Michela Murgia: «Il tempo migliore della mia vita» | Vanity Fair Italia

Ho cominciato ad apprezzarla con la lettura di Accabadora, il bellissimo romanzo uscito nel 2009, e ora che è morta penso che il suo contributo a rivivificare il femminismo e le sue istanze originali sia stato fondamentale. La sua voce diretta, efficace, e l’intelligenza critica, pronta, sono state gli strumenti di denuncia di molti degli errori di una società che si picca d’essere moderna e compie ancora incredibili efferatezze soprattutto nei confronti delle donne.
Tuttavia mi separa da lei una diversa modalità di intendere il femminismo e la denuncia dei mali del nostro mondo.
Mi limiterò a tre soli dei suoi libri, Accabadora, Ave Mary e Tre ciotole, perché mi sembra rappresentino tappe significative del suo pensiero, anche se la sua bibliografia è ricca e varia.
Accabadora fu per me una folgorazione: il racconto di una figura femminile arcaica, austera, vecchia, chiamata a “finire” (acabar nella lingua spagnola) coloro che non hanno più alcuna speranza di vita. Pare (leggenda? realtà?) che fino agli anni cinquanta questa figura fosse parte delle tradizioni sarde, rappresentasse un modo di intendere la pietà e così la racconta Murgia, con tutte le sfumature di un sentire, di un ‘dovere’, riconosciuto nel paese, ma ignoto alla ‘figlia d’anima’ Maria che l’accabadora Bonaria Urrai prende con sé quando è bambina. La relazione tra le due è un respiro di libertà per entrambe: la bambina esce da una casa di miseria in cui è ultima di quattro sorelle, nata quando il padre era già morto, poco amata, poco considerata; Bonaria è anziana, possiede una certa ricchezza e fa la sarta, contenta di passare il mestiere, di avere nella casa una presenza su cui essere vigile. Vivono bene, in pace, non fosse per quelle uscite notturne della vecchia che lasciano dubbi e ombre nel pensiero di Maria, finché non scopre cosa significhino e fugge lontana. Il suo giudizio su quell’operato di Tzia Bonaria è perentorio e senza appelli; rifiuta e nega finché non torna chiamata dalla necessità di prendersi cura. È lì che Maria, poco a poco, comprende cosa sia porre fine a una sofferenza, quali tormenti comporti e quale carico vi sia nella scelta.
Qui le sfumature sono molteplici, riguardano il sentimento, l’onestà, la forza di soppesare il dolore, di imparare a stare sul crinale, che è di tutti i giorni, tra il male e il bene, la vita e la morte. Michela Murgia sa raccontare, sullo sfondo di un mondo antico, carico di tradizioni, di intese segrete e di sortilegi, i pensieri e i sentimenti, le oscillazioni del dubbio, l’incerto confine tra ciò che si può fare e ciò che si deve fare.

Due anni dopo, nel 2011, pubblica Ave Mary e mi pare che tutto cambi. Il modo di scrivere e di argomentare diventa una dichiarata scelta politica. Tutto è politico, s’intende, ma un conto è prendersi a cuore una questione ed esplorarne i fondali e un conto è proporre un inventario dei mali del mondo per denunciarli. Ave Mary è quest’ultima cosa, necessaria certo, tanto da restituire gratitudine alla sua autrice che fa una disamina accurata di tutto il negativo, di tutti gli stereotipi sociali che riguardano le donne, soprattutto in seno alla chiesa. Si rivivifica il femminismo, si riporta alla luce il condizionamento culturale che ha fatto le donne schiave e subalterne, si indaga con meticolosa attenzione sui gesti e sulle affermazioni degli apparati religiosi per svelare il subdolo perpetrarsi del maschilismo in ogni piega delle più ‘avanzate’ proposte su famiglia, responsabilità, cura, maternità…
Ed è proprio qui il problema: tanti anni di femminismo ci hanno anche insegnato che andare alla ricerca cavillosa dei soprusi maschili non è una strada fino in fondo appagante, non risponde al desiderio di costruire un progetto che metta in luce il lavoro delle donne nel tempo, sempre eversivo. C’è insomma, in questo rovistare nel male compiuto dall’atavica cultura maschilista, una preoccupante assenza: e tutto quello che le donne sono, e tutto quello che hanno fatto e fanno? Una sola nel libro si salva da abusi, sudditanza e persecuzione ed è Maria, madre di Gesù.
Maria ha fatto solo quello che ha voluto, nei tempi e nei modi che ha deciso, a condizioni stabilite da lei, costringendo di fatto a piegarsi alla sua libertà di dire sì tutto il mondo che la circondava e pretendeva di dettarle legge. …
Il canto liberatorio del Magnificat che l’evangelista le mette sulle labbra a casa della cugina Elisabetta rappresenta a tutti gli effetti un inno al sovvertimento dello status quo. Il Dio che ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili ha anche destabilizzato una volta per sempre la gerarchia patriarcale tra l’uomo e la donna…

