Il dialogo che vi proponiamo Martina ed io è un dialogo audace perché ci porterà verso un ambito – quello dell’iconografia – da punti di partenza molto diversi. E per certi aspetti incommensurabili, nel senso che vi comunicheremo esperienze che non sarebbero in nessun modo confrontabili, se non avessimo avuto l’audacia appunto di farci delle domande e di interrogarci intorno ad una questione che ci sta molto a cuore come donne e come donne dell’Ordine della Sororità, la questione cioè del simbolico.  

Lo faremo con la fiducia che saprete discernere Tra oro e oro

Inizia Martina

Perché parlo di icone: perché l’icona è diventata, ormai da più di vent’anni, il mio modo di stare nel silenzio, di approfondire e conoscere figure di sante, mistiche, il mio modo di pregare, di mettermi in contatto con il divino, l’altrove, il mistero. Quando progetto, scrivo un’icona, tutto viene coinvolto, mani, occhi, mente, cuore. I contorni si attenuano, io sono lì con tutta me stessa in sintonia con l’icona che sta prendendo forma.

Da sempre, dai tempi della giovinezza, ho sentito il fascino dell’icona per l’invito alla profondità e all’apertura dello sguardo verso l’invisibile; l’icona da cui lasciarsi guardare con lo sguardo che va oltre e tocca dentro. Considero l’iconografia un grande dono e mi ritengo fortunata. L’ho sentito con tutta me stessa nel tempo della pandemia. Non solo mi ha fatto compagnia, ma mi ha aiutata a “stare”, a meditare, a contemplare, ad andare più in profondità. In particolare mi ha coinvolta, affascinata, commossa la grande croce che ora si guarda, si prega, nella bellissima chiesa di Felonica. È questo che l’icona chiede, diventa la preghiera del cuore.

Nell’icona l’oro della luce divina, il legno dell’albero di tiglio, lo sbiancamento del leukas, la terra/le terre, le pietre sminuzzate e amalgamate dall’uovo, dal vino, dalle gocce di nardo e di mirra, tutto viene trasformato in questo processo che posso chiamare alchemico, per trovare forma, luce, colore, vegetazione, terra, vesti, mani, volti e per lasciare intravvedere l’altrove, l’invisibile dell’icona come un cammino, un pellegrinaggio verso la contemplazione.

Si aprono spazi tra visibile e invisibile, per scorgere tra luci e ombre per intuire e scorgere frammenti di mistero, di verità di sé e del mondo, per intravvedere fili nuovi di relazione. L’icona è stata detta teologia a colori, teologia visiva, teologia della presenza, finestra sull’invisibile, frammento di mistero, arte teologica. Cristina Campo resta affascinata da tutto quel vivido, fulgido, ritmico cosmo simbolico che senza tregua accenna, allude, rimanda a un suo doppio celeste del quale non è che l’ombra stampata sulla terra. E Maria Sokolova, grande iconografa russa che considero maestra, restauratrice della stupenda Lavra della Trinità di San Sergio, la chiama preghiera incarnata, simbolo della Presenza della Shekinàh, canale di grazia dello Spirito. Antonella Anedda, riflettendo su L’icona e lo sguardo, ne mette in luce lo stretto legame dicendo che il volto è ciò in cui affiora lo sguardo, è lo spazio in cui la creatura rivela per cenni ciò che è stata, ciò che forse sarà in futuro, è la terra contigua tra il passato e il futuro… Diversamente dal quadro, dal quadro classico -rinascimentale, l’icona non distrae, non consola con la bellezza, ma accoglie il mondo attraverso la materia… Chi guarda un’icona, chi la guarda davvero, può non avere fede nel senso cristiano del termine, ma può provare fiducia… può raccogliersi per un attimo e là per un attimo placarsi…

L’icona invita alla bellezza e la bellezza salverà il mondo, come spesso si ripete. La bellezza dell’icona non è solo estetica, ma è spirituale, interiore.  ‘L’incarnazione è l’epifania del bello’. Guardare, lasciarsi guardare dall’icona apre lo sguardo alla bellezza, spinge ad andare alla fonte stessa della bellezza. Per questo è un’avventura, una ricerca che tiene aperto il cuore alla fiducia e alla speranza, una scoperta continua di cui anch’io sento lo stupore, la sorpresa, la gratuità e una riconoscenza infinita. 

