Come molti avranno già capito, Primo è Primo Levi e Lorenzo è Lorenzo Perrone, quel Lorenzo che dal 1998 fu riconosciuto uno dei Giusti tra le nazioni, quell’“umile muratore, non prigioniero di Auschwitz”, dice Carlo Greppi nel Prologo, “lavoratore civile piemontese di Fossano, che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III- Monowitz, con il quale Levi si incontrò per diversi mesi, compensando la malnutrizione del Lager con zuppe di brodaglie che quest’uomo gli portava con regolarità. Tutti i giorni per sei mesi”, a rischio della sua vita. E non solo a Levi, ma anche ad altri internati del Lager. Senza motivazioni straordinarie, lui, uomo di “poche parole” – anche Levi, che tanto lo ha ricordato direttamente e indirettamente in interviste e brani di memorie, racconti, riflessioni, può dar voce a poche frasi –, se non che gli sembrava cosa da fare in quella situazione terribile. Il lungo, a volte un po’ troppo, saggio di Carlo Greppi, basandosi su praticamente tutte le scarse fonti disponibili, ripercorre di Lorenzo tutta la vita: dura, scandita su lavori faticosi da raggiungere e praticare, su rari se non nulli momenti di distrazione, peraltro dettati da consuetudini (ubriacarsi e fare a botte nell’osteria del paese) non solo poco risananti, ma decisamente nocive alla vita, come fu per lui. Una vita quasi conclusa, però, – anche se morì nel 1952 – nel suo incontro con la realtà di Auschwitz, quando la sua natura profonda emerse istintivamente, manifestando di lui l’etica tanto essenziale quanto schietta che, per Levi e non solo, fa di un essere umano un uomo. Infatti, dopo il suo ritorno a casa, non riuscì più a staccarsi dagli orrori che l’avevano tagliato dentro, ad avere fiducia nella umanità. Sono commoventi tutti i tentativi di Levi – e l’evidente affetto, pur nel pudore, che li accompagnava – con cui cercò di riportarlo alla vita, che ai lettori appaiono anche più amari, sapendo come lui stesso, Primo, non riuscì a realizzarli compiutamente per se stesso. Un lungo lungo saggio, dicevo, dove l’autore molto spesso s’immerge in prima persona nella narrazione, non solo mostrando la faticosa ricerca percorsa, ma anche l’entusiasmo per il pur minimo riscontro, la quasi devota indagine nell’opera e nella vita di uno stimatissimo Levi, per non parlare di una vera e propria emozione morale di fronte ad un uomo come Lorenzo, di cui insiste a sottolineare le ‘umilissime’ condizioni sociali quasi per innalzare ancora di più la spontanea ma non semplicistica figura etica. Ma forse anche per proporre indirettamente una riflessione sul patinato istituzionalizzato formalizzato, e assolutamente apparente, sistema di valori che il nostro tempo proclama. Un autore che – contro l’ingessata tradizione – si sente, ci sta di fianco, come raccontasse a voce, esclamando, sospirando, aggrovigliandosi continuamente in incisi che trascinano più a fondo o più in adiacenza, col fiato della corsa appassionata, con la foga di un testimone, partecipe, del bene, categoria degna dei salvati di Levi. Da leggere, dimenticando le facili e veloci leggerezze di tanti saggi d’occasione attuali. Alla fine è come essere andati a lezione di speranza.

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