovine.

Mario Sironi, La penitente, 1945, olio su tela

Il 25 aprile di quello stesso 1945 in cui fu dipinta La penitente, Sironi uscì di casa a piedi, a Milano. Fermato da una pattuglia partigiana, fu riconosciuto e tratto in salvo, “in nome dell’arte” dal partigiano Gianni Rodari, che da tempo apprezzava la tragica grandezza della sua pittura.
D’ora in poi i suoi personaggi saranno sempre più chiusi in se stessi, ripiegati in un’assorta meditazione, come sospesi tra passato e futuro, impossibilitati a vivere attivamente il presente. Proprio come i personaggi del dramma musicale wagneriano – amatissimo da Sironi – che il Leitmotiv consegna a una perpetua oscillazione tra ricordo e presagio. Quando aveva deciso di aderire al Futurismo, nel 1914, questa stasi meditativa, questo bloccare l’azione nella riflessione lo avevano radicalmente distinto dagli altri artisti del movimento, ebbri di dinamismo e di colori timbrici, in netto contrasto con le inconfondibili tonalità cupe e terrose della tavolozza sironiana: le più adatte a esprimere una tragicità fino ad allora ignota alla pittura del Novecento. Infatti, nonostante l’adesione al Futurismo, la poetica di Sironi non ha nulla a che vedere con l’entusiasmo incondizionato e spesso febbrile dei futuristi per la moderna tecnologia e per la civiltà industriale, che per lui costituiscono la cornice del dramma dell’uomo contemporaneo. Se, forse, l’intensità della sua riflessione sul senso della modernità artistica ha pochi eguali nel ‘900, e Sironi fa del rapporto fra arte e visione del proprio tempo un filo conduttore della propria ricerca, è altrettanto vero che nei suoi celebri paesaggi urbani ha visto – e ci fa vedere – la modernità come angoscia e desolazione. Lo squallore delle periferie, il piatto anonimato delle strade, l’angosciosa bruttezza delle officine, si affacciano in quadri come Paesaggio urbano con manichino, elaborazione del ’42 di un’idea di sapore dechirichiano del 1918, o come Il gasometro del 1943. L’artista raffigura la città, raffigura Milano, ma spogliandola dell’alone mitico con cui la comunicazione più superficiale ha tentato spesso di travestirla: niente immagini da cartolina o facili tributi alla proverbiale operosità meneghina. Solo strade deserte ed edifici desolati, incombenti mura antracite e sagome minacciose di ciminiere.

La condizione – metastorica – di solitudine e precarietà dell’uomo non può essere riscattata dalla “Civiltà delle macchine” (che è anche il titolo di una famosa rivista fondata da Leonardo Sinisgalli nel ‘53…). Non lo poteva negli anni futuristi e neppure negli anni di fermento del dopoguerra. Come certo non lo può ora, nei nostri anni di drammatica crisi ambientale e umanitaria. Per questo, negli ultimi dipinti di Sironi – come Figure in rosso (1957 ca.) o Apocalisse (1961) – melanconia e desolazione diventano disperazione e tragedia. In Apocalisse l’umanità appare travolta da un’immane crollo, in cui deflagra – come lo stesso artista scrive – “tutta l’atrocità della vita e la bestialità umana”.
Ѐ così che il sordo concerto di bruni, ocre, antracite, lascia il posto all’incandescenza visionaria di colori acidi e squillanti, di forte matrice espressionistica. Viene da pensare a quanto, a suo tempo, aveva annunciato Van Gogh in una lettera al fratello Theo del 1888: “Dipingerò col rosso e col verde le terribili passioni umane”.

Mario Sironi, Figure in rosso, 1957 olio su carta applicata su tela.
Mario Sironi, Apocalisse, 1960, olio su tela
  1. Avatar Beatrice Trenti
    Beatrice Trenti

    Una presentazione profonda, ricca e calda. Grazie.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *