I personaggi di Bret Easton Ellis sono belli e ricchi. Le loro vite sono vuote. Il racconto delle loro vite è terrificante.

     Da questo punto di vista, Le schegge, il nuovo romanzo di Ellis uscito con Einaudi da pochi mesi anche in Italia, non è meno riuscito dei precedenti. Anzi, è molto meglio. Il che renderà felici coloro che, come il sottoscritto, adorano il lavoro dello scrittore losangelino; tanto più se, sempre come il sottoscritto, avevano invece detestato il suo precedente, Imperial Bedrooms.

     Ma – ciò che più conta – Le schegge costituisce un nuovo tassello di quel mosaico che ormai è l’intera produzione di Ellis, una saga in cui ogni aggiunta costringe a riesaminare tutto l’insieme da una diversa prospettiva.

     Erano passati tredici anni da Imperial Bedrooms. Verboso e noioso. Che ora occorrerà rileggere perché, se all’epoca il libro era parso superfluo, adesso appare invece come una tappa irrinunciabile nel percorso dell’autore, un percorso che solo ora ci si sta rivelando; sempre che non si stia rivelando solo ora a lui stesso. Era sembrato un passo falso, ma era comunque un passo. Magari breve, magari non in avanti, obliquo, incerto – ma comunque un passo.

     Flashback. Nel 1985 Bret Easton Ellis ha ventun anni e ha frequentato un corso di scrittura creativa al rinomato Bennington College. Quella che in Italia chiameremmo la sua “tesina” finale diventa un romanzo destinato a farsi notare: Meno di zero. La scarna prosa carveriana e la vacuità della trama sono la migliore rappresentazione possibile degli anni del cosiddetto edonismo reaganiano.

     Gli splendidi teenager statunitensi hanno tutto dalla vita. Figli di genitori assenti (perché troppo impegnati a lavorare o a divertirsi), la loro giornata è un vorticare di persone famose, di canzonette gioiose, di vestiti alla moda, di case e auto di lusso, di party in locali trendy, di sesso facile, di droghe ancora più facili. Soprattutto di marchi – anzi: di “brand”. Questi ragazzi non dicono “occhiali da sole”, ma “Wayfarer”; non dicono “macchina”, ma “Mercedes” o “Porsche”; non “vasca a idromassaggio”, bensì “Jacuzzi”. La forma conta più della sostanza, insomma.

     Anche perché di sostanza non ce n’è: si tratta di un’esistenza così perfetta da non avere alcun valore. Il successo non garantisce la realizzazione, le amicizie sono superficiali e intercambiabili, le mode transitorie, la musica ossessiva, i muscoli gonfiati, il sesso fatto in quel modo mortificante, l’allegria un triste dovere cui è impossibile adempiere senza l’aiuto della chimica.

     Soltanto Clay, protagonista e voce narrante, questo vuoto esistenziale vagamente lo percepisce, lo intuisce, lo sospetta. E, comunque sia, non arriva a desiderare di cambiare, ma di “sparire qui”.

     La denuncia è tanto più potente e drammatica quanto neutra è la narrazione. Ellis descrive la realtà e basta, senza alcun moralismo. Né potrebbe altrimenti, poiché lui stesso è esattamente come Clay.

     Sei anni dopo Meno di zero, nel 1991, il capolavoro: American Psycho. Protagonista, stavolta, è Patrick Bateman, prototipo dello yuppie newyorkese e prolungamento ideale nell’età adulta del precedente Clay. Bateman è la prosopopea del successo: impossibile resistergli, sia che stia snocciolando nomi e brand, sia che ostenti la facilità con cui fabbrica soldi, sia che stia recensendo l’ultimo LP di Whitney Houston, sia che stia descrivendo la propria routine quotidiana per la cura della pelle (con notevole – ma non sorprendente – anticipo sul piglio degli attuali influencer), sia che descriva gli omicidi che commette. Sì, perché Bateman si diverte a torturare e ammazzare chi gli si mette fra i piedi, e a volte anche malcapitati che passano per caso. E a raccontarlo, con dovizia di raccapriccianti particolari, in pagine tuttora difficilissime da digerire.

