“Bisogna essere un po’ limitati per trovare bella la natura (…) bisogna che essa ti ricordi componimenti scolastici e mediocri poesie, e poterla trasformare di colpo in un’oleografia. Se no si è sopraffatti…” [1]

Nulla esprime più lucidamente di queste parole di Musil lo smarrimento di una facoltà estetica in grado di articolare la relazione tra soggettività e natura. Viviamo in un’epoca che ha esteso i confini dell’immaginabile, e nel contempo ha fatto deperire le forme di esperienza della natura non inscrivibili nel progetto tecnologico. Del resto, il fatto che il sentimento del bello naturale vada scomparendo, non comporta necessariamente una pacificazione dell’animo umano di fronte alla natura, come dimostrano le stesse parole di Musil, e come ha sottolineato anche Kenneth Clarck, già nei primi anni ‘60 del secolo scorso, nel suo fondamentale saggio sul Paesaggio nell’arte, mettendo in evidenza la scomparsa della percezione della natura come unità e le connotazioni apocalittiche della civiltà contemporanea.[2]

Ogni ideale estetico storicamente attivo, riconoscendo se stesso in un certo tipo di paesaggio, ne universalizza i caratteri estetici. Nel Novecento, la perdita di unità della natura, o meglio della sua immagine, sottolineata da Clarck, parallelamente alla frantumazione dell’immagine del soggetto operata dalla psicanalisi, determina una disseminazione dell’idea di spazio, dunque dell’idea di paesaggio. Il rifiuto del concetto di infinito proprio di molta cultura contemporanea, comporta la negazione del paesaggio, la sua riduzione a spazio misurabile: pura e semplice estensione quantitativa, il più possibile omogenea qualitativamente. Uno spazio dal quale viene, per così dire, raschiato via il paesaggio.

Nell’universo tecnologico il deperire dell’esperienza della natura va di pari passo con quello della memoria umana, in quella complessiva atrofia della capacità di esperienza diagnosticata da Walter Benjamin, il quale non a caso istituisce penetranti analogie tra il mondo della phisis decaduta e la temporalità della storia, sottoposti a una medesima legge di “mineralizzazione”, in cui traccia umana e detrito geologico si distinguono sempre meno [3]. Come l’arte classica per Hegel, la natura diventa “cosa del passato”. Le immagini del sublime naturale vengono così percepite, dall’uomo-massa del turismo e del consumo televisivo, alla luce di un’irrimediabile datazione storica.

Tuttavia, nell’immaginazione e nella memoria ormai atrofizzata, riemerge talvolta l’idea di un cosmo misterioso e rarefatto, di uno spazio infinito e incombente.  Idea che qualche volta prende forma e si fa immagine, in quella modalità di espressione umana che è detta arte.
E’ il caso della pittura di Roberto Pagnani, dove la presa di coscienza dell’ormai difficilissima esperibilità della natura, al di fuori della mediazione tecnico-scientifica o delle rappresentazioni dell’immaginario consumistico – sempre più evidente dal secondo dopoguerra ad oggi –  si accompagna a uno spostamento del senso – e dell’indagine sul senso – dello spazio, nella enigmatica vuotezza di questo spazio sopra l’orizzonte, e insieme nell’universo dell’interiorità.
Nel suo geniale e affascinante libro incompiuto Il Monte Analogo (1944), René Daumal riportava appunto a uno spazio interiore la genesi e l’effettualità del sublime, prendendo atto della scomparsa progressiva di una significatività del mondo naturale sotto l’incalzare dissacrante della ratio tecnologica, e salvando la natura nello spazio dell’interiorità. Così Roberto Pagnani, nei suoi paesaggi, e in particolare in questi recentissimi Cieli, ricrea un’immagine della natura, pur nella consapevolezza della sua non-univocità e della sua inevitabile quanto paradossale anti-referenzialità. E proprio su questo sembra fondarsi la forza della sua pittura di paesaggio.
Già Carl Gustav Carus (discepolo e sodale del grande pittore romantico Caspar David Friedrich) aveva affermato, nelle sue Nove lettere sulla pittura di paesaggio, che il paesaggio non è riproduzione della natura ma figura di un’idea di natura. Se pensiamo a questo, i paesaggi-cieli di Pagnani si rivelano anche come interessante dimostrazione dell’inconsistenza di ogni distinzione astratto/figurativo, iconico/aniconico.

