Il nuovo libro di Roberto Michilli, 14 Dicembre 1825. La rivoluzione immobile. Il racconto della rivolta decabrista, Di Felice Edizioni, 2022, è davvero importante perché permette al lettore italiano di conoscere, in modo esaustivo, pagine cruciali della storia russa ed europea. L’Autore, con una capacità che va sempre sottolineata, riesce a portarci fin dentro le pieghe più nascoste degli accadimenti e a rendere la complessità e la ricchezza dei contesti storici, sociali e culturali con una levità e una grazia di scrittura che rende la lettura agevole e piacevole. Nella premessa Michilli ricorda che aveva trattato diffusamente della rivolta decabrista nella prima stesura della biografia di Lérmontov ma poi, per non appesantire un testo di circa 800 pagine, questa parte fu espunta. Inoltre, i pochi testi italiani dedicati a questo tema non sono più reperibili da molto tempo; questo lavoro, quindi, colma un vuoto e offre un nuovo contributo di conoscenza. Ancora una notazione di carattere generale: come nei precedenti lavori dedicati a Lérmontov e Flaubert, qui Roberto Michilli intreccia documenti tradotti da lui per la prima volta in italiano, analisi di studi russi ed occidentali, fonti letterarie, un ricco ventaglio di riferimenti bibliografici e notizie storiche, di vicende europee ed extraeuropee, che consentono di avere una visione globale degli eventi. A buona ragione, quindi, questa è quel che si dice una “grande opera”, che qualifica non solo un catalogo editoriale ma arricchisce la cultura italiana ed europea. Ma qual è dunque l’oggetto della ricerca e di quale rivoluzione parliamo? Per rispondere a questa domanda, prendiamo le mosse dall’incipit che è anche la premessa storica agli avvenimenti che seguirono: «Lo zar Alessandro Pávlovič Románov morì a Tanganórg, sul Mar d’Azov, il 19 novembre 1825» e «La notizia della sua morte arrivò a San Pietroburgo il 27 novembre». La morte fu causata da un malanno, contratto a Sebastopoli, manifestatosi prima con un brutto raffreddore e poi con l’insorgere di febbri che segnalavano un aggravamento contro cui nulla poterono fare i medici. Lo zar Alessandro I, succeduto al padre Paolo I, ucciso nel 1801 da una congiura di palazzo, aveva inizialmente suscitato grandi aspettative e il suo regno sembrava promettere, finalmente, cambiamenti e decisioni coraggiose per superare le tante arretratezze e chiusure che caratterizzavano l’impero. Fra queste, particolare rilevanza avevano una burocrazia ottusa e impermeabile ad ogni tentativo di riforma, l’autocrazia e la servitù della gleba. Per comprendere la vastità di quest’ultima condizione, basti pensare ai numeri che l’Autore riporta: nel 1861, quando fu abolita, vi erano circa 52 milioni di contadini, di cui 20 milioni di servi di proprietari privati, su una popolazione di 74 milioni di abitanti. Le pur timide aperture iniziali non incisero in modo significativo sulla condizione generale del Paese, e le speranze originatesi declinarono in fretta. In questo quadro, le guerre napoleoniche furono l’innesco di un lungo processo di maturazione, culturale e politica, che coinvolse gli ufficiali russi appartenenti, in gran parte, alla nobiltà e, spesso, a quella più alta. In particolare, la grande campagna militare del 1813-1814, fu anche una sorta di grande viaggio che permise ad un gran numero di nobili russi, come mai prima, di uscire dal Paese, di conoscere modi di vita, mentalità, istituzioni e società europee, aprendo uno squarcio fecondo nella visione di quei giovani e giovanissimi ufficiali. Tornati in patria vissero l’impatto con una realtà che appariva non più tollerabile, così come lo era veder trattare come una proprietà assoluta persone con cui si era combattuto, fino a poco tempo prima, fianco a fianco, accomunati dalla quotidianità delle campagne militari e dai pericoli delle battaglie. Le cocenti delusioni inflitte ai tanti che avevano guardato ad Alessandro I come ad un sovrano illuminato, la realtà russa vista con occhi nuovi, le ansie di