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La musica è arte “temporale” per eccellenza: ogni brano musicale presume, da parte di noi ascoltatori, una percezione di carattere diacronico.

     Non così un quadro, una statua o una qualunque opera d’arte visiva di tipo tradizionale, eternati nella loro immutabile fissità, che lascia decidere all’osservatore su quali dettagli soffermarsi, in che ordine, quanto a lungo e in che rapporto con l’insieme. Pensiamo adesso a un testo scritto: ci rendiamo conto che la lettura individuale è altrettanto libera (ogni lettore ha i suoi tempi) ma che una performance, come può essere la declamazione di versi da parte di un attore, impone i suoi ritmi (e non a caso utilizzo una categoria musicale come appunto quella della “ritmica”). Lo stesso accade con la visione di uno spettacolo o di un film; ma la complessità del linguaggio teatrale e cinematografico, in cui l’opera risultante è tanto maggiore della somma delle sue singole parti (testuali, sonore, visive), è tale che preferisco non approfondirla in questa sede.

     Comunque sia, è bene rendersi conto che il compositore, a differenza dello scrittore, del pittore e dello scultore, ma a somiglianza con l’attore e il regista, prescrive i tempi della fruizione. Siamo liberi di interrompere l’ascolto o di distrarci, o anche (se si tratta di musica registrata e se ne abbiamo i mezzi tecnici) di ripeterlo a volontà, o addirittura di rallentarlo o accelerarlo o alterarlo in vari modi; ma resta il fatto che l’organizzazione dei suoni da parte dell’autore è stata stabilita in base a criteri che, almeno in teoria, siamo tenuti a rispettare.

     Il musicista ne è ben consapevole, che si tratti di uno di quei geni come ne nascono pochi ogni secolo o di un mestierante che realizza prodotti di intrattenimento più o meno dignitosi. Per esempio, un brano musicale che voglia farci danzare sarà quasi certamente basato su una cellula ritmica ripetuta sempre uguale per tutta la durata del brano (vale a dire: nel corso del tempo). L’ascoltatore “memorizza” questo ritmo e lo riproduce col movimento del proprio corpo, in un processo di amplificazione psicofisica che lo rende un ballerino. Questo vale sia che stiamo scivolando leggiadri sulla pista di una balera, sia che ci stiamo agitando forsennati in una discoteca, sia che battiamo le mani o i piedi davanti alla televisione durante il “Concerto di Capodanno”. In definitiva, è come se il compositore ci stesse parlando: “Ascolta! Ti propongo questo ritmo. Adesso te lo faccio ascoltare di nuovo, e poi ancora e ancora… Lo riconosci? È sempre lo stesso!”

     Non solo: fa appello anche alla nostra memoria extra-testuale e a tutto un bagaglio di convenzioni condivise. Per cui, se, in un brano che non conosciamo e che ascoltiamo per la prima volta, ci succede di riconoscere la caratteristica cellula ritmica “ùn-due-tre”, saremo in grado di classificarlo come valzer. Ed è come se il compositore ci dicesse: “Questo ritmo che ti sto facendo ascoltare, tu lo conosci già! Ricordi? È un valzer! Sai come funziona, sai cosa fare!”

     Naturalmente non è tutto qui. Intanto il ritmo è solo una delle tante componenti di un brano musicale. E poi, la ripetizione a oltranza di una formula già memorizzata, dopo un po’, diventa monotona.

     Quando facciamo un’esperienza piacevole, la ripetiamo volentieri. Anzi, la sensazione positiva delle volte successive è aumentata dal ricordo delle volte precedenti. È il motivo per cui riascoltiamo una canzone o rileggiamo un romanzo o riguardiamo un film, pur conoscendoli già a memoria e dunque venendo a mancare ogni sorpresa. L’abitudine è gradevole, è rassicurante. Ma prima o poi si arriva a un punto di rottura. Subentra la noia o addirittura il fastidio. Se il caffè è un piacere, berne una damigiana intera è un dolore. Nella vita abbiamo bisogno anche di novità, sentiamo il fascino dell’imprevisto. D’altra parte, anche questo comporta dei rischi: l’ignoto ci spaventa, fa crollare le certezze su cui abbiamo costruito la nostra esistenza. Il giusto, come sempre, sta nel mezzo.

