C’è ancora domani

In sala si applaude. Non succede così spesso, anzi. Ma improvvisamente donne giovani, anziane, persino ragazzine e uomini “pentiti” lo fanno di fronte ai titoli di coda del primo film da regista di Paola Cortellesi, ex burina di gatti in tangenziale e spiaggiata a Coccia di Morto, dal cuore tenero e la battuta in canna come da onesta tradizione della commedia “all’italiana”. E infatti nell’alveo di quella gloriosa tradizione la “splendida cinquantenne” romana entra in modo autoriale e alla sua maniera, dimostrando di essere cresciuta in ottime scuole (e si vede).

Rimpianti

La storia in breve

Roma, maggio 1946. Delia vive in un seminterrato col manesco marito Ivano, col suocero allettato e tre figli da mantenere tra mille difficoltà. Infatti racimola denaro facendo iniezioni, riparazioni di sartoria e produzione artigianale di ombrelli. Unico conforto al suo ménage familiare è l’amica Marisa e il suo amore di gioventù Nino, un meccanico che ancora la vorrebbe con sé magari emigrando al nord. Peraltro Delia accetta le botte anche per amore della figlia Marcella, che è fidanzata e dovrebbe sposarsi, e perché quella è la vita dopo la guerra. Ma una lettera che tiene segreta, e un soldato afroamericano della Military Police che si propone di aiutarla, forse riusciranno a cambiare qualcosa proprio a ridosso del referendum istituzionale che sancirà l’ingresso delle donne italiane ai seggi elettorali.

Col cadavere del patriarcato

Dimenticare Roma (città aperta)

Il bianco e nero, l’ambientazione nei caseggiati popolari del Testaccio, la vita quotidiana tra i cortili rimandano immediatamente ai maestri del neorealismo e a Una giornata particolare di Ettore Scola, anche se il fascismo storico si è concluso (ma quello culturale gode ottima salute). Eppure basta l’incipit, con lo schiaffone iperbolico di Ivano/Mastandrea alla incolpevole Delia, per farci capire che siamo un gradino sopra il realismo. I successivi titoli di testa su colonna sonora pop-rock ci danno un’ulteriore conferma, ma quando arriviamo alla sequenza del pestaggio della protagonista in forma di balletto non ci sono più dubbi: dimenticate De Sica e Rossellini, ma pure Scola con Mastroianni e la Loren; dimenticate il pedinamento zavattiniano e i rumori della strada che fuoriescono prepotenti a destra e a sinistra. I personaggi del racconto, in particolare quelli maschili, spesso sconfinano nella caricatura; i suoni esterni sono come ovattati, assorbiti nell’inquadratura, come se ci trovassimo in un grande teatro all’aperto. E’ proprio in questo teatro che la regista costruisce la sua commedia con adesione e convinzione, mescolando abilmente dramma sociale e comicità, stile antifrastico e aperture liriche, relegando il mondo maschile (dai più piccoli ai più grandi, con rarissime eccezioni) a un armamentario di spocchia, cinismo e menzogna. Il grande merito del film è in fondo quello di aggiornare in chiave femminista la grande tradizione della commedia italiana, attingendo con perizia alla storia per parlare di oggi, di violenze quotidiane e diritti da rivendicare proprio quando sembrano carta inutilizzata (come il diritto di voto).

La sera dei miracoli

Il Cortellesi touch

L’esordio alla regìa di Paola Cortellesi è di quelli da tenere ben stretti, senza dunque scomodare inopportuni confronti con la grande stagione neorealista. Qui il realismo, senza che si abbandoni la credibilità dei sentimenti,  lascia il posto alla manipolazione arguta degli stereotipi cine-musicali. Le canzonette d’epoca sono utilizzate in funzione antifrastica mentre la musica extradiegetica (La sera dei miracoli di Lucio Dalla, ad esempio) rafforza e potenzia le scelte del personaggio. Ma è nelle infrazioni più ardite che emerge il “Cortellesi touch”, il distanziamento comico sia dal dramma più brutale che dai codici espressivi del sentimentalismo filmico: nel primo caso il pestaggio del marito violento si traduce in un balletto totalmente irreale e indolore; nel secondo l’estenuante panoramica circolare intorno a Delia e Nino con i denti sporchi di cioccolato si fa beffe degli struggimenti alla Lelouch e di tutti i codici pubblicitari. Per non parlare delle scuse fasulle che il marito Ivano porge a Delia, rappresentate dalla regista con pose da cinema muto alla Rodolfo Valentino. Di fronte a questa stilizzazione del narrato diventano perdonabili anche piccole falle di sceneggiatura (difficile giustificare un accordo tra Delia e il soldato americano quando il bar del temuto futuro suocero della figlia esplode col tritolo), riscattate da una adesione al personaggio sincera e convincente. C’è ancora domani non è un capolavoro ma un film riuscito e intelligente, che va ricondotto alla sua dimensione di commedia agita in un teatro all’aperto, abile nel costruire opposizioni (maschile/femminile – borghese/proletario) e catturare la risata con situazioni, battute e linguaggio popolare. Risi e Monicelli sono i suoi padri nobili, Paolo Virzì e Riccardo Milani il trait d’union con l’oggi, aggiornato da una sensibilità femminile e femminista arguta e vitalissima.

Servitù
  1. Avatar lorella Rotondi
    lorella Rotondi

    Ottima, personale, professionale lettura che condivido pienamente

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