Portano questo titolo gli scritti politici di Fabrizia Ramondino: modi per sopravvivere.                                   
Ho sempre pensato che l’opera, letteraria soprattutto, per me, fosse il suo modo di essere nella pratica politica. Qui vengono presentati scritti legati al suo lavoro sociale, volontario spesso, alle sue riflessioni sui fenomeni del tempo, nella città che più le è stata cara tra tutte quelle che ha amato, Napoli. I disoccupati, la malavita, la droga, le tragedie come il colera e il terremoto, ma anche l’esperienza dell’incontro con il popolo Sahrawi nel deserto algerino o la riflessione su Sarajevo dopo l’assedio costituiscono la sostanza di questo volume. A partire dall’esperienza giovanile del CCC (Centro di Coordinamento Campano), che teneva salda la consapevolezza meridionalista appresa alla scuola di Manlio Rossi-Doria, Fabrizia Ramondino guardava con interesse e adesione al pensiero di Cesare Zaccaria che nell’immediato dopoguerra aveva fondato la rivista “Volontà”, aperta a contributi di gruppi anarchici libertari, di personalità laiche di alto carisma come Salvemini e Capitini.
Il lavoro con i bambini nei vicoli, accanto a Vera Lombardi, nell’Associazione Risveglio Napoli mette in risalto le capacità relazionali e pedagogiche di Fabrizia che studia il progetto di Margherita Zoebeli, il Centro Educativo Italo-Svizzero, alla base del Movimento di Cooperazione Educativa. C’è poi l’impegno con quello che chiama ‘proletariato marginale’, attraverso un’inchiesta sui disoccupati organizzati che esce nel 1977, per Feltrinelli con il titolo Napoli: i disoccupati raccontano. Qui la questione tocca elementi fondanti che rilevano una rete di esperienze esemplari. A Castellamare di Stabia, fin dal 1972, si organizzano i disoccupati che si rifiutano di vivere di espedienti e reclamano il diritto a un lavoro stabile. Inoltre la disoccupazione prodotta dal nuovo tipo di sviluppo industriale, per ‘poli’, come a Pomigliano d’Arco, con l’insediamento dell’Alfa Sud, genera un’amara illusione in tutti coloro che contribuirono alla realizzazione del cantiere e che solo in piccola parte vennero assunti. Il ruolo della mafia nell’aumento della precarietà divenne poi riconoscibile nel fenomeno della gentrificazione: gli affitti e i costi della vita nei pressi di questi centri industriali crebbero a dismisura costringendo molti lavoratori ad emigrare. Anche l’esplosione del focolaio colerico nel 1973 venne strumentalmente usata per sgomberare il centro storico di Napoli e le zone costiere abitati da proletari.

Chi ha organizzato i disoccupati? “È la miseria che li ha organizzati”, risponde in un’intervista un disoccupato. Ma, accanto a questa miseria, che è il dato fondamentale, non bisogna dimenticare i fattori soggettivi: in primo luogo la memoria di tutte le lotte del proletariato precario napoletano dal dopoguerra, l’influenza delle grandi lotte operaie a Napoli a partire dal’69, le lotte di quartiere per la casa, contro il carovita, contro il colera; e in secondo luogo il lavoro modesto, oscuro, ma costante, di molti nuovi militanti della nuova sinistra, presenti nei vari comitati come avanguardie nel movimento dei disoccupati organizzati. 

Poi la riflessione di Ramondino si sposta sulle donne, dato che nel movimento persisteva l’idea che le donne non fossero né predisposte, né adatte alla lotta.   
Ferma e durissima la testimonianza di Elvira che, dichiarandosi apertamente femminista, subito si appropria di posizioni certe: le donne hanno diritto al lavoro, non vogliono essere forza-lavoro di riserva, vogliono diritti pari agli uomini, vogliono diventare esseri sociali e lottare per le scuole, gli asili, per l’affrancamento dalla condizione di subalternità.
Quella di Ramondino è una osservazione partecipata, come si direbbe in sociologia; nessun giudizio e nessuna interferenza ideologica, soltanto un desiderio, che corre tra le righe, di rivendicare dignità nella raccolta delle voci.             

Ognuno degli scritti raccolti in questo volume porta una modalità differente e compone uno straordinario caleidoscopio di interessi, ma le osservazioni che emergono da Necessità dei volti. Conversazione tra Patrizio Esposito e Fabrizia Ramondino, mi sembrano di grande attualità. Si parla del popolo Sahrawi e della sua esistenza nel deserto algerino dell’Hammada, là confinato dopo la guerra del 1975, scomparsa quasi immediatamente da qualsiasi notiziario. Esiste in quel luogo un Museo della Resistenza Sahrawi, “concepito come luogo di raccolta di armi e di umili cose prese durante le battaglie: registri, lettere, oggetti, fotografie e altre appartenenze personali del nemico”. Il loro stare insieme costituisce l’unico memoriale di una guerra nata per l’espansionismo di Rabat. Nel 1965 era stato riconosciuto dall’ONU il diritto all’indipendenza del popolo Sahrawi e alla Spagna veniva tolta la supremazia coloniale nell’area. Il Marocco la invase nel 1975, in accordo con la Spagna e la resistenza Sahrawi fu costretta a rifugiarsi in Algeria, nei campi profughi nei quali ancora precariamente questo popolo vive.
Fabrizia Ramondino vi si recò nel 1996 con Mario Martone, con il quale aveva scritto la sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano, per realizzare un diario che divenne il libro Polisario. Un’astronave dimenticata nel deserto.
È proprio Martone che ne parla in un articolo su “L’Unità” del 17 maggio 1997.

