«Perché poi ho scritto queste poesie / non lo so bene» argomenta Maria Marchesi nell’incipit di una lirica dell’ultima sezione (p. 140), affermazione che non va intesa affatto quale manifesto di una poetica dell’inconsapevolezza, bensì piuttosto in chiave antifrastica: la Marchesi ha intonato il suo «canto delle perdite» (Se non sono diventata il niente, p. 141) nel segno di quella stessa lucidità – nella denuncia e nell’opposizione al negativo, in tutte le sue forme, avendolo attraversato in prima persona – che era di Leopardi o di Artaud e la sua scrittura non assume, pertanto, valore consolatorio o di compensazione, e nemmeno va interpretata riduttivamente quale tentativo di erigere un argine al dolore, dal momento che, per sua stessa ammissione: «Il mio scrivere è soltanto un buio errare / tra funeste stazioni diroccate, tra binari spenti / che tracciano disegni angusti, stenti / ricoveri di stelle cadute nelle pozzanghere» (So che il dolore in parole è appena, p. 144). Dunque, e in coerenza con tante voci liriche del 900, anche al femminile (più che alla Achmatova o alla Cvetaeva, però, verrebbe da pensare alla carnalità eretica della Farabbi o della Cera Rosco. Sul versante americano, invece, la prossimità sembra maggiore rispetto a una Plath piuttosto che alla Dickinson), una poetica della negazione («poema del non essere» battezza l’autrice la propria opera nella lirica La cella era una tana umida stretta di p. 61, dove la “cella” acquista il valore, insieme, di prigione e romitaggio) e dell’assenza con uno spiccato afflato religioso che tuttavia non ha quale approdo una disperata rassegnazione, a dispetto delle durissime prove sostenute: «Non ho più paura se tu osservi / qualcosa e mi rimbrotti. Oh, Dio, ma tu manchi / da diciottanni e io continuo a bere / dal tuo bicchiere rotto, dalla tua infanzia grama» (Divago, è vero, divago per non restare, p. 143). Canto delle perdite, si diceva, ma si dovrebbe anche dire canto di resistenza, dell’opposizione al dolore attraverso l’amore (Mi hanno tradita tutti, p. 138), anche a costo di attraversare, vuoi per scelta eversiva e liberante, vuoi per costrizione (l’esperienza della reclusione e delle violenze patite nel manicomio di Santa Maria), tutte le stazioni della degradazione per una sorta di via crucis a rovescio. Lo sfondo per questa amara e straniante rappresentazione dell’io è una Roma laida, marginale e a tratti ributtante dove anche il Tevere langue «deserto lume incatenato al moto» (Nelle pieghe delle ombre, p. 130), mentre la morte striscia «alle pareti agguantando i desideri» (Mi sono subito abituata alla solitudine, p. 128) e gli scorci di Trastevere hanno qualcosa delle periferie equivoche e insieme vitalistiche di Pasolini. Un angelo caduto («Mi chiamano la puledra, ho le natiche / più belle che Dio possa aver concepito», Mi chiamano la puledra, ho le natiche, p. 125) si muove tra il sozzume, se ne imbratta ma senza lasciarsene contaminare e il suo incedere richiama alla mente il passo di Sbarbaro fra i carrugi di Genova, come quelli di Campana o di Rimbaud: «Ero un fiore delicato / e hanno voluto sciuparmi / buttandomi nel peccato / che io non sapevo che esistesse. / […] / Ma l’ho sempre saputo / che anche imbrattati di scorie puzzolenti / si può salire agili alle vette» (Ero un fiore delicato, p. 137). Né etica né estetica, insomma, la posizione della Marchesi, visto che il suo discrimine è piuttosto una condizione di innocenza originaria (oltre, quindi, o anteriormente alla sfera del bene e del male) che sarà la società a compromettere attraverso l’internamento del deviante (in quanto poeta?!): e anche su questo sia Leopardi che Artaud avrebbero qualcosa da dire. Né ci sembra casuale la scelta di un emistichio di Celan quale titolo del libro, a conferma di una forte contiguità con le poetiche novecentesche, ma anche di distanza e originalità là dove la parola viene ad assumere connotazioni