Tanti i livelli di lettura di un’icona. Il primo livello, che cosa rappresenta…

Poi Il livello simbolico: il linguaggio dell’icona è quello dei simboli tra visibile e invisibile, appartiene ai sogni, è quello della liturgia, delle celebrazioni. Tutto ha un significato, niente è casuale: il tipo di legno, la forma, la culla… l’oro e i colori: il rosso della Sapienza, il blu della profondità, il verde dell’energia vitale… Il livello di interrogazione: l’icona si guarda certo, ma a sua volta lei ci guarda, ci pone domande: che cosa dice a me, che cosa mi colpisce…

L’icona è invito al silenzio, per arrivare alla contemplazione. Certo occorre molto tempo perché l’icona parli al cuore, l’organo della visione, perché diventi ‘roveto del cuore’. Esporsi al silenzio, avere un tempo di libertà nel respiro libero è entrare dentro perché l’icona diventi Shekinàh, presenza che ci rende aperte al non so. È difficile arrivare a questo silenzio aperto, è il dono di qualche frammento di attimi, per entrare nel mistero, per lasciarsi fare, trasformare, per sentire davvero dentro di noi la presenza del divino leggero, per sentirci donne divine…

Tre le icone presentate ad Asola, icone che hanno segnato e segnano la storia della Sororità, pensate, progettate, scritte invocando la sapienza della Ruah. Sono icone che non si rifanno a un modello classico come altre che sono conosciute, la Trinità di Rublev, la Madonna della Tenerezza, per citate le più famose. La prima fase dell’iconografia è imparare il canone iconografico, canone che non imprigiona la creatività, ma dà autenticità al messaggio nella consapevolezza che ciò che si scrive non è nostro, è dono e grazia.  Quando il canone è interiorizzato si può rischiare di dar vita e forma a icone inedite.  Certo serve tempo, studio, ricerca per osare dando spazio alla creatività, alle intuizioni, ai suggerimenti che arrivano a sorpresa come frammenti di luce nei momenti difficili.

Queste le icone scelte:

Icona della Sororità
Icona di Osanna Andreasi e Paola Montaldi
Icona del Canto di Sororità

ICONA DELLA SORORITÀ 

La Regola, scritta da Ivana Ceresa, è l’ispiratrice dell’icona, che accompagna da tempo il cammino della Sororità e che continua a indicare il sentiero della libertà nella ricerca tra donne sorelle. In alto la Ruah, lo Spirito che ci ha convocate, ci abbraccia e accompagna con Maria Incoronata. Ci sono le donne speciali con i loro doni di profezia, Osanna Andreasi, Paola Montaldi, Angela Merici, Teresa Fardella, Santa Speciosa. La montagna su cui si trovano è simbolo del cammino in salita, oltre la grotta che invita all’esodo dal sessismo e dal patriarcato. In basso le sorelle, in relazione vera nella valorizzazione delle loro differenze. Ciascuna ha qualcosa di inedito da donare nello scambio. È una scommessa questa, ma è quello che ci aiuta nella ricerca della libertà femminile nella chiesa e nel mondo.

Icona di OSANNA e PAOLA

Ho scritto questa icona in compagnia di Ivana Ceresa, la Fondatrice della Sororità. Lei parlava di Osanna e scriveva Il libretto, Osanna Andreasi e Paola Montaldi. Due donne per amare una città o l’oro delle vicine di casa. Già queste parole dicono il significato simbolico dell’icona e il simbolo è ciò che unisce oltre ogni frattura. Osanna e Paola sono state chiamate le “sante vive” per indicare la loro visione, la loro estasi: il Serafino con le sei ali circondato dalla mandorla blu del divino lo manifesta bene. Insieme il loro radicarsi nella città, nella storia, la loro relazione profonda, vera che dava forza energia sapienza al loro impegno politico di autorità di donne. Osanna e Paola toccano la mandorla blu del cielo, hanno forza e insieme leggerezza e trasparenza per guardare nella profondità del loro cuore (organo della consapevolezza e della visione) e insieme sono ben ancorate alla terra così da “percorrere le vie di Mantova per dar vita alla città” come faceva Osanna, la cui spiritualità è laica, aperta, nella libertà che come donne vogliamo diffondere nella chiesa e nel mondo.

ICONA del CANTO DI SORORITA’

È un’antifona mariana, il Salve radix, che le sorelle mi hanno chiesto di tradurre in icona. La Ruah, con il suo soffio ne ha accompagnato la scrittura e si trova in alto, circondata da angeli, presenze misteriose itineranti tra cielo e terra.