     Ecco che i bravi autori sanno giocare astutamente con il cosiddetto “orizzonte d’attesa” del pubblico: ci danno quello che vogliamo ma in maniera sempre diversa. Se Pippo al mattino esce di casa e scivola su una buccia di banana, la cosa ci fa ridere. Se il mattino dopo, scivola di nuovo, noi ridiamo di nuovo (è il meccanismo del tormentone). La terza volta, probabilmente, non rideremmo più: allora il bravo autore ci dà Pippo che stavolta salta la buccia di banana, esulta dalla soddisfazione di non esserci ricascato e… va a sbattere contro un palo. Quante volte siamo rimasti col fiato sospeso allorché la vita di Archie Goodwin veniva messa a repentaglio dall’assassino di turno? Sapevamo bene che se la sarebbe cavata, e questo ci gratificava, ma, settimana dopo settimana, provavamo anche il piacevole brivido del “chissà come andrà a finire”. Ancora più semplicemente: sappiamo bene che, parlando a un pubblico, non è saggio essere monotoni, andare sempre alla stessa velocità e con lo stesso volume; il bravo oratore scandisce il discorso, dosa l’enfasi, accelera e rallenta, alterna sussurri e grida, indulge in pause a effetto.

     Come si traduce tutto questo in musica? Nell’arte della “variazione”. Ogni serata in balera mescola gli energici balli di gruppo agli indispensabili “lenti”. Ogni concerto rock, anche quello più spietato, non fa mancare mai il rituale “momento magico” (sperabilmente con ondeggiamento di fiammelle). Persino nella più becera delle discoteche, i deejay, ogni tanto, sospendono per qualche istante l’ossessivo frenetico martellare, col risultato che chi è in pista prova la sensazione improvvisa di galleggiare. Il famoso crescendo rossiniano non è altro che la riproposizione ostinata dello stesso schema ritmico, che però, a ogni iterazione, viene potenziato dall’aggiunta di nuovi strumenti: non si tratta di un aumento di volume o di velocità, ma di massa sonora. Il celebre “Bolero” di Ravel è basato su due melodie che vengono riproposte sempre uguali per una ventina di volte: a cambiare sono solo gli strumenti che le eseguono, in una ricerca di varietà timbrica senza precedenti, con l’elettrizzante risultato che tutti conosciamo. Una tipica aria barocca è essenzialmente costituita da due parti: nella prima ci viene fatta ascoltare la melodia nella sua forma base; nella seconda, la melodia viene eseguita di nuovo (il “da capo”) ma arricchita e abbellita da colorature, volate, cascate, picchiettati, trilli, filature, puntature, corone… secondo il gusto e le capacità dell’interprete. La Quinta Sinfonia di Beethoven si apre con l’enunciazione del “tema del destino”, che viene poi ripetuto, fatto rimbalzare da una sezione all’altra dell’orchestra, amplificato, modificato, compresso nell’accompagnamento fino a diventare quasi impercettibile, ridotto ai minimi termini, destrutturato in tutti i modi possibili: eppure è sempre lo stesso tema, variato innumerevoli volte dopo quella prima potente enunciazione che lo ha così ben impresso nella nostra memoria. Il tutto ci appare ancora più geniale quando ci rendiamo conto che questo malleabilissimo materiale di partenza è assurdamente semplice: solo quattro note, e le prime tre sono uguali.

     Nella musica leggera, l’importanza della dimensione mnemonica è banalmente esemplificata dall’esistenza del “ritornello”: una sezione che, appunto, “ritorna” sempre uguale e che, per questo, risulta riconoscibile, si fissa nella memoria, e, presumibilmente, noi canticchieremo e fischietteremo (decretando il successo del pezzo).

     Prendiamo ad esempio un gioiellino come I giardini di Marzo: la canzone ha una struttura molto elementare: è composta in successione da una strofa, un ritornello, un’altra strofa e di nuovo il ritornello. I due ritornelli sono identici (stesse parole, stessa melodia, stesso accompagnamento), costituiscono il “gancio” per la memoria ed esprimono il “messaggio” della canzone, vale a dire il disagio esistenziale del protagonista. Le strofe, invece, pur avendo lo stesso profilo melodico, presentano più varietà. Cambia l’accompagnamento: la seconda strofa è molto più “drammatica” della prima, grazie all’aggiunta delle percussioni, all’appesantirsi della chitarra, all’innalzamento di un’ottava del canto di Lucio Battisti, alla comparsa di una seconda voce armonizzante e di altri accorgimenti. E cambia anche il testo: le strofe raccontano la storia, forniscono i dettagli, vanno a circostanziare il messaggio del ritornello. Quest’ultimo ci offre delle certezze, mentre le prime sono l’elemento di novità.

     Non è una regola fissa: accade di frequente che lo stesso ritornello, se ripetuto più volte, venga progressivamente arricchito, per esempio aggiungendo controcanti o salendo di tonalità (si ascolti, sempre di Battisti, Pensieri e parole); ma ho preferito proporre questo pezzo per via della sua struttura così schematica e anche del suo contenuto, il quale, di fatto, non è altro che una figura accumulatoria mnemonica, un viaggio nei ricordi, alla rinfusa, di una giovinezza tormentata.

     Un altro esempio, stavolta dal musical. La struggente Memory, tratta da Cats di Andrew Lloyd Webber, presenta più volte la stessa sezione, che a un primo ascolto sembrerebbe una “strofa”. Però, là dove ci aspetteremmo un climax e un ritornello, compare invece una nuova sezione di tono più dimesso, che evidentemente è solo un punto di passaggio. Il climax, opportunamente ritardato, arriva dopo. Ma non è realizzato con un ritornello, perché a ritornare è la strofetta iniziale, che già ben conosciamo, modulata ad una nuova tonalità, arricchita nell’accompagnamento, aumentata nella dinamica e tale da spingere la voce dell’interprete all’acuto.

     Sintetizzando, mentre la canzone “all’italiana” alterna strofe e ritornelli (con le caratteristiche che abbiamo già esaminato), la canzone “all’americana” prevede una successione di “chorus” (spesso erroneamente scambiati per ritornelli) occasionalmente intervallati da “bridge” (“ponti”) di transizione. In entrambi i casi l’autore ci guida lungo un percorso attraverso materiali via via nuovi, reiterati, rinnovati. Se si vuole un’ulteriore dimostrazione dei due modelli, basterà prendere Let it be e Yesterday, grandi successi dei Beatles: la prima è strutturata all’italiana, la seconda all’americana. Tra i pezzi di Elvis Presley, prendiamo invece Love me tender e Are you lonesome tonight?

     Tornando alla lunare Memory, va da sé che ho scelto questo brano pure per via del suo contenuto, anch’esso legato al concetto di “memoria”: la gatta Grizabella, caduta in disgrazia, sta qui rievocando i ricordi della perduta felicità, e chiede di poter rinascere a nuova vita in un mondo migliore.

     Prendiamo adesso un grande classico del jazz: West End Blues, capolavoro di Louis Armstrong. Dopo una magistrale introduzione che da sola meriterebbe pagine di analisi (è stato fatto, da studiosi molto più competenti di me), la tromba di Armstrong presenta la melodia nella sua essenza; segue una variazione della stessa melodia proposta dal trombone (e viene modificato anche l’accompagnamento); quindi un’altra variazione stavolta affidata al clarinetto (col controcanto della voce); poi un assolo di pianoforte a sé stante (per fugare ulteriormente la monotonia); il ritorno della tromba per una terza variazione; infine una “coda” conclusiva. Ascoltiamo in particolare la terza variazione, quella dopo la sezione “ponte” del pianoforte: all’inizio sembra che la tromba voglia ripetere il tema, come se fosse un ritornello, ma, inaspettatamente, la terza nota viene prolungata oltre il dovuto con un effetto sorprendente ed esaltante, per prendere una strada inaspettata. Il brano “decolla” e raggiunge l’apice. Ecco come il grande Louis gioca, sapientemente, con il nostro orizzonte di attesa.

     Aggiungo che il jazz ha davvero elevato a sistema l’arte della variazione. Diversamente dagli altri generi musicali, infatti, nel jazz non è importante cosa si suona ma come. Sono relativamente poche le composizioni originali nel jazz, perché l’abilità di un musicista, in quest’ambito, sta soprattutto nell’improvvisare a modo suo su materiali altrui già noti (i cosiddetti “standard”, vale a dire il repertorio condiviso). Un meccanismo che, in quel grande tritacarne che è l’attuale mercato della musica leggera, non è ammissibile: eppure, mediamente, c’è molta più creatività in un anonimo assolo jazzistico che nell’ennesima “novità” pop, infarcita di cliché e destinata a essere rapidamente consumata e dimenticata.

     Allarghiamo la nostra prospettiva, dal singolo pezzo a una macrostruttura. Nell’opera lirica particolarmente frequente è la tecnica della “reminiscenza”: il compositore abbina un determinato tema conduttore a un momento emotivamente forte; in seguito lo richiama, adeguatamente trasformato, caricandolo di ulteriori significati e sensazioni. La morte di Violetta nella Traviata non sarebbe così commovente se non aleggiasse, in sottofondo, la melodia di “amore palpito dell’universo” che abbiamo già sentito a inizio della vicenda allorché Alfredo le si dichiarava. Similmente, durante l’agonia di Mimì nella Bohème, riecheggia la “gelida manina”, già udita al suo primo incontro con Rodolfo. L’entrata di Cavaradossi prigioniero a Castel Sant’Angelo, all’inizio del terzo atto di Tosca, è accompagnata da una proverbiale cascata di violini. Poco dopo, Cavaradossi viene lasciato solo ad attendere la fucilazione: altrettanto solo, un clarinetto riprende la melodia che abbiamo già sentito dagli archi. Il prigioniero dà quindi voce a quella melodia, rievocando i “dolci baci” e le “languide carezze” della sua innamorata lontana, e concludendo con “svanì per sempre il sogno mio d’amore”, sempre sulle stesse note. Molte cose accadono in seguito, tra cui l’arrivo inaspettato di Tosca con la notizia dell’imminente liberazione di Cavaradossi. Purtroppo è una vana illusione: lui viene effettivamente fucilato e lei, disperata e incalzata dai militari, si uccide lanciandosi dagli spalti del castello. Nel momento della tragica conclusione, gli ottoni e le percussioni in fortissimo, con tutta la loro drammatica potenza, insieme all’orchestra al completo, richiamano per un’ultima volta la melodia ben custodita nel nostro cuore; e noi non possiamo non constatare, con essa, che il sogno d’amore è svanito per sempre.

     Un discorso sul rapporto tra musica e memoria non sarebbe completo senza menzionare il ruolo dei ricordi personali dell’ascoltatore, cosa che finora ho fatto solo di sfuggita con riferimento al valzer, preferendo concentrarmi sulle strategie messe in atto dal musicista. Si tratta di un’ottica vastissima, la disamina della quale necessiterebbe di uno spazio che qui non abbiamo. C’è però questo, di buono: è un fenomeno che chiunque di noi sperimenta quotidianamente. Mi sia dunque concesso di limitarmi semplicemente a un aneddoto.

     Anni fa, al termine di una lezione piuttosto impegnativa sul Boris Godunov di Mussorgsky (durante la quale avevo dovuto districarmi tra le difficoltà della lingua russa, di una cultura lontana, di un intreccio astruso, di una musica non certo immediata), mi si avvicinò un’anziana signora. Mi raccontò che una volta, da ragazza, aveva assistito a una rappresentazione di quella stessa opera insieme a un giovanotto che la corteggiava, fingendo che le stesse piacendo molto, quando la trovava invece incomprensibile e terribilmente noiosa. Ebbene: quel giovanotto era in seguito diventato suo marito, ed era recentemente scomparso. Solo grazie alla lezione, a distanza di tanto tempo, la signora era riuscita a capire di cosa mai parlasse quella fatidica e misteriosa opera. E, concluse, un po’ commossa e un po’ divertita, le era anche piaciuta.

     Conservo il ricordo di quella signora, diventato anche un po’ mio, come uno dei più belli della mia esperienza di insegnante.

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