Con il primo Romanticismo, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, si va precisando la concezione dello spazio della modernità contemporanea. Da condizione per rappresentare gli oggetti, l’idea di spazio, con tutte le sue valenze astratte, metaforiche, esistenziali, diviene essa stessa oggetto di rappresentazione: con il Romanticismo nasce quella che Lotman ha definito “lingua spaziale”. Nella pittura, alla rappresentazione del paesaggio si sostituisce l’ostensione dello spazio, cioè l’espressione di un’idea di spazio. Nel Novecento lo spazio comincia a rappresentare l’infinito, anzi si costituisce come presenza dell’infinito nel finito. Per questo anche il cielo, nella sua indeterminatezza e infinità, comincia ad essere considerato, di per sé, soggetto di un paesaggio. Quello che un artista contemporaneo come Pagnani guarda, è forse proprio l’inafferrabilità del concetto di spazio, accompagnata all’ineliminabile, sottilmente ossessiva idea di infinito: idea che appare amplificata, per contrasto, in alcuni dipinti della serie, dalla presenza in primo piano di isolati frammenti, piccoli lembi di materia-colore che spiccano nella compagine cromatico-strutturale.

Immagine-metafora del paesaggio, dunque, immagine-metafora del cielo, frutto di una ricerca maturata nello studio diretto delle opere dell’Informale storico europeo (da Mathieu a Moreni, da Vedova a Dova) e americano (da Gorky a Tobey), anche grazie alla tradizione collezionistica di famiglia, portata avanti in particolare dalla grande figura del nonno paterno, omonimo dell’artista. Nulla a che vedere, dunque, con quella facile e irenica “oleografia” della natura (la descrittività “realistica”?) di cui parlava Robert Musil, prendendo coscienza, talora con sferzante ironia, dell’ “impossibilità” del paesaggio nell’epoca contemporanea. La poetica pittorica di Roberto Pagnani sottrae immediatamente il problema della rappresentazione del paesaggio al confronto Immagine / Realtà.

Il mistero della materia – al centro di gran parte dell’Informale – l’impossibilità, per l’uomo, e in particolare per l’artista, di sciogliere i nodi fascinosi e pesanti nei quali essa imprigiona le mani, gli occhi, la mente, sembra essere un punto di partenza per l’arte di Roberto Pagnani. Uno dei punti cardine della sua poetica può allora identificarsi con il dissidio tra l’insondabile opacità della materia e il fantasma ammaliante e inafferrabile della forma: una fantasmatica ambiguità tra «vicino» e «lontano», ambiguità che sembra fondare le stesse condizioni di figurabilità, improntandole ad una logica quasi onirica.

In tutto questo ha grande importanza l’uso che Pagnani fa dei colori.  Colori che fluttuano a distanze imprecisabili, trapassando da una tonalità all’altra, come quelli filmari, detti anche “della lontananza”: i colori impalpabili del cielo, dell’arcobaleno, della nebbia fitta. Colori luminescenti, aurati, in cui l’aspetto fenomenico si trasfigura e sembra perdere la sua consistenza materiale, per assumere un significato spirituale in rapporto alla sensibilità di chi lo osserva.  Il colore filmare di questi dipinti – si vedano ad esempio Paesaggio I, Paesaggio III, o Silent Spring – è il contingente fenomenico di un’esperienza visiva trascendentale. Ma non ha nulla di meta-fisico (nel senso che assume il termine nella tradizione filosofica occidentale platonico-aristotelica): al contrario, sembra pulsare in consonanza con il nostro respiro. I Cieli di Roberto Pagnani sembrano allora dialogare con i “walls of light” di Mark Rothko, che alla fine degli anni ’50 avevano affascinato anche quello straordinario poeta-critico-glottologo-antichista che fu Emilio Villa (che a Rothko dedicò anche un testo sulla sua rivista “Appia Antica”, nel 1960).

Di fronte a un dipinto di Rothko, se si socchiudono appena un po’ gli occhi, la pittura sembra staccarsi dal quadro e venire verso di noi, come se si trattasse di un’emissione luminosa. Rothko cerca nei suoi quadri la vibrazione di una luce vivente, lavorando solo con le campiture di colore e i rapporti cromatici. La luce, da mezzo per elaborare una visione, diventa l’essenza stessa della visione. Nella drammatica ricerca di questa luce assoluta si consumerà anche l’ultima energia del pittore, morto suicida nel 1970. Ecco allora i suoi grandi rectangular fields di colore tonale (colore-luce) dai bordi sfumati e dissolventi, fluttuanti gli uni sugli altri. Forse un richiamo alle miniature dei manoscritti nella tradizione ebraica orientale, dove per distinguere blocchi di testo si usano campi di colori diversi? La pittura di Rothko, comunque, vibra sempre nel desiderio di un’identificazione con l’assoluto, che ha sullo sfondo la mistica ebraica della Kabbalah, dove è costante la ricerca dell’identità pensiero-materia. E a un assoluto anti-metafisico, un assoluto immanente, insieme materiale e spirituale, impalpabile ma pulsante di vita, guarda anche la pittura di Roberto Pagnani. Se i dipinti di Rothko sembrano usciti dalle pagine dello Zohar, o Libro dello splendore (il più importante fra i testi della Kabbalah, scritto nella Spagna del XIII secolo), dove Dio piega e dispiega abiti di luce, la pittura dei Cieli di Pagnani può far pensare alla corrente mistica cristiana di Dionigi Areopagita, che interpreta la struttura dell’universo come un flusso di luce derivante da Dio, e che si estende direttamente sui diversi livelli della creazione. Una corrente che certo influenzò anche gli antichi maestri mosaicisti bizantini attivi nelle basiliche di Ravenna, la città del pittore.
La sostanza che Roberto Pagnani estrae, dipingendo, dalla palus informe della materia, a partire dall’influsso dell’Informale storico, profondamente radicato in lui sin dall’infanzia, si svela in un’esperienza del tempo che è esperienza dell’istante: l’artista sottrae il continuum spazio‑temporale alla banalità della percezione ‘normale’ per restituirlo in qualche modo alla dimensione dell’assoluto. E l’assoluto, oltre che della luce, è anche dimensione del silenzio. E il silenzio richiama un senso dello spazio come far-vuoto. Ecco allora l’immagine scaturire da un processo di sottrazione, cancellazione, rarefazione, che ci fa pensare a quanto Heinrich von Kleist scriveva di un dipinto di Caspar David Friedrich, nel quale drammaticamente si specchiava: “giacché esso, nella sua monotonia e immensità, non presenta nulla in primo piano, fuorché la cornice, quando lo si osserva si ha come l’impressione che le palpebre vengano recise”. [4]