La Donna dell’Apocalisse è al centro, la donna dell’esodo dal sessismo, figura della differenza femminile che va nel deserto e ci spinge negli spazi profondi della consapevolezza, della ricerca del proprio sé, del desiderio più vero. Ai lati Elisabetta e Maria nell’incontro di Visitazione nella relazione libera e creatrice  con l’eco del Magnificat, Maria Maddalena, l’annunciatrice di resurrezione, l’apostola degli apostoli, e le molte altre con lei, Marta e Maria, segno del nostro quotidiano intriso di desiderio, Lidia, la prima diaconessa d’Europa, la cui casa diventa chiesa domestica, Chiara e le dame di san Damiano con la prima Regola scritta da donna per donne, le Beghine, nostre compagne amate, viaggiatrici intrepide su strade inedite e impensabili tra cura, scrittura, poesia, mistica, solitudine e comunione, Angela, fondatrice delle libere Orsoline, Teresa Fardella e le sorelle povere come noi amanti di Maria Incoronata. Sotto la prima Sororità nella gioia dell’altrove con Ivana, Luisa, Lia, Vanda, Graziella.

Ed ora Raffaella

Sono passati quasi tre anni dall’inizio della pandemia ma è difficile dimenticare quella primavera del 2020, quel tempo che abbiamo sentito come sospeso, limitati come eravamo tutti dal primo isolamento.   Erano di marzo e poi d’aprile e ancora di maggio quelle giornate luminose, in cui ognuna ognuno di noi si trovava ad abitare lo spazio che gli era capitato in sorte al momento delle restrizioni.   Io ero nella mia casa, circondata da un grande giardino: sola e lontana da figlie, nipoti, amiche…         Una mattina – erano i primi giorni di aprile – so la data precisa perché ho le foto – ho disposto sopra un vecchio tavolo, addossato alla tamerice, dei tondi di legno compensato, che venivano usati come coperchi di contenitori in un’azienda dove lavorava un mio amico chimico, che me li aveva regalati tempo prima, dicendo “Nel caso ti possano servire…” Sopra una mensola impolverata nel fienile ho trovato alcune bombolette spray, residui di pittura su arredi del giardino.    E ho cominciato a mettere colore sui tondi  Undici   Il giorno dopo ho smesso     Perché ho smesso?  Allo stesso modo di come ho cominciato    I tondi non mancavano tre bombolette ci sono ancora se pure non ho verificato che spruzzino colore    Undici tavole – non più tondi da che sono state dipinte – disposte ora in luoghi diversi della casa: cinque però – tutte col fondo oro – sono in una stanza con una storia a parte, dove mi fermo soprattutto d’estate per leggere ascoltare musica portare il silenzio nella mente      E guardare      in particolare questa tavola.

E guardandola giorno dopo giorno mutare a seconda della luce che la toccava, ho cominciato a vederla e nominarla in altro modo, sapendo che questo è il lavoro del simbolico: un’attribuzione di senso, dove prima non c’era, in un percorso che dal soggetto muove verso l’oggetto e ritorna, qui poi riflesso dall’oro.   Così nei giorni, posando lo sguardo anche sulle altre – quelle del fondo oro –   ho fatto riferimento a loro come a le mie icone.

Sapevo bene di usurpare un titolo prezioso che avevo onorato nella collezione della Galleria Tetrjakov a Mosca, al museo di San Pietroburgo come in tante chiese ortodosse e non da ultimo nella maestria di Martina.  Eppure…   Le chiamo così, perché le sento così: aperture verso un Altrove.   Come quando siamo chiamate a interpretare dei segni o oggetti disseminati come per caso e sentiamo di dover dare loro un significato senza ridurli a semplici contingenze: (siamo qui e siamo anche altrove) c’è questo e c’è altro e c’è altro che ancora non sappiamo fino a che non accettiamo che prenda forma in noi il disegno di un Altrove.    