rinnovamento, le nuove possibilità offerte dalla visione liberale spinsero molti ufficiali a dar vita a delle società segrete, per discutere programmi, riforme e azioni. Per la verità, ricorda l’Autore, società di questo genere esistevano fin dal 1814, così come le logge massoniche. Ma se è vero che molti dei protagonisti della rivolta decabrista erano, o erano stati, massoni e le società da loro fondate si ispiravano a queste esperienze, in realtà esse furono, profondamente diverse. Le Società decabriste principali furono quelle denominate, dagli studiosi, del Nord a Pietroburgo, del Sud, che includeva i consigli di tre piccole città dell’Ucraina e, la più democratica di tutte, La Società degli Slavi Uniti, che non annoverava, a differenza delle altre due, l’élite militare appartenente all’alta nobiltà, ma era composta dagli ufficiali più giovani dell’esercito e non della Guardia imperiale. I decabristi, ecco un primo fondamentale punto, rappresentano la prima generazione russa pronta ad abolire i propri privilegi. Non mettono in discussione solo astratti principi ma propugnano programmi che incidono sulle condizioni materiali del popolo e delle altre classi sociali – a cominciare dalle loro famiglie che avrebbero perso le loro ingenti fortune – sull’assetto generale della società e dello stato. Qui risiede il nucleo centrale delle loro riflessioni e, anche, la spinta morale e ideale che anima il loro movimento e plasma le loro proposte: abolizione della servitù, riduzione dei 25 anni di servizio per i soldati e riforma dell’arruolamento, adozione di una costituzione da cui far discendere un nuovo quadro legislativo, un parlamento eletto con un esercizio molto ampio del voto. Una delle questioni più dibattute riguardava la forma dello stato, monarchia costituzionale o repubblica, tema affrontato, con esiti diversi, anche dalle quattro principali società pre-decabriste, di cui l’Autore fornisce ampie e approfondite notizie. Michilli, inoltre, sottolinea come, altro elemento caratterizzante, i decabristi non fossero affatto ossessionati dall’idea della rivoluzione, né la vedevano come unico mezzo per realizzare le riforme e le trasformazioni sociali che auspicavano. Se lo zar Alessandro I avesse davvero fatto quelle riforme o, quantomeno, avesse avviato un processo in tal senso ne sarebbero stati entusiasti sostenitori. I decabristi, pur mossi dalle stesse motivazioni di fondo, tuttavia, non avevano una ideologia condivisa come collante, né avevano tutti le stesse idee su singoli punti o su come gestire l’esito vittorioso della rivolta. Un aspetto importante, che Michilli ricostruisce con grande attenzione, è quello relativo all’apporto della poesia e della letteratura alla causa decabrista. In questo contesto, occorre almeno segnalare La libera società degli amanti della letteratura russa, che nel 1819, si trasforma in una sorta di “falange” di giovani letterati di sinistra e citare i due soli letterati organici al movimento decabrista, Kihchel’beker e Ryleev, Una citazione a parte merita Púškin, per il suo ruolo in queste vicende e per il valore assoluto delle sue opere; figura che Michilli ci restituisce in pagine dense e appassionanti. La morte improvvisa dello zar Alessandro I prende tutti di sorpresa, e qui Michilli affida il racconto a due distinti fili narrativi, fili che poi si intrecceranno nel punto di caduta della vicenda: da una parte la corte alle prese con i problemi della successione, poi risolti con la rinuncia di Costantino e l’ascesa di Nicola e, sul lato dei decabristi, che avevano progettato per anni la rivolta e, alcuni, vagheggiato perfino il regicidio di Alessandro, l’affanno delle discussioni sul che fare di fronte al precipitare degli eventi e alla fase di interregno che si era aperta. Si arriva così alla mattina del 14 dicembre 1825 che vedrà, nelle quattro piazze di Pietroburgo, prendere corpo la rivolta tanto volte evocata e il suo rapido epilogo negativo. Michilli costruisce un montaggio quasi cinematografico degli eventi: vediamo, letteralmente, le pagine animarsi e gli scenari prendere forma. Una lettura appassionante, dal ritmo incalzante, resa ancora più emozionante dalla ricchezza delle descrizioni e dei particolari. Incertezze ed errori di strategia e di tattica, comportamenti incoerenti, defezioni di importanti figure di ufficiali, punti di riferimento insostituibili del movimento, e fra questi quella, determinante, del principe Sergéj Trubeckój, destinato ad assumere il ruolo di dittatore per traghettare il vecchio ordine verso quello nuovo, fecero sì che si creasse quella situazione di immobilità delle truppe schierate nella piazza del Senato, piazza in cui era affluita una gran folla di operai e artigiani – la rivoluzione immobile appunto – rotta poi dalle mitraglie dei reggimenti di Nicola I che portarono rapidamente alla disfatta dei rivoltosi. Tutto si consuma in poche ore, dalle 11 alle 18, bruciando così oltre dieci anni di cospirazioni e progetti. Va sottolineato che i decabristi non avevano voluto coinvolgere il popolo, sia per paura di innescare dei moti di rivolta che potevano rapidamente sfuggire di mano, sia per evitare un bagno di sangue di grandi proporzioni. Erano infatti convinti che i corpi militari, in cui occupavano posti preminenti quando non apicali di comando, avrebbero seguito le loro disposizioni e tutto si sarebbe risolto, anche grazie all’adesione di tanti soldati di altri reggimenti, con scontri limitati fra truppe. Va aggiunto che nei mesi che precedettero la rivolta, molte spie e infiltrati avevano comunicato ai vari comandi non solo l’esistenza della società e gli scopi che si proponeva di raggiungere, ma anche l’elenco di molti degli aderenti. Dopo la sconfitta, altri membri, fino ad allora entusiasti partecipanti, si consegnarono alle autorità, ben prima che fossero inquisiti, facendo, in alcuni casi, i nomi degli altri associati. La rivolta si risolse in un completo fallimento e. per le autorità fu molto facile procedere all’arresto rapido di pressoché tutti gli affiliati. Intanto, i membri della Società del Sud attendevano con trepidazione notizie sugli esiti della rivolta di Pietroburgo e questa incertezza alimentava, a sua volta, altra incertezza sul da farsi, creando anche in questo caso una sorta di immobilità. Ma poi le informazioni cominciarono ad arrivare e, anche qui, molti – conosciuto l’esito infausto – cominciarono a defilarsi e a ritirarsi. L’arresto dei capi della Società, i cui nomi erano ormai tutti noti, determinò, la mattina del 29 dicembre 1825, la rivolta dei decabristi del sud ad opera del reggimento Ćernigovskij. Questa sollevazione durerà più a lungo, fino al 3 gennaio 1826, ma non preoccupò molto le autorità perché, a differenza della prima di cui non conoscevano la reale entità, questa fu circoscritta a quel solo reggimento perché ufficiali decabristi di altri reggimenti rifiutarono di aderirvi. Anche in questo caso vi furono errori, diserzione di soldati e comportamenti non sempre adeguati da parte dei rivoltosi. Michilli ci fornisce un racconto dettagliato, impreziosito da mappe e cartine – come nel caso della rivolta di Pietroburgo – che ci consente di vederne gli sviluppi passo dopo passo, fino alla sconfitta degli insorti. Alla fine, furono arrestati più di tremila soldati e 500 ufficiali. Non essendoci un Codice penale e non potendo applicare le sanzioni, molto cruente, previste in quello di Ivan il Terribile, fu prima nominata una speciale Commissione d’indagine e poi una apposita Corte Suprema per emanare le condanne. Michilli, molto opportunamente, sottolinea come i membri di questi due organismi fossero appartenenti alla stessa classe degli imputati e come gli uni e gli altri si fossero formati nelle stesse accademie e scuole e avessero frequentato gli stessi ambienti. I capi della rivolta affrontarono, nella quasi totalità dei casi, la prigione, gli interrogatori e poi la pena con grande dignità e coraggio, assumendosi le responsabilità e rivendicando la giustezza delle loro idee. Il 9 luglio 