Non fosse per il riferimento alle risaie e al novarese, questo piccolo romanzo storico l’avrei attribuito con sicurezza alla pianura emiliana, con sbavature verso il territorio lombardo del mantovano e quello veneto del rovigotto. Piane ricche d’acqua, appunto, con canali e chiuse e sistemi idraulici complessi, e tanti pozzi e uomini capaci di farsi guidare dov’era l’acqua. E ‘rezdore’ che reggevano la casa contadina come un mondo da ben guardare e uomini che spendevano ogni energia sul lavoro come per migliaia d’anni avevano fatto quelli che erano venuti prima. I figli maschi portavano nella casa le giovani spose e così venivano i nipoti. Se erano troppi da mantenere era costume comune affidarne qualcuno a un’altra famiglia, a volte per sempre. Nella mia famiglia ce n’è più d’ una, di queste esperienze. E poi la guerra, la Grande Guerra, spaesante, estranea ma obbedita, che ad ogni famiglia ne fagocitò qualcuno e fu talmente violenta e lacerante, come non si era mai vista, che in ogni paese, ancora oggi, non manca una lapide, un monumento a quei caduti lì. In ogni paese d’Europa, e anche in America Latina. L’autrice, abilmente, omette descrizioni dirette della violenza bellica, fa solo scrivere lettere come in effetti quei ragazzi-soldato scrivevano le lettere e solo in una lascia trasparire la mattanza. Che comunque spicca anche nel bianco della pagina, quando, nonostante le pochissime parole per la morte di Giovannino soldato (“Giovannino non c’era più”), e nonostante l’apparente accettazione di un destino (“La sua morte era stata subita come fosse un fatto inevitabile”), la sua assenza buca la pagina attraverso il dolore silenzioso e senza requie della madre:“ Natalina una mattina era comparsa nella vecchia cucina vestita di nero e così sarebbe stato per tutti i giorni a venire.”. Che era davvero il modo in cui ci si schiantava dentro. Anche le altre morti del romanzo sono veloci, senza grida, lamenti, urla. E credo che questo modo di morire senza gli strepiti delle armi da Rambo e gli urli apocalittici da guerrieri ninja potrebbe essere una grande esperienza per il ragazzo che legge. Così come le prime lotte contadine e operaie, per niente da eroi xxx-men, ma realisticamente vissute con tanti timori quanto grandi speranze utopiche. Quasi senza trama, se non la corale vicenda della storia minima, dei più bassi nella scala sociale. Proprio per questo penso che il romanzo dovrebbe essere letto coralmente, da una classe ad esempio, o da un gruppo di ragazzi, o anche solo da un ragazzo, ma a voce alta, accompagnato e condotto da un adulto capace di allargare – ed accertare – quanto viene narrato. Magari con l’ausilio di qualche fotografia, se c’è a disposizione, di quei tempi. Gli approfondimenti finali dell’autrice, che giustamente richiama alla sua esperienza famigliare tante parti, possono essere lo spunto per il lavoro di affiancamento di un adulto. Perché, davvero, tra questo tempo raccontato e il nostro oggi è passato non un secolo, ma millenni. E non deve diventare troppo lontano ed estraneo, questo tempo. Abbiamo ancora molto bisogno di conoscerlo e capirlo, se vogliamo frenare la folle velocità con cui il mondo s’è messo a correre verso la catastrofe. Da fare leggere a più ragazzi possibile, ma tenendo conto che, senza mediazione, molti potrebbero non arrivare alla fine. Troppo privo di effettacci virtuali.

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