Mi sono domandata poi se conoscevo degli artisti contemporanei, le cui opere possano essere considerate icone nel senso che intendiamo noi qui: porte del sacro.      Senza stabilire confronti, ma cercando esperienze del divino, anche là dove non ci aspetteremmo.    Ne ho trovati, ma mi limiterò a nominarne uno, perché è possibile seguire la sua ricerca negli scritti, oltre che nelle opere e perché si lega da vicino alla riflessione che stiamo facendo.   È Mark Rothko, un ebreo russo naturalizzato americano, un artista che continua ad emozionarmi: avrete forse visto quei suoi quadri di grandi dimensioni con due o tre ampie campiture orizzontali dai colori accesi e dai margini morbidi e sfrangiati.   L’opera d’arte – afferma Rothko negli scritti, pubblicati di recente in Italia col titolo Vivere l’arte (1934-1969) – ha la vocazione ad essere non un “messaggio”, ma una finestra sulla realtà, capace di trasformare il modo ordinario di vedere le cose.  E ancora: “I quadri devono essere miracolosi: non appena uno è terminato, l’intimità tra la creazione e il creatore è finita.  Questi diventa uno spettatore. Il quadro deve essere per lui, come per chiunque altro ne faccia esperienza più tardi, una rivelazione, una risoluzione inattesa e inaudita di un bisogno sempre presente”.   Questa rivelazione diventa “una sorta di preghiera a un dio sconosciuto” (Rothko fu profondamente colpito dai mosaici bizantini visti nel suo viaggio in Italia nel 1950).  In tutto questo movimento che coinvolge lo spettatore è come se l’esigenza profonda fosse il superamento della solitudine, e la tela ricominciasse a “respirare e a tendere ancora le proprie braccia” in una dimensione drammatica che non è puro movimento di forme astratte. Le macchie di colore per Rothko hanno “la concretezza pulsante di carne e ossa, la ricettività di gioia o dolore”, che assorbe il respiro della vita.     Ma perché macchie di colore e non figure umane o elementi ordinari del mondo che ci circonda? Rothko riflette sul fatto che ci fu un tempo nel quale gli artisti vivevano in una società più “concreta” della nostra, dove “il bisogno pressante di un’esperienza trascendente era ben compreso e gli era conferito uno statuto ufficiale”.  Adesso invece, a suo giudizio, tutto questo non è più e dunque “l’identità familiare delle cose va ridotta in polvere” per aprire la tela a questa esperienza, senza la quale l’arte sprofonda nella “malinconia” come di chi perde qualcosa o qualcuno.   “Quanti piangono davanti ai miei quadri – confessa l’artista – vivono la stessa esperienza religiosa, che ho vissuto io quando li ho dipinti.” (printed vel un velo del Tempio dipinto o un’iconostasi, che insieme tende a nascondere e a mostrare una Presenza) Come gli antichi pittori di icone che si preparavano, pregando nelle lacrime.    Penso all’ultima opera di Rothko, considerata il suo capolavoro e presentata al pubblico un anno dopo la morte dell’artista avvenuta nel 1970: quattordici tele dalle dimensioni monumentali, dipinte su commissione per una cappella interreligiosa a Houston nel Texas.    Tutti i quadri sono scurissimi, apparentemente neri, in realtà ottenuti con pigmenti dai colori cupi, nero opaco, marrone, viola scuro, con bagliori di rosso. Senza ampliare troppo il discorso, guardare le tele di Rothko vuol dire per me posare gli occhi sul Mistero, interrogarlo, coglierne lo splendore, la gloria della luce in ogni suo apparire, inclusa la sua assenza, incluso il nero, il nero come oro rovesciato, la luce nascosta della mistica ebraica, la notte oscura di Giovanni della Croce.    Questo è per me sostare di fronte a un’icona contemporanea, contemplare (cum  templum lo spazio del cielo, che l’augure circoscriveva col suo lituo, per osservare il volo degli uccelli e dunque la volontà degli dei ).           Dal grande al piccolo, dal piccolo al grande: da tante vie con materie diverse ci possiamo avvicinare a quell’Oltre, di cui ci ha parlato Martina e che ci mostrerà in un’altra sua icona.  Due donne abbracciano l’Oro

“A differenza del fregio, l’icona trema, come un volto appunto che assorbe luce ed esprime fiducia proprio in ciò che il visibile nasconde.  

‘Siamo senza strada e senza sogno

ma sempre con una candela che trema

e resta nella nostra mano’ (sono versi di René Char in Antonella Anedda, La luce delle cose)”.  

  1. Avatar Chiara Pellegrini
    Chiara Pellegrini

    Raffaella, Martina! GRAZIE!!
    Imparo molto dal vostro…oro.
    Amiche, Maestre…vi abbraccio!
    Chiara

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