     Ammesso che sia tutto vero. Perché, in dirittura di arrivo, il comportamento indifferente di coloro che pur starebbero per incastrare il serial-killer lascia in chi legge il dubbio che si trattasse solo di sbruffonate, o anche allucinazioni di una mente sconvolta dall’ambizione. O ancora – e peggio ancora – è anche possibile che nessuno gli creda o – peggio del peggio – che nessuno intenda incriminarlo, trattandosi di cittadino al di sopra di ogni sospetto.

     E nemmeno importa se quei delitti siano stati commessi davvero, e chi li abbia commessi, perché in ogni caso il vero colpevole è una realtà in cui non si contano più le donne ammazzate da uomini che non accettano di poter essere lasciati, gli operai maciullati in ambienti di lavoro non resi sicuri perché il farlo intaccherebbe il profitto delle aziende, le persone lasciate annegare in pochi metri d’acqua e a pochi metri dalla riva perché non siano d’ostacolo all’ecfrasi del Benessere, di intere popolazioni vittime di genocidio nel plauso globalizzato. Per chi osa fiatare c’è il manganello, per chiunque altro c’è la prima pagina, il minuto di silenzio, uno scuotere il capo e poi una rinnovata indifferenza. Proprio come accade a Bateman.

     Patrick Bateman non esiste. È il protagonista di un romanzo. Né fa finta di non esserlo. Continuamente, nel libro, Bateman viene scambiato per qualcun altro o scambia qualcuno per qualcun altro. Bateman non esiste, eppure esiste, e come. Nemmeno l’identità è una certezza, in quel romanzo di Bret Easton Ellis che è il mondo in cui viviamo.

     Si mettano ora in fila le altre opere dell’autore, ognuna in sé compiuta eppure parte di un tutto che già ho osato chiamare “saga”.

     Le regole dell’attrazione, uscito subito dopo Meno di zero e del pari ambientato tra giovani in età da college, affondava ancora di più il coltello nella ferita grazie al frenetico montaggio; ma, soprattutto, personaggio principale è Sean Bateman, fratello minore di Patrick.

     Patrick riappare ancora in Glamorama, poderoso thriller ambientato nell’alta moda, il cui protagonista è Victor Ward, già comprimario di Le regole dell’attrazione. Ancora una volta un personaggio soffre di paranoia a un grado tale che tutta la vicenda è insieme nauseante come un pugno nello stomaco e inconsistente come una bolla di sapone.

     Ulteriori strati metanarrativi vengono toccati, anzi sfondati, da Ellis nel successivo Lunar Park, di cui lo stesso Ellis è protagonista. Senza pudore, Bret racconta in prima persona dello stress subito durante la promozione di Glamorama e dell’orrore che si nasconde dietro l’apparente perfezione della sua carriera e della sua bella famigliola. Identico, beninteso, a quello che si annida in ogni deliziosa villetta americana degna della più patinata delle copertine. Patrick Bateman perseguita Bret Easton Ellis, e non è il solo. Troppo tardi il lettore si accorge che gli eventi soprannaturali non possono, per forza di cose, essere reali. Troppo tardi, perché Ellis è indubbiamente Ellis; e i luoghi, la gente famosa, i fatti storici sono altrettanto indubbiamente veri. In un groviglio inestricabile di realtà e immaginario, l’incubo si è concretizzato. Già c’è chi parla, a proposito dell’opera di Ellis, di “biofiction” o “autofiction”.

     Imperial Bedrooms è semplicemente (ma, a questo punto, il “semplicemente” è relativo) il sequel di Meno di zero. Vi ritroviamo Clay e gli altri, invecchiati, appesantiti, incattiviti e disperati. Clay non manca di detestare lo scrittorucolo che ha trasformato la sua vita in un libro.