1826 fu emessa la sentenza ed inoltrata allo zar per una eventuale riforma della stessa. Delle 579 persone giudicate, 290 furono prosciolte, 134 furono ritenute colpevoli di reati minori e 121 riconosciuti come rivoltosi maggiormente responsabili; 5 di questi furono impiccati e gli altri, dopo aver perso i gradi e la nobiltà, furono condannati ai lavori forzati e alla deportazione in Siberia. Questa operazione che durò due anni, dal 1826 al 1828, fu una vera e propria epopea a cui Henry Troyat dedicò La gloria dei vinti, uno dei cinque romanzi del ciclo. La luce dei giusti. I condannati affrontarono con grande dignità e coraggio le dure condizioni di carcerazione e di lavoro nelle miniere. Due donne davvero eccezionali, Catherine Trubeckoj e Marie Volkonskij, riuscirono nell’impresa, quasi impossibile, di ottenere dallo zar il permesso di raggiungere i loro mariti in Siberia, facendo così anche da apripista alle altre mogli. Il coraggio e lo spirito di sacrificio di queste donne, che per condividere la sorte dei loro uomini, rinunciarono agli agi e alle ricchezze della loro condizione, affrontando pericoli e privazioni di ogni genere, è stato giustamente celebrato dalla letteratura e dalla storia. In questo senso le Memorie della principessa Marija Nikoláevna Volkónskaja – tradotte integralmente per la prima volta da Michilli dal russo e pubblicate per la prima volta fuori dalla Russia in questo libro – costituiscono un documento di straordinario valore umano e storico. La permanenza dei decabristi in Siberia, nei circa quaranta anni di esilio, fino all’amnistia concessa dallo zar Alessandro II il 26 agosto 1856, fu, paradossalmente, una loro vittoria. Non solo non furono vinti dalle avversità e dalle iniziali diffidenze e ostilità, ma riuscirono a lasciare segni di cambiamento indelebili: nei villaggi scuole, sistemi di assistenza medica, nuove tecniche di coltivazione in agricoltura e, nelle città, in particolare, anche circoli culturali e politici. Furono sconfitti sul campo, ma le loro idee, raccolte nelle deposizioni rese nel corso degli interrogatori, finirono per costituire un programma politico a cui hanno attinto – ovviamente in piccolissima parte – coloro che li avevano condannati. Rimane una domanda, anzi ne rimangono due: potevano vincere e, se avessero vinto, quale corso avrebbe potuto prendere la storia russa ed europea? Michilli passa in rassegna tutti i nodi di questi dilemmi, offrendo non solo osservazioni acute e illuminanti, ma anche un grande ventaglio di opinioni. Furono sconfitti sul campo, ma da quella sconfitta nacque un mito che continua e si generò un lievito di idee e di aspirazioni che percorse tutta la storia successiva della Russia, fino alla Rivoluzione d’ottobre del 1917 e oltre, alimentando uno specifico e ricchissimo filone di studi di cui questo libro ci offre una straordinaria testimonianza. A lettura finita ci si accorge che ogni pagina è necessaria, che ogni notizia, ogni riferimento, ogni biografia, ogni racconto, ogni fonte è indispensabile perché ogni elemento concorre alla definizione e alla precisione di un grande affresco, in cui anche il dettaglio è essenziale e senza il quale il quadro generale ne risulterebbe gravemente impoverito. E una storia, una storia come questa, ha bisogno, per essere compresa, dell’apporto corale di tutti i protagonisti, piccoli e grandi, perché quello che Roberto Michilli restituisce è davvero il racconto di una grande epopea e questo libro è, anche, un grande romanzo epico. Anche per questo, a dispetto della mole, la lettura scorre via con grande agilità e si rimane soddisfatti e grati perché Roberto Michilli è riuscito ad appagare ogni curiosità, a illuminare ogni nesso, a dar conto di ogni snodo e delle conseguenze generali determinate dal coraggio e dalla pavidità dei protagonisti e dei comprimari, con un linguaggio scevro da ogni compiacimento o autoreferenzialità ma, come sempre, limpido e al servizio del lettore.
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