C.D. Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-1810

L’esperienza del sublime è esperienza dell’interruzione del poter-dire, esperienza della fragilità e precarietà dell’identità umana. Per questo motivo, il sublime riguarda un arcaico immemoriale, vertiginoso, che è compito paradossale dell’arte conservare all’interno dell’opera.
Il sublime si presta ad essere “riletto” dalla contemporaneità perché è il luogo del costituirsi dell’immagine non in quanto equivalenza o rassomiglianza, riproduzione, mimesi di qualcosa, ma in quanto prodursi dell’apparire: è il luogo di ciò che Kant chiama “immaginazione”, facoltà di far sorgere alla vista, cogliere visivamente una presenza. Questa è la sfida impossibile di quel nuovo sublime che è il paesaggio nella pittura contemporanea: il suo ammutolire e oscurarsi coincidente con il mostrarsi, l’instaurazione e oltrepassamento dell’immagine; il suo apparire che non è necessariamente apparire inaugurale, ma anche dialogo con le immagini del passato, dunque memoria. E dalla memoria nasce il sogno, che è anche il regno del presente assoluto, il (non)luogo dell’immaginazione: forse quel “non-luogo di purezza inattaccabile” di cui parlava Wols, il grande pittore-poeta informale tedesco.[5]

Un altro grande pittore informale, americano, William Congdon (amato dal nostro artista), affermava che “Un quadro è luogo, non oggetto”: così i paesaggi di Pagnani si costituiscono materialmente come luoghi, che risultano da una delimitazione reale e insieme immaginaria dello spazio, per poi subito superare quei limiti.  L’inquadratura, per il Pagnani paesaggista, è il gesto che caratterizza il paesaggio come frammento: delimita il campo dell’immagine, come spazio dis-creto, frammentario. E’ il gesto che determina il confine del luogo rispetto al continuum dello spazio infinito, e insieme ne suggerisce il superamento. Allontanarsi, andare oltre i limiti: accedere allo spazio infinito della mente e dell’universo, che finiscono col coincidere. I “cieli” di questi paesaggi, allora, potranno configurarsi come quell’ “apparizione unica di una lontananza”, con cui Walter Benjamin identificava l’“aura” di ogni autentica opera d’arte.

Roberto Pagnani, C’era una volta il cielo, 2024, smalti e tempere su tela (Ph. Martina Baldetti)

                                                                    


[1]  R. Musil, L’uomo senza qualità, tr.it. Einaudi, Torino 1980.

[2] “E in questi ultimi anni la natura non è sembrata soltanto troppo grande e troppo piccola per la nostra immaginazione: è anche sembrata priva di unità. A chiunque, fuorché a un alto matematico, la natura non sembra più agire conseguentemente in tutte le sue operazioni. In questi ultimi anni abbiamo anche perduta la fede nella stabilità di ciò che con fiducia chiamavamo ‘l’ordine naturale’; e, quel che è peggio, sappiamo di essere noi stessi in possesso dei mezzi per distruggere quell’ordine.”

(K. Clarck, Il paesaggio nell’arte, tr.it. Garzanti, Milano, 1985 (I ed. 1962), pp.205-206.

[3] Cfr. W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, a cura di A. Barale, Prefazione di F. Desideri, Carocci, Roma 2018.

[4] H. von Kleist, Sensazioni dinanzi a un paesaggio marino di Friedrich, in C.D. Friedrich, Scritti sull’arte, tr.it., SE, Milano, 1989.

[5] Wols, Aforismi, traduzione e saggio introduttivo di S. Pegoraro, Pendragon, Bologna, 1996 .

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