Troppo alto il modello per essere preso ad esempio.
Perché non riconoscere, o meglio, mettere in evidenza che su quella scia, le donne, sempre, hanno saputo trovare modi per sovvertire il potere maschile, lasciandolo alla sua logica. Proprio il congedo dalla via del pensiero unico/maschile, l’uscire dal reale realizzato per accedere al reale possibile, è la strada indicata e praticata da tante donne. Penso a Trotula, ostetrica e ginecologa dell’undicesimo secolo, a Ildegarda di Bingen, alle sue scelte sempre lontane dal pensiero dominante del tempo, alle beghine del Medioevo, capaci di un’interpretazione autonoma e originale delle Scritture, poete e protagoniste della via mistica, a Gaspara Stampa e alla rivoluzionaria narrazione dei suoi amori, alle “preziose” del Seicento e alla loro “civiltà della conversazione”, a Domenica Narducci da Paradiso, originale predicatrice in un mondo che prevedeva soltanto prediche maschili, e a tante, tante altre fino alla contemporaneità,  in una scelta che eccede le forme del discorso dimostrativo e aggira l’indimostrabilità con la narrazione. Luisa Muraro ha chiamato “schivata” questo modo femminile che comprende come il pensiero, anche il più puro, non sempre possa fare luce e come talora sia necessario tagliare ciò che sembra ovvio per seguire un’intuizione che sentiamo giusta, vera.
La politica dei diritti, propugnata da Michela Murgia in tutte le sue interviste, scritture, comunicazioni…, è comunque dentro la barca del potere, mentre la pratica relazionale modifica gli atteggiamenti profondi delle persone. La politica dei diritti è dentro il sistema dei rapporti di forza e ogni conquista può essere perduta a ogni cambio di governo; la politica relazionale entra nella tessitura sociale, si rimbocca le maniche e trasforma perché si sforza di comprendere.            
Certo la denuncia del sessismo, soprattutto nelle istituzioni ecclesiastiche e poi in ogni ambito della vita sociale, individuato e analizzato da Michela Murgia, è un enorme favore alla consapevolezza delle donne, ma ho l’impressione che gli esempi della forza femminile nel trovare vie e soluzioni siano talmente ricchi e numerosi da poter muovere una trasformazione radicale della vita e del mondo. Si tratta di conoscerli, di portarli alla luce, di mostrarne la potenza eversiva e l’autorevolezza.

Infine Tre ciotole, l’ultimo libro che Michela Murgia definisce romanzo. Si tratta di dodici racconti, intrecciati tra loro, non sempre visibilmente, dal filo delle solitudini, narrate in prima persona, femminile o maschile, o in terza persona, sottese a patologie o ossessioni, anche quelle più nascoste, più confuse nella “normalità”. Rituali per un anno di crisi recita il sottotitolo alludendo al tempo della pandemia e alla reclusione che ha imposto. È un libro spiazzante, che porta la riflessione su territori continuamente diversi: un tumore che viene assunto come un nuovo io con il quale non deve essere intrapresa alcuna battaglia; una nausea persistente che diventa rifiuto di ogni cosa che abbia a che fare con il cibo e che si risolve solo con un espediente faticosamente rincorso (le tre ciotole che danno nome al libro); la scelta di offrire il proprio utero per un bambino dell’amico più caro e della sua compagna, pur odiando i bambini; la passione per Jimin il cantante coreano riprodotto a grandezza naturale su un cartone da tenere nell’armadio per non svelare al marito e soprattutto al figlio una passione cringe, imbarazzante agli occhi dei giovani, del figlio appunto; e via di seguito.
Ma non si tratta solo della patologia che si mimetizza nella quotidianità, perché ogni racconto mostra pieghe che aprono a incursioni, a volte pacate, più spesso feroci, sui modelli culturali della società che ci appartiene, con la denuncia o con il sarcasmo che è un modo acuminato di denunciare.

Quello che doveva essere un avversario da distruggere (il cancro) le era appena stato dipinto come un complice della sua complessità, una parte disorientata del suo corpo sofisticato, un cortocircuito del sistema in evoluzione, niente di più di un compagno che sbagliava. Non era abituata a perdere a parole. Qualunque battaglia avesse immaginato di fare alla malattia, ora suonava come un progetto autolesionista. Di far la guerra a se stessa non aveva voglia né forze.

In questo paese infame, dove avere prole non è un diritto delle persone, ma solo delle coppie, negli ospedali pubblici ti devi presentare in due. Meno male che, se paghi abbastanza, nelle cliniche private anche il dottore più tradizionalista apre la mente all’evidenza che volere un figlio e volere il padre del figlio sono due cose diverse.

…la gente, se non le fai sentire un po’ di pressione, poi si prende delle libertà che mettono a rischio tutto l’ordine che si è costruito fino a quel momento. Per questo bisogna che a volte i militari facciano qualcosa di più di quello che c’è scritto nelle leggi, altrimenti la prima che ha preso una laurea si mette a dare lezioni per strada su cosa si può fare e cosa no.

È qui che Michela Murgia porta a compimento una missione: denunciare i comportamenti dettati dalla consuetudine, quella generata da un credito culturale falso: famiglia, genere, patria… o la malattia come un nemico con cui combattere.
Ma non basta perché altre riflessioni sorgono alla lettura: quel continuo cambio di persona, nel passato o nel presente, di genere, di voce, in un’opera che si definisce romanzo, trascina verso una continua generazione di suggestioni e di domande. I vestiti della sorella morta, appesi alle sughere di un agriturismo, per essere scelti da amici di varia gerarchia di frequentazione (trimestrale, mensile, settimanale…) che circolano tra gli alberi, toccando le stoffe, accarezzando maniche e volant, alludono a quella congerie di fantasmi, storie e gesti, che popolano la vita quando ci guardiamo alle spalle? E adolescenti che si tagliano le braccia di cui parlare coi genitori in call dallo schermo di un computer, inducono a chiedersi se non sia “una moda vintage… ragazzine senza riferimenti che riesumano subculture fuori tempo massimo”.
Tre ciotole infine possono “rimettere a posto tutte le gerarchie tra stomaco e cervello”, ma creano un nuovo status che diventa “regime normale”, l’archetipo balordo di cosa sia normalità.

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