Quella Sahrawi è una società realmente egualitaria. È una società libera: libere le opinioni, libero il rapporto uomo-donna, pieno di attenzioni l’impegno per i bambini. È un popolo profondamente colto: non solo per la secolare tradizione di nomadismo e la contaminazione arabo-berbero-yemenita, ma anche per una capacità di analisi del contemporaneo per niente ingenua o timorosa. Grandi lavoratori, riescono con pochissimi mezzi a gestire un sistema scolastico completo come a far nascere un orto dalla sabbia. I Sahrawi non nascondono la loro povertà come se fosse una vergogna: al contrario sanno valorizzare e nobilitare il poco che hanno, al punto che le stesse tendopoli messe su con gli aiuti umanitari – che in tanti altri posti al mondo sono inferni senza redenzione – qua sembrano villaggi millenari. Sono infatti capaci di scrivere con i colori, con la luce, con i materiali più poveri sulla grande tela che è il deserto.
Hanno esposto al museo della guerra – semplicemente un grande recinto sotto il sole – delle casse di legno contenenti le innumerevoli foto che i nemici uccisi avevano con sé: fidanzate, madri, amici, compagni di scuola…
È una delle più sconvolgenti opere sull’assurdità della guerra che io abbia mai visto, realizzata con un’esemplarità che da un lato fa pensare a Beuys, dall’altro a Eschilo che ne I Persiani cantava il dolore e la dignità dei nemici vinti.

Fabrizia Ramondino approfondisce:

Sopravvissuto alle distruzioni e all’inclemenza del clima, quel memoriale, quel diario dei lutti e delle separazioni vissute, è forse unico nella storia dei conflitti, coloniali e non: anziché celebrare vittorie ed eroismi di una parte sull’altra, rivela la potenziale relazione che può stabilirsi nel tempo tra persone e famiglie indotte a schierarsi su fronti opposti. Il gesto sahrawi di conservazione delle appartenenze nemiche salvaguarda il volto del nemico, il ritratto che gli sopravvive, e si dice pronto a restituire quei lineamenti sospesi di cui è provvisoriamente custode.

Individuare queste istanze in un popolo lontano e dimenticato suona oggi come monito straordinario, di fronte a quanto accade nelle tremende guerre in corso.
Del resto tutta la scrittura di Fabrizia Ramondino rimanda di continuo a impegno e critica; la sua letteratura, mai remissiva nei confronti con la storia, sceglie sempre la prospettiva dal margine, dalle periferie della società e dell’anima. I suoi personaggi letterari non sono infatti diversi da quelli che emergono dai saggi di Modi per sopravvivere, e si stagliano sulla scena della narrazione con la forza della loro creativa diversità. Lo riconosce Annamaria Guadagni che pubblica oggi, 19 novembre 2023, sul “Foglio” una recensione del libro partendo proprio dalla narrativa e trovando in essa i tratti propri della scrittura politica. Non bastano la razionalità o una vocazione, bisogna amare, trovare regalità e bellezza dove altri vedono solo miseria e stracci.
Allora il borgo di Santa Maria del Mare in Althénopis, le donne di Passaggio a Trieste o i riti sociali di Guerra d’Infanzia e di Spagna non sono lontani dalla descrizione dei quartieri di Napoli, dalla gente che Fabrizia intervista nelle sue appassionate inchieste, dai modelli culturali che le impongono rigore di ricerca e analisi puntuale.
Ho visto la sua casa a Itri, qualche anno fa, quando Fabrizia era morta da alcuni anni, con alcune amiche, accompagnate tutte da Annalisa, la sorella piccola, l’Anita narrata nei romanzi, viaggiatrice instancabile e artista. Una casa luminosa, in cima al paese, una grande libreria, un tavolo da lavoro, un’eleganza assoluta, essenziale; bastò assaporarla per entrare in deferente sintonia con quella mente e quel cuore, e accogliere la sua scrittura e il suo pensiero non come generici ‘modi per sopravvivere’, ma come il modo più sincero per vivere.

  1. Avatar Beatrice Trenti
    Beatrice Trenti

    Questa testimonianza ha piantato semi molto fecondi nel mio profondo. Grazie. Se ‘siamo state’ di tanta apertura, saremo ancora capaci di spalancarci. Grazie.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *