A partire da un recente libro, Fare scuola a Scampia, di Nicola Cotugno.[1]

Quella che segue non è una recensione del libro, è un riconoscimento al libro e al suo autore, che conosco da anni e quindi non riesco a separare il testo da lui, come si converrebbe, per aver messo in moto una serie di ricordi e considerazioni. Che sono tutte mie, Cotugno non ne è, eventualmente, responsabile.
Sono immagini che si accavallano, spunti per riprendere pensieri aporetici sull’educazione, cose che magari facevo “quadrare” e che ora non quadro più.
Ne parlo da “dentro”, sono stato fra i maestri di strada della prima ora del progetto Chance, quest’anno avrebbe compiuto 25 anni e, a rileggerlo, ringiovanisce. Non faccio più il maestro di strada, ma lavoro, molto prossimo alla strada, in diverse parti d’Italia, sempre nel campo della lotta (orrenda parola) alla dispersione scolastica e all’inclusione sociale più in generale. Mi sento, dunque, esperto (orrenda parola n° 2)[2] del campo, diciamo: un testimone abbastanza privilegiato.
Una premessa forse serve, giusto per capire, spero, il titolo.
Perché “senza peli sulla lingua”.
Il lavoro educativo, e quello sociale più in generale, è sottoposto a una sorta di ricatto narrativo. Le istituzioni, ma talvolta anche i donors privati, prefigurano in modo forte e netto i risultati da raggiungere e aspettano una rendicontazione che avalli l’investimento in questa direzione. È come se le pratiche dovessero essere “prefigurate” dall’obiettivo e le narrazioni, così, forzate a evidenziare i successi attesi. Cosa in una certa misura necessaria e augurabile, tranne il fatto che ci si rifiuta di apprendere, dalle pratiche, segnali nuovi per forme nuove, per politiche nuove. Dicendolo grossolanamente: tutte le sperimentazioni hanno senso se passano per la cruna dell’ago dell’esistente, del pre-scritto. Anche laddove, invece, non sono solo i cammelli il problema, ma la cruna; ovvero, anche laddove il lavoro che si fa riguarda lo sforzo di modificare la cruna. In questo atteggiamento si rivela l’aspetto misero del discorso “inclusivo”, che si riduce a essere un discorso normalizzante, che alimenta di continuo, sotto mentite spoglie, la stigmatizzazione della difettività dei destinatari e, sullo sfondo, la loro colpevolizzazione se non sono capaci di “usare” le risorse messe a loro servizio. Lo sforzo inclusivo, spesso, infine, diventa uno sforzo per includere nelle forme esistenti così come sono. Un esempio per tutti, nel campo strettamente educativo, che riguarda i drop out: le sperimentazioni sono “buone”, pronte a essere valutate good e best practices, solo se sono giustificate come un anello mancante dell’evoluzione verso la “vera” scuola.
 Se la valutazione diventa “finalistica”, le narrazioni, questo è il punto, sono curvate a diventare prove e retoriche di questo atteso percorso. Hirschman usava l’espressione “reverence for life” per dire che la vita è un processo ricco di inattesi e di inattese soluzioni, anche lontani dalle progettazioni, dalle programmazioni, dai risultati attesi; e che la stessa valutazione dovesse avere a cuore questa attenzione e questa focalizzazione sulla vita che inventa, al possibile più che al realismo.[3] La vita ha molto da insegnare, noi avremmo molto da apprendere, Istituzioni comprese.[4]
Serve uno spazio per provare a dar conto di questi inattesi apprendimenti, di queste inattese forme che “emergono dall’emergenza”. La metafora dell’anello mancante, metafora su cui varrebbe la pena riflettere, direbbero la maggior parte degli evoluzionisti, non serve a nulla, perché quelle forme che ci affanniamo a considerare tappe per una forma, la vera scuola, già definita, sono invece forme vitali in sé stesse, sono un mondo e non la preparazione a esso. Non riusciamo a fare i conti con questo dato.
Provo perciò a usare questo cantuccio per una narrazione di alcune cose che accadono. Anche se servirebbero altre narrazioni, molto più autorevoli delle mie. Se dovessi catalogare alcune di queste storie, direi: “aporie”. Aporia è una strada senza uscita. Una difficoltà logica senza soluzione. Disorienta le certezze, eppure bisogna partire da lì. L’aporia ci educa; e ci insegna qualcosa.
Abituati dalla nostra formazione banalmente dialettica, siamo portati sempre a pensare che tutto sia sintetizzabile; abituati dalla nostra tracotanza decisionale, tendiamo a costruire gerarchie ed esclusioni, a rendere tutto binario, giusto/sbagliato: ricattati dalle narrazioni finalistiche, tendiamo a negare l’irriducibilità di valori e scegliamo opportunisticamente quelli mainstream. Ma le pratiche sono ricche di aporie e non siamo abituati a confrontarci con queste.
Provo qui a parlare di una delle aporie più diffuse: la misurabilità (gli standard) e l’incommensurabilità dei percorsi educativi; l’incommensurabilità non significa che non siano misurabili, ma significa che non siano cum-misurabili, che non siano cioè, ridotte a una scala di riferimento che consenta e costringa a parametrare i percorsi singolari su una scala esterna alle singolarità.[5]
