Se qualcuno magari l’avesse sperato, non si tratta certo di un’esposizione da manuale delle preziose tecniche con cui Gualtieri anche dà voce alla poesia. Seppure affermi di portare “in pubblico” i quarant’anni di “esperienza nel dire la poesia”, ci dona invece l’ingresso, l’incominciamento – come lo chiama lei –, verso la “poetica dell’oralità”, su cui lamenta una troppo scarsa riflessione, a causa di una non adeguata comprensione della sua importanza e potenza. Insieme, tra le righe, come una sorta di sottotesto, si possono cogliere anche importanti punti della sua – di Gualtieri-poeta – concezione della poesia, e del suo fare (ποιείν) poesia. La sua pratica quarantennale è offerta, essa stessa, in forma di poesia: qualcosa resta sempre non detto, non espresso del tutto, o meglio, qualcosa resta sempre aperto ad un ‘di più’, un oltre che il lettore può raggiungere, in parte, solo con il suo personale intervento intuitivo, sensoriale, emozionale.

Più che ‘attrice’, Gualtieri sceglie di nominarsi “musicista”, di una voce che torna a “fare evento” delle parole della poesia, restituendone un’“ispirazione” “viva e generante, fecondante”. La voce, infatti, deve “liberare nell’aria il verso” in modo da attuare una attenzione-percezione sacrale del suono, un “incanto fonico” – come promette nel titolo –, che congiunge chi dice e chi ascolta. Gli spettatori, meglio: gli ascoltatori, gli uditori, non sono mai sentiti emarginati ai bordi di uno ‘spettacolo’, ma accolti come necessari dentro il rito, che sazia la loro “fame” e “sete”, purché se ne dimostrino degni con la indispensabile attenzione massima. Gualtieri è molto severa: solo per i veri attenti, una sorta di “aristocrazia degli attenti”, è la voce che dice la poesia. Solo a loro appartiene. Il dire la poesia, infatti, è quasi magico, sacrale, è musica che viene dai versi, che bisogna avere cercato e sentito, da curiosi, da innamorati, da trascinati che si sono lasciati prendere; senza perdersi, però.

Può apparire strana, ma non lo è, l’importanza che Gualtieri dà alla strumentazione tecnica della dicitura. Innanzitutto precisa che tale strumentazione deve essere di ottima qualità, quella “sacra”, quella incantatoria, capace di porgere suoni altrimenti impossibili da cogliere (come lo scricchiolio della saliva, il tocco della lingua sul palato, ecc.), ma che testimoniano la comunione di corpo e parola, quella che costruisce un’“intimità di ascolto come io con tu”, un “tocco” che arriva “al fondo del fondo”.

La dicitura della poesia non può essere raziocinante esposizione delle tecniche ritmiche (anche se devono essere conosciute e studiate, per trovare di ogni composizione la sua armonia), né esposizione-trasposizione delle intime frange del proprio ‘io’, né declamazione da palcoscenico; si offre, invece, in modi sottili, in lievi sfumature che Gualtieri definisce compiutamente con l’espressione “regno” “di appena”. La parola, la voce sono strettamente intrecciate al silenzio, che è “soglia di questo mondo e di altro mondo”; non solo il silenzio “che precede e che segue il verso”, ma anche quello che sta “dentro ogni parola”: ecco perché “ogni silenzio è diverso”. Il silenzio è anch’esso poesia. “Parola e silenzio” sono biunivocamente correlati e necessari: in mezzo sta la tempesta, “acqua turbinante, spaventosa, abissale” e “pericolosa”. La tensione è ad un “magma” che c’è prima, potente, misterioso, prima della ragione. Ad un bordo. Ad un “nulla” in cui si può “precipitare”, ma arricchendosi, per emergere quindi a suono, a vita.

Proprio per questo, suggerisce Gualtieri, bisognerebbe staccarsi dal foglio di lettura, perché la poesia va detta “occhi negli occhi” con chi ascolta, “come incantamento” e non con gli occhi incollati al foglio.  Comunque non bisognerebbe riempire di troppe annotazioni il testo: solo piccoli segni, cenni che servano da input alla memoria. Se possibile, bisognerebbe affidarsi del tutto alla memoria. Imparare a memoria (che è un’operazione molto razionale) la poesia non significa automaticamente saperla, conoscerla a fondo (che invece è canto); impararla a memoria è, deve essere, segno di “un’adorazione”.      

 La postura deve dare stazione sicura e solida, ben piantata in terra, corporeità (bocca, labbra, gola, diaframma sprofondo del corpo) ancorata alle “forze ctonie”, perché le parole della poesia “parlano con la terra”, ne trasmettono l’energia. Ecco, necessariamente implicita, l’importanza del respiro, che deve essere attentamente ascoltato, conosciuto, studiato, perché è un’“unica entità” col “pensiero”. Dire la poesia è infatti un passare da un “pensiero” (astratto) ad un “corpo” (sensibile, attivo, vivente emozioni). Può sembrare assurdo, ma per compiere questo passaggio è necessario il silenzio.

Potente è la sensibilità di Gualtieri che, ad ogni dicitura di poesia, sente l’ascolto di grandi poeti che sono stati e che sono sempre presenti, tutti. Perché la poesia di ieri e di oggi “accade sempre ora”, “nuova com’era”, mai “logora”. Per le sue “molte potenze”, che Gualtieri comincia ad elencare. Per espandersi infinitamente poi nel silenzio dell’“armonia ritmica del mondo, del cosmo, del tutto…”

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