     Torniamo al presente. Le schegge è di nuovo narrato da Bret in persona. E narra di come ha concepito Meno di zero, e di ciò che accadeva nella sua vita mentre lo scriveva. Vale a dire il suo ultimo anno di scuola gli amici le feste il sesso le droghe la musica il lusso gli omicidi: tutto ciò che ha ispirato il suo primo romanzo e quelli successivi. Stavolta, dunque, la verità, solo la verità, tutta la verità? Nemmeno per sogno. Ovviamente il libro è “tratto da una storia vera”; ma, altrettanto ovviamente “i nomi delle persone coinvolte sono stati cambiati per proteggerne l’identità”. Invano gli accaniti lettori cercheranno (sta succedendo davvero!) di identificare, a colpi di vecchi giornali, annuari scolastici e social-network i personaggi, e di separare ciò che è reale da ciò che non lo è.

      Come se non bastasse, Le schegge non è un libro e basta. Nasce come un prodotto radiofonico. Bret Easton Ellis tiene uno dei podcast più seguiti degli States, e negli anni ha letto ampi stralci del romanzo, inizialmente presentandoli come un proprio memoriale e senza dire che di romanzo si trattava.

     Non c’è da stupirsi. Buona parte dei personaggi di Ellis lavora nel mondo dello spettacolo. Molte celebrità appaiono, loro malgrado, nei libri di Ellis. Inutile dire che quasi tutti i libri di Ellis sono diventati film (celebratissimo quello tratto da American Psycho). Lo stesso Ellis lavora come sceneggiatore, ed ha anche scritto e diretto una web-serie quando ancora le web-serie erano una novità. Insomma, è ormai impossibile orientarsi nel labirinto di rimandi, anche tra diverse arti e diversi mezzi. Prendere un libro di Ellis, ormai, significa rischiare di vederselo esplodere tra le mani.

     Un’ultima osservazione. Potrebbe sembrare che Le schegge non abbia niente di nuovo da offrire: la società è cattiva, lo abbiamo capito, i ricchi fanno schifo, si sa, il serial-killer è una metafora, e va bene, e persino il finale enigmatico è un po’ riciclato da American Psycho. Però c’è una dimensione nuova, in questo romanzo, ed è quella che mi ha pienamente riconciliato con l’autore. Tale dimensione è la memoria.

     Le schegge non è raccontato al presente, ma al passato. Non è ambientato negli anni Ottanta, ma nel Duemilaerotti. Chi parla non è l’Ellis di allora, è quello di adesso. L’autofiction va sempre più in corto circuito e l’autore, immelanconito, va cercando nel passato le ragioni del presente, e si ripiega sempre più verso il proprio ombelico.

     Oggi, Bret Easton Ellis è un sessantenne imbolsito, inconfessabilmente prigioniero del personaggio che incarna.

     Nei propri podcast e nei propri articoli, si lamenta delle nuove tecnologie, si scaglia contro quegli smidollati dei giovani d’oggi, farnetica del fantomatico “politicamente corretto” e frigna che ormai a Hollywood lavorano più i neri e i gay che i maschi bianchi. Mai stato davvero progressista, sta facendo la figura della star sul viale del tramonto che non riesce a stare al passo coi tempi e passa le ore a ciabattare e borbottare. Come ha fatto a ridursi così, proprio lui che è un sapiente utilizzatore di Internet e di tutti i media, che è omosessuale dichiarato e che ha smascherato come pochi altri la fatuità di una intera generazione, la fallacia del consumismo e l’ipocrisia della nazione più potente al mondo?

     Ebbene, anche questo, nonostante le apparenze, è del tutto in sintonia con la sua poetica. Il disorientamento, per non dire le ossessioni, dell’autore, il fatto che sia consumato da quel sistema di cui egli stesso fa parte e che ha denunciato, la prospettiva memorialistica di Le schegge, l’osmosi continua tra realtà e finzione, così come quella tra libri, film e web, completano a perfezione l’allucinato quadro della crisi contemporanea di cui saremo perennemente grati a Bret Easton Ellis.

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