Chiara Zamboni ha voluto concludere il suo lavoro di docente di filosofia teoretica all’università di Verona con un convegno su Cristina Campo. Si è svolto il 7 giugno 2022 e ora esce il volume che raccoglie le relazioni di quella giornata, Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, Mimesis ed., non a caso nella collana ‘Lo scandalo della differenza’.
Dopo la lettura degli scritti, l’attenzione alle pubblicazioni, la partecipazione ad incontri che approfondivano la figura di questa grande intellettuale del Novecento, ora troviamo una sorta di rassegna, leggera, alla maniera di Calvino, delle voci che distillano parti del suo pensiero e ne restituiscono la sovrana bellezza.
È vissuta poco Cristina Campo, al secolo Vittoria Guerrini, perché il suo cuore appassionato e generoso, era debole e malato. Avrebbe compiuto cento anni alcuni giorni fa, ma se ne è andata nel 1977. Studiò e scrisse, ma pubblicò pochissimo in vita, spesso mimetizzandosi con nomi d’invenzione, compreso quello con il quale è ricordata. Intense e irrinunciabili le sue pagine sulla fiaba, straordinarie le poesie. Poi, dopo la morte, per iniziativa dell’amica Margherita Pieracci Harwell, la Mita destinataria di molte lettere, e con la cura e l’attenzione critica di Monica Farnetti, sono usciti per Adelphi saggi, poesie, lettere. A questo materiale, di notevole mole ormai, si aggiungono raccolte di saggi, interpretazioni e note sulla figura di Cristina Campo e sui vari ambiti dei suoi interessi culturali, dalla fiaba ai mistici, dalle traduzioni alle liturgie, alla conoscenza fuori da consuetudini e mode di autrici e autori, prima fra tutti Simone Weil.
Lavorò sempre appartata e lontana dal mercato della letteratura, attenta, proprio alla maniera di Simone Weil, Attente de Dieu, “quel ronzio nel sangue che segnala la presenza della parola”[1], parola accurata, senza distinzione di territorio, pubblica o privata, amorosa o poetica, sorretta da quel pilastro che tiene in tensione la sapienza e l’amore per la vita. La stretta correlazione di amore e conoscenza, che è il convincimento esperienziale, alla base di un’intesa profonda con la filosofa andalusa Maria Zambrano, esule a Roma e amica di Cristina Campo, definisce le sue peculiarità e le sue implicazioni: dove la ragione informa l’amore, lì è il luogo  in cui verità e bellezza possono stare l’una per l’altra, dove la dimensione del sacro viene poeticamente rivitalizzata e dove la poesia, anche nell’accezione della fiaba, può intendersi come ricerca religiosa.
È proprio da questo che lo stile è consustanziale all’idea e che lo splendore dello stile, non è un lusso, un estetismo, ma una necessità che vale per prosa e poesia; la prosa non è che la continuazione della poesia con altri mezzi, la pagina stesa all’insegna del rifiuto del superfluo.
Cristina Campo ha scritto poco (e avrebbe voluto scrivere ancora meno), “ma nei suoi scritti c’è un’abbondanza di materiale infiammabile. Raccontando storie altrui, cancellando e accumulando, lei ha incessantemente acceso, infiammato, lasciato ardere un combustibile fatto di amori letterari, musicali, spirituali, di attenzione alle posture…”[2].
In apertura del saggio Parco dei cervi, scrive:

Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro: nell’atto dello scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi.
Nella gioia, noi ci muoviamo in un elemento che è del tutto fuori del tempo e del reale, con presenza perfettamente reale.
Incandescenti attraversiamo i muri[3].

Potrebbe bastare questo per mettere a fuoco un pensiero forgiato sull’ascolto, sulla necessità di porsi davanti alla scrittura, al mondo, alle cose, come eco che si infrange e ritorna carica di cammino e di vento.
Cristina Campo travasava le sue letture, le esperienze, le passioni spesso in mirabili lettere, oggi in gran parte pubblicate. Può accadere di incorrere in un giudizio perentorio e negativo, data la sua propensione per la liturgia classica, per la messa in latino e soprattutto per la scelta di seguire Marcel Lefebvre, l’arcivescovo che osteggiò il Concilio Vaticano secondo criticando ecumenismo, collegialità e libertà religiosa. Se però si torna alle pagine delle lettere in cui mostra una conoscenza profonda di esperienze sociali come quella di Danilo Dolci, di tragedie umane come quella dei minatori di Marcinelle o della rivolta ungherese diventa naturale cogliere nelle sue parole il senso vivente della storia contemporanea. Qualche volta le sue riflessioni sulla contemporaneità prendono la forma di saggio; per esempio Fuga e sopravvivenza, contenuto in Sotto Falso Nome[4], contiene il suo pensiero sull’invasione cinese del Tibet e comincia con una nota profetica:
Le storie di fuga, esilio e sopravvivenza che abbiamo dovuto leggere in questi decenni non si contano più: in un mondo lacerato altre se ne preparano e non è detto che non venga il tempo in cui, sradicata l’umanità a mare usque ad mare et a flumine usque ad terminos terrae, neppure vi saranno più storie di fuga e di esilio ma unicamente storie di sopravvivenza e unicamente, forse, segreta e spirituale.
Ma le Lettere (ad Alessandro Spina, a Margherita Pieracci Harwell, a Gianfranco Draghi, a John Lindsay Opie, a Piero Polito, a Maria Zambrano, a  Leone Traverso, Mario Luzi, Giorgio Orelli…),  non sono soltanto il forziere in cui cercare il pensiero sulla contemporaneità, su autori e autrici (soprattutto donne – era suo il progetto delle ottanta poetesse -), sulla filosofia e sulla poesia, sono soprattutto, a norma di una inveterata e illustre tradizione, lo spazio dell’amicizia e dell’ospitalità. L’amicizia è quanto di eccellente si può reperire nelle relazioni umane, implica condivisione di valori, sintonia di ricerca e rigore, fedeltà, gratitudine e reciproca responsabilità nella relazione. La letteratura, l’evocazione di film, di opere d’arte, di segni, voci, presenze ne sono il tramite; per esempio:

Caro Gian,

Le scrivo da una spiaggetta sul lago, alle quattro del pomeriggio. Il vento mi impedisce di scrivere molte parole; bisognerebbe sempre scrivere al vento. Ci sono i pescatori che hanno tinto le reti e ora le distendono al sole. Sono stupendi: il primo sembra il bandito di Rashomon, il secondo il dio cinese del vento. Quest’ultimo se racconta un’avventura di pesca, si esprime alla perfezione: non solo, nel suo dialetto di Sperlonga, riesce a dire tutto quello che vuole, ma riesce a dire solo quello che vuole, senza nulla che non sia suo e pertinente alla sua esperienza – ciò che di rado avviene in questo mondo.
Zolla si abbronza al sole poco lontano. La sua presenza mi dà gioia e insieme una sottile angoscia metafisica. Mi ha mostrato il suo romanzo La disattenzione che a lei non potrebbe ispirare se non orrore. È il lato notturno, saturnino di Zolla, questo della narrativa. È chiaro che io scelgo il lato speculativo; dove, strano a dirsi, è mille volte più umano.[5]

Elemire Zolla fu compagno di Cristina Campo, a partire dal 1958, per molti anni e con lei condivise lo studio dei mistici e l’incontro con figure fondanti della sua attitudine intellettuale, come Simone Weil e Pavel Florenskij. Aveva conosciuto la filosofa francese negli anni fiorentini ed era stata affascinata dai grandi temi del malheur, della bellezza, dell’attenzione. Proprio l’attenzione è la caratteristica dello sguardo che legge in profondità il reale, nella pluralità dei suoi strati.

… la grande forza dei silenzi, quel movimento di canto gregoriano dalle profonde pause e laceranti riprese, di cui Simone sapeva la necessità perché era il muoversi dell’anima nel suo sangue.

Simone mi rende tangibile tutto ciò che non oso credere[6]

Florenskij è l’incontro con la chiesa d’oriente che Cristina Campo frequentò e amò, circondandosi di un cenacolo di studiosi dei mistici e padri latini e greci, della spiritualità delle icone. Il punto di partenza di questa riflessione si incardina su una precisa idea di bellezza. Non la bellezza della quotidianità, spesso opaca e ferma all’esistente, ma la bellezza simbolica, quella dell’icona, legata ad archetipi, capaci di evocare e rivelare misteri. Come simbolo unisce due sponde, la terrestre e la celeste, e dona alla facoltà contemplativa dello spirito la presenza del trascendente. E per comprendere come si arrivi a questa bellezza, è necessario passare dalla porta della ‘sprezzatura’.


Sprezzatura è un intero atteggiamento morale che, come la parola, necessita di un contesto quasi perduto al mondo d’oggi.

Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta.

Prima di ogni altra cosa sprezzatura è una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza. … Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto.[7]

Nel cerchio della sprezzatura ci si può avvicinare alla sua poesia, “con lievi mani”, per usare l’espressione che le è cara e che prende dall’amato Hugo von Hoffmannsthal (“con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare…”

Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.

Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.[8]


[1] C. Campo, Lettere a un amico lontano, Milano, Scheiwiller, 1989, p. 112

[2] L. Boella, Cristina Campo o l’incompiutezza, in Cristina campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, Milano-Udine, Mimesis, 2023, p. 56.

[3] C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 143.

[4] C. Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, pp. 130-144. Il saggio Fuga e sopravvivenza è del 1969.

[5] C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, Milano, Adelphi, 2011, p. 100.

[6] C. Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999, p. 49.

[7] C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, pp. 98-100.

[8] C. Campo, La tigre assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 21.

  1. Avatar Massimo Pizzingrilli
    Massimo Pizzingrilli

    Grazie a Nella Roveri, un articolo su Cristina Campo quasi commovente, scritto lieve come la lezione che ci porta. “..in un mondo lacerato altre se ne preparano e non è detto che non venga il tempo in cui, sradicata l’umanità a mare usque ad mare et a flumine usque ad terminos terrae, neppure vi saranno più storie di fuga e di esilio ma unicamente storie di sopravvivenza e unicamente, forse, segreta e spirituale.” Ma la sopravvivenza è resistenza diceva Cacciari parlando della sopravvivenza dei classici… quindi anche quella ci appartiene intimamente quanto l’esilio.

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