terapeutiche e salvifiche ad un livello puramente terreno e umano, lontanissimo da ogni tentazione stilnovistica di sublimazione: «Mi soccorse la parola, la sola ombra / che ha sangue e carne, / mi dette la pietà che occorreva» (Fu quando apersi gli occhi e vidi l’alba, p. 62), versi che hanno qualcosa della Rosselli. Distanza, peraltro, del tutto consapevole se è vero che la Marchesi non esita a misurarsi, per distinguersene in qualche punto essenziale, da giganti quali Foscolo, Leopardi, Celan, Pound e – meno trasparente di tutti ma indiscutibile – dallo stesso Petrarca attraverso una modalità di trattazione del tema della natura che è agli antipodi rispetto alla poetica della natura/specchio dell’anima, cara anche ai Romantici: la poesia della Marchesi può anche avere delle impennate liriche di classica compostezza ed equilibrio nella trattazione del tema, ma di solito i suoi paesaggi sono scossi dal fulmine o da uragani e il suo “bestiario” è popolato di «oche deformi», «aspidi morti» che piovono dal cielo e «lucciole /  addestrate al combattimento» (M’inseguono camini accesi querce, p. 131), per una visionarietà che se da un lato rimanda al Simbolismo, dall’altro mostra forti contiguità con Farabbi di Adlujé.

Una poetica, quella della Marchesi, che rivendica la propria dignità ad esistere nel momento stesso in cui sembra negarla, eleggendo così l’antifrasi e l’ironia a figure chiave della raccolta: «Io non sono poetessa / ma mi piace scrivere e affermare / di esserlo. Da piccola ho sentito dire / che i poeti sono pazzi e allora / perché non secondare il detto?» (Io non sono poetessa, p. 109), con una carica di autoironia che ricorda quei versi in dialetto di Giacomo Noventa nei quali il poeta veneto giustificava la preferenza concessa al dialetto con l’argomento che seguiva l’esempio di Dante e Boccaccio, che l’avevano fatto per primi.
Nel loro insieme, le tre sezioni in cui si articola L’occhio dell’ala disegnano una vera e propria discesa all’inferno ma senza la prospettiva della redenzione che era di Dante (ed echi danteschi se ne sentono nel libro, per esempio nel crudo espressionismo linguistico e stilistico di questo distico: «La costola sottratta alla sua fame / mi dislocò nella merda del dolore», Smemorata vagavo. La radura mostrava, p. 28) e senza il beneficio di alcuna guida, mentre per contro abbondano aguzzini (medici e infermieri) e carcerieri non meno feroci dei diavoli di Malebolge: «Santa Maria è un luogo / così nascosto che tutti fanno fatica / a trovarlo. Chi ci viene portato / crede di essere morto / […] / Ho sempre la lingua bruciata, il viso / contratto, il corpo lardellato» (Santa Maria è un luogo, p. 106). E tuttavia di tale inferno, com’era già in Baudelaire ed Artaud, la Marchesi può parlare soltanto in termini fisici: «Sarà peggiore l’Inferno? Non credo. / Nell’Inferno brucerà l’anima che non ha / sangue, tendini, vene» (Sarà peggiore l’Inferno? Non credo, p. 88). Del resto, anche il suo paradiso assume le medesime connotazioni antispiritualistiche: «Prima o poi s’arenerà il mondo / su una falda di fuoco rosso-carminio / e una terrazza d’asfodeli mi accoglierà, / sarò ricevuta da uomini belli, gentili, / teneri e ben forniti» (Non vi sono scusanti, p. 120). E questo per la ragione che «è offesa la carne, la pelle, / gli occhi, le mani. È offesa / la mia anima […]» e che scrivere, come resistere, hanno senso solo «per non cadere nel logoro dondolare / del non dolore, / del non esistere esistendo» (È offesa la carne, la pelle, p. 114). E allora, quasi a tardivo risarcimento e insieme quale fermissima dichiarazione di valore, ecco levarsi alto e forte un canto che non necessita di alcuna stampella di sostegno perché s’impone da solo: «Al canto / delle rane uscirò nuda per le strade, / dovranno vedermi che sono bella / e piena d’ardori» (Primavera è a un passo, mi colma, p. 113).

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