Torno al libro e ai suoi spunti. Il libro parla anche di questo. Dimenticate, per prima cosa, il riferimento a Scampia, non è un libro a sfondo sociologico sul famoso quartiere napoletano. Al posto di Scampia, per quello che mi riguarda, potrebbe esserci qualunque quartiere a rischio, ma forse qualunque scuola. Non parlerò pertanto di Scampia, anche perché sarei risucchiato su un terreno per me noioso, stereotipato, addirittura stigmatizzante. Parlerò di Nicola e di tanti come lui. Lo utilizzo come figura esemplare, irriducibile, come spero di dimostrare, a modello, ma, proprio per questo, molto vera.
Lasciate stare anche la prima parte del libro, una parte che non mi è piaciuta: c’è un tono troppo da pioniere, pare che prima nessuno si fosse posto i quesiti o avesse sperimentato le cose che Nicola racconta, e non è così.
Dopo questa parte, il libro è un crescendo. Di cosa parla? E qui vengo a quella che mi appare, nel libro, ma un po’ ovunque, forse l’aporia principale dell’educazione o, meglio, delle sperimentazioni educative. L’impossibilità di riportare le pratiche a un modello espandibile e replicabile.
L’irriducibilità a modello del “corpo docente”.
Al centro del libro si insedia il “corpo”, un vero “corpo docente”, di Nicola. Ciò che muove il suo agire è l’emozione (lasciate stare le formulette melò sulle emozioni, perché l’emozione di cui si parla sono le emozioni di cui parlano le neuroscienze). L’emozione è il segnale di una percezione del mondo, di una sua prima rappresentazione.  Non è, l’emozione, in questo discorso, un fremito morale, ma una pulsione all’agire, alla realizzazione di sé, è il frutto di una relazione empatica.
Finalmente, forse è la prima volta che capita nella letteratura che conosco, le passioni tristi lasciano il posto alle passioni della letizia (penso che c’entrerebbe Spinoza, ma non lo conosco tanto da poterlo proporre); è una mente a fior di pelle. La percezione del contesto è il primo dato di contesto. L’agency è una passione (anche qui, lasciate stare le letture banalizzate e romantiche e ineffabili). E questa passione sposta le cose, è un attore, un soggetto di cambiamento, un inventore di contesti. Non vi è riferimento a teorie filosofiche o pedagogiche, un’idea che si deve realizzare, un dovere morale; c’è un corpo, dapprima credo in solitudine, che va, letteralmente, avanti e indietro, nello spazio, nei contatti con altri corpi (ecco, i ragazzi e le ragazze sono anch’essi, per Nicola, corpi, non menti separate), avanti e indietro fra percezioni, domande, ipotesi, invenzioni, interazioni, retroazioni. Nicola muove anche altri corpi, i corpi dei colleghi (di alcuni). Le sue proposte sono ipotesi di ricerca, non ricette.
Il “corpo docente” di Nicola abbandona, è una vera e propria evasione scolastica,[6] tutti i protocolli, tutti gli steccati, tutti gli statuti professionali.
Questa è la prima in-cum-mensurabilità: la pulsione ad agire non si insegna, non si modella, è un dato di fatto, per cui, di fronte soprattutto alle perturbazioni ambientali della nostra (o di qualunque?) epoca, le reazioni del vivente sono diverse, ma tutte riconducibili alla stessa necessità: salvaguardare la propria organizzazione, e alcuni scelgono la chiusura, altri l’apertura; per tutti è comunque in ballo una forma di equilibrio. Non c’è giusto e sbagliato, siamo al livello di fenomeni entrambi veri, entrambi irriducibili. In questa pulsione non c’è dunque un elemento di superiorità, un primato.
Dico subito, ma non affronto qui la questione, che non si tratta di difendere forme di autarchia (che alimenterebbero o coinciderebbero con reti di potere locale); si tratta, invece, di affrontare la questione rispetto all’assenza di un “terzo”, un terzo pubblico, politico, che definisca la visione e la funzione educativa generale con cui confrontarsi,[7] in un orizzonte sovraindividuale. Questo dialogo[8] può avvenire solo se accompagnato[9] dalle stesse istituzioni, in una postura di apprendimento delle istituzioni stesse. È un argomento complesso e le urla ideologiche e la melma dell’opportunismo cencelliano e impediscono, allo stato attuale, di parlarne.
Il campo dell’educazione si configura come un campo della diversità pedagogica, come una fiorescenza di realtà situate, che vanno messe in comunicazione, fra di loro, senza misurarle su modelli prestabiliti. Con una bella immagine, un DS trentino[10] parlava di biodiversità educativa. La cultura politica di fronte a questa diversità (come del resto avviene in quasi tutte le aule scolastiche tra i ragazzi) è di riportare – di includere? – le differenze in un modello comune, in una “vera” forma, laddove lo sforzo principale (come avviene o dovrebbe avvenire in tutte le aule) è quello della messa in comunicazione, in dialogo, delle differenze.[11] I modelli che eventualmente emergono sarebbero “convenzioni”, non l’esito di una guerra sulle “convinzioni”.
La scuola come ambiente di democrazia sorgiva, insomma.
Che cosa emerge da questa tellurica ondata di disordine che il libro descrive? Carla Melazzini, a Chance, leit motiv ripreso nell’imperdibile Insegnare al Principe di Danimarca,[12] curato da Cesare Moreno, parlava di “spazio di parola” dei ragazzi e delle ragazze. Ma cos’è questo spazio della parola, tante volte mal inteso? Ho sempre collegato quella profonda espressione di Carla Melazzini con una frase che de Certeau riferiva al Sessantotto. Cos’era stato il Sessantotto? Una grande “presa di parola”, questo era l’evento, l’evento che definisce l’essenza della democrazia, della nostra democrazia.

Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate. Mentre i discorsi a verità garantita si zittivano e le “autorità” si facevano silenziose, esistenze congelate si schiudevano in un mattino prolifico.

Nel libro quasi si tocca con l’orecchio questo evento, che trabocca nelle pagine attraverso le voci dei ragazzi, ma anche, se ci fate caso, dei colleghi di Nicola.
Dal mio punto di vista, il richiamo alla Costituzione, tanto invocata, tanto urlata, è questo: rendere possibile la presa di parola di ragazze e ragazzi dentro la scuola e dovunque; e nasce, come Cotugno fa vedere molto bene, dall’ascolto dei docenti verso gli alunni, non dall’ascolto degli alunni della parola dei docenti. È una condizione circolare: la valutazione, da parte dei ragazzi, di un adulto come adulto significativo apre lo spazio alla parola. In una frase bellissima, un ragazzo, pochi giorni fa, ha detto a un educatore: a te t’o pozzo dicere, a te lo posso dire; sentirsi ascoltati, presi sul serio, a prescindere dalla pre-considerazione di serietà degli argomenti, è lo spazio di parola, altro che rispondere “a tono”. Quel parlare, quella distrazione che tanto spesso viene criticata, come un ostacolo a fare lezione, è invece la fonte della lezione. Hanno diritto di cittadinanza.
Questo forse il libro non lo sottolinea, ma lo esemplifica potentemente.
Ma cosa c’entra l’incommensurabilità?
Il libro ci parla di democrazia a scuola, sull’onda del richiamo all’articolo 3 della Costituzione.[13]
Ma questo richiamo sacrosanto non sempre è utilizzato per riflettere sul fatto che un ostacolo grave è la mancanza della parola dei ragazzi (e magari anche dei docenti o degli educatori). E nel libro Nicola descrive, magari oltre la sua stessa consapevolezza, l’emergere della parola, della parola che non si misura sul vocabolario adulto, sul vocabolario “democratico”; è, in questo, una parola eccedente, che mette al centro proprio la capacità di esprimere, anche fuori dalla misurabilità, e dalla conseguente valutazione di congruenza con il testo del potere (leggete questa parola senza enfasi ideologica, leggetela attraverso la percezione e l’emozione, se diventiamo capaci di coglierla, dei ragazzi).[14]
Il setting della democrazia, anche in aula, si configura: non solo la centralità dei corpi,[15] ma la visione della democrazia come fenomeno sempre sorgivo.[16]
Certo, non è che insegnare, non solo a scuola, ma dovunque, si possa ridurre a questo, e nel libro   di cui parlo   si vedono i saperi e le tecnicalità, dei docenti, la padronanza disciplinare che vengono fuori. Si vede la struttura transdisciplinare del team che sorge.[17] Ma tutto questo può esistere se c’è un campo pedagogico. Mutuo l’espressione di “campo pedagogico” (ma sarebbe importante appropriarci del concetto di campo) da una formula ripresa dalla medicina narrativa e dal suo senso della terapia: “si dà campo terapeutico quando una richiesta e una proposta di cura si incontrano”.[18] Ma questo incontro non è un incontro lineare fra una richiesta, anche esatta sul piano denotativo, e una risposta tecnicamente congruente, nella logica di 1/1. È un campo affettivo e questa affettività, le passioni legate all’agire, determinano l’eccedenza (non l’aderenza al “programma”)che rende peculiare la relazione. La relazione, il campo, in questo caso non è un pre-requisito, un preliminare che determinano il contesto prima dell’interazione, né un orpello, una aggiunta buonista alla lezione. Il libro di Nicola lo dice bene, quando descrive le mille competenze, le mille tecnicalità messe in campo, le reti, non la linea, fra le discipline, l’accoglienza cruciale dei saperi dei ragazzi nello svolgimento dei compiti di realtà emergenti. Una relazione in cui la cosa più importante è la retroazione: a ogni input segue una risposta che a sua volta si configura come inatteso input verso la prima fonte. Non è un campo esecutivo, è un campo continuamente dialogico e produttore di equilibri. Il cuore dell’esperienza didattica narrata è certamente la multimedialità. Sulla sua potenza didattica (aperta, plurilinguistica, centrata sul fare, possibile solo insieme a degli strumenti, cooperativa) si dovrebbe aprire un capitolo a parte.
Insomma: la parola che emerge è qualcosa di incommensurabile, perché la democrazia è il rispetto e l’attesa dell’incommensurabile e il diritto di ciascuno di poterlo essere.
Questa eccedenza, queste emergenze, non sono programmabili, non sono riducibili alla loro segmentazione per fasi e per logica (prima il facile poi il difficile, prima l’alfabetizzazione poi l’esecuzione). È la distanza da quella che Illich chiama le “aspettative”, che sono temporalizzabili per traguardi, misurabili e valutabili per risultati. Il tempo educativo, sempre riprendendo Illich, è il tempo della speranza, è kairos e non kronos.[19]
Riprendiamo la premessa. Si sta provando a descrivere una esperienza didattica come esperienza esemplare di una sua singolarità, di un suo conficcamento situato, della sua incommensurabilità. Per quanto potente sia l’esperienza, per quanto risuoni empaticamente in alcuni miei presupposti e nella mia visione dell’apprendere, qui ci interessa ribadire l’irriducibilità di molte esperienze alla loro misurabilità e modellizzazione; e ci interessa ribadire che il mondo educativo è ricco di fenomeni diversi e conviventi, ma irriducibili a una qualche “vera” forma.
Non si tratta di giocare a Coppi e Bartali, di creare partiti; non si dice come deve essere una scuola o un setting di apprendimento e formazione; qui si dice che ci sono mille pratiche che popolano la vita delle stesse istituzioni educative. E vengono al pettine campi importanti della misurabilità: la pulsione ad agire degli adulti, la valutazione del “valore” di quel che si fa anche oltre le metriche standardizzate. Se vogliamo una formula, la scuola a cui allude Cotugno è una agorà.
Sono riconducibili a un modello disseminabile, le famose buone pratiche, queste esperienze? Sono, pertanto, misurabili? E ancora, ci siamo arrivati, come si configura il campo della valutazione: gli apprendimenti sono misurabili e sono cum-mensurabili, ossia si possono paragonare fra di loro rispetto a uno standard universale? E, infine, esistono altre forme di misurabilità e di attribuzione di valore oltre quelle degli standard? Se il campo polemico contro la misurazione ha accumulato varie argomentazioni, il rischio è che l’incommensurabilità venga ridotta all’ineffabilità e alla tautologia argomentativa, ed è invece un cruciale campo di riflessione.
L’aporia cruciale della misurabilità/incommensurabilità si impone, come riflessione sulle esperienze e come nodo teorico, per la valutazione degli apprendimenti (in senso lato, come è giusto che sia, in una prospettiva olistica, come è quella di Insegnare a Scampia). Qual è la metrica a cui si ricorre, o a cui si dovrebbe ricorrere, per definirne il valore e il suo incremento? Come si valuta la cura?[20]
Se ci verranno in mente delle cose da dire, magari alla prossima occasione.


[1] Erickson, 2023

[2] Il mio riferimento critico alla figura dell’esperto è descritto in I. Illich et al., Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Erickson, 2008. Ricorrendo a una distinzione i Dewey, il limite dell’esperto è di rappresentare la conoscenza come un “known”, e non come “knowing”. Oggi saperi esperti chiusi, messi lì come un repertorio inerte, non servono a granché, servono epochè che ci mettano in condizioni “knowing” e accompagnamenti in tal senso. Insegnare a Scampia ne è un esempio.

[3] N. Stame, Tra possibilismo e valutazione: un dialogo con Nicoletta Stame, https://value.invalsi.it/portale/magazine/tra-possibilismo-e-valutazione-intervista-nicoletta-stame/

[4] “È il tradimento delle comunità di pratiche. Siamo pratici del mestiere. Siamo completamente competenti, sia ai nostri occhi che agli occhi dei nostri pari. Ma succede qualcosa. Veniamo mandati oltre oceano, andiamo a una conferenza […] Quale che sia il caso facciamo un’esperienza che ci apre gli occhi verso un nuovo modo di guardare il mondo […] Torniamo ai nostri pari, cerchiamo di comunicare la nostra esperienza, cerchiamo di spiegare che cosa abbiamo scoperto, cosicché loro possano espandere i loro orizzonti. In questo processo stiamo cercando di cambiare il modo in cui la nostra comunità definisce la competenza […] stiamo usando la nostra esperienza per trascinare la competenza della nostra comunità. L’apprendimento così definito è una interrelazione tra competenza sociale e esperienza personale; combina trasformazioni personali con l’evoluzione delle strutture sociali”. Etienne Wenger, Studi sociali, n° 1, 2001.

[5] Numeri, statistiche sono indispensabili per informazioni su un sistema, su tendenze macro in atto. Possono essere starter, ma le pratiche, le implementazioni locali hanno bisogno di inchieste locali. È l’inchiesta, tra l’altro, che “inventa” il territorio di azione, il cosiddetto “contesto”, non un dato elevato a conoscenza.

“A lungo il contesto è stato identificato con quello che resta nello sfondo quando si mette in primo piano l’uomo. La cosiddetta variabile di contesto poteva assumere diverse connotazioni: qualcosa che interferiva con l’agire umano, qualcosa di cui tenere conto per capire meglio il comportamento degli uomini…in ogni caso qualcosa fuori dall’uomo, seppure in qualche modo in relazione con esso”. La scuola come contesto. Prospettive psicologico-culturali, a cura di Ligorio – Pontecorvo, Carocci, 2010.

[6] Non siamo abituati a vedere come e quanto, ormai, la scuola ha successo se diserta l’ancoraggio ai suoi statuti.

S. Pirozzi, Viva l’evasione scolastica, Napoli Monitor, https://napolimonitor.it/viva-levasione-scolastica/

[7] Nella mia lettura, questo è il senso delle “indicazioni nazionali”.

[8] L. Damiano, Unità in dialogo, un nuovo stile per la conoscenza, Bruno Mondadori, 2009.

[9] Varrebbe la pena leggere, su suggestione di Ota De Leonardis, E. A. Abbot, Flatlandia e la stessa  Ota De Leonardis, Nuovi conflitti a Flatlandia, In (a cura) G. Grossi, Nuovi conflitti contemporanei, UTET, 2008.

Conosco due tentativi in tal senso, che prevedevano e prevedono due “cabine di regia”, nel progetto cosiddetto F3, Reti contro la dispersione scolastica, ideato da M. Rossi-Doria, e in Provaci ancora Sam! A Torino. Le cabine di regia in questione si proponevano come due come due “coordinamenti” non segmentali, non distributivi (io faccio questo, tu fai quello), né sommativi delle diverse identità, ma come setting della complessità, in cui le varie identità erano stimolate a risalire in generalità, a un processo evolutivo in cui ciascuno assumeva elementi costruttivi da tutti.

[10] Federico Samaden.

[11] Questa non è una fantasia estemporanea, è una indicazione che viene da una visione della didattica definita come UDL, Universal design for learning. Le belle storie didattiche che il libro racconta sono sicuramente definibili come UDL.

[12] Sellerio, 2011. È imminente una ristampa accresciuta.

[13] “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

[14] La prefigurazione della parola come parola “attesa”, come parola congruente con la lezione, col libro, con i valori arriva fino alla didattica, fino alla valutazione, fino al cardine valutativo dell’uscire “fuori traccia”. Costruisce la valutazione come un campo pedagogico del con-formismo, anche dentro le beate pratiche delle ideologie progressiste.

Il libro di Nicola è da leggere come la narrazione dell’emergere di una didattica inattesa.

[15] J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, 2017.

[16] A. Cavarero, Democrazia sorgiva, Raffaello Cortina, 2019.

Secondo me non è un caso: due donne.

[17] Per comprendere cosa sia una organizzazione di ricerca transdisciplinare, penso che una chiara esemplificazione è la comunità scientifica di Los Alamos, nel film di Nolan Oppenheimer.,

[18] Clotilde Pontecorvo mi suggerì di “leggere ai margini”. Il margine, in questo caso, è un libro che, nel mio orizzonte, parla della cura: W. Procaccio, Il neurone bugiardo, Cronopio, 2019.

[19] Su questo, imperdibile: G. Pasqui, Gli irregolari, F. Angeli, 2022.

[20] L. Centemeri, La cura del comune, https://effimera.org/la-cura-del-comune-alcune-riflessioni-laura-centemeri/.

Imperdibile per affacciarsi a considerazioni, bibliografia e frame finora raramente presenti nel dibattito.

  1. Avatar Nella Roveri
    Nella Roveri

    Grazie per questa riflessione importante e necessaria in tempi in cui si intende l’educazione come